Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

TEATRO AMLETOSENZASTORIA Stefano De Matteis In altra epoca Carmelo Bene sarebbe stato un comico come pochi, ma oggi del comico gli resta solo il disagio, il disadattamento al mondo e alla società nell'impossibilità di trovare soluzioni che dal confronto con la storia possano risultare produttive. Anche la speranza è impossibile, quella speranza di "essere" che gli fa celebrare ogni sera l'assenza e l'estraneità in una lotta che prosegue da anni, al di là del teatrino teatrale, ma guardando spesso con profondità al teatro del sociale. Solo l'ottusità di certa critica consolatoria e conformista, beata nei suoi specialismi, può tentare di racchiudere Carmelo Bene al teatro: egli continua a sfuggirne da ogni parte, e numerosi sono i segnali seminati in spettacoli come Hommelette f or Hamlet. Come per ogni grande artista, le sue creazioni sono una summa teorica del pàssato riferita al presente, ancor più complessa se il soggetto del lavoro è poi Amleto, da cui la storia di Carmelo Bene non poteva prescindere, co_menon può prescindere la storia del teatro moderno. È da anni che Carmelo "toglie di scena" Amleto. La prima volta risale al '61, la seconda è del '67, mediata già da Laforgue, del '73 è il film, e di nuovo il teatro nel '75, ripreso per la televisione nel '78. Le tappe intermedie sono comunque la prosecuzione di un discorso ininterrotto. Questo Homme/ette for Hamlet è la precisa prosecuzione di Macbeth, filtrato da Lorenzaccio; segue concettualmente le ultime battute di Sir Macbeth: "Annullamento prendimi": una lotta contro il nulla e l'impossibilità di essere eroi o protagonisti. Ma oggi il clima è diverso, allora tutto era emanazione di Bene: l'attorepersonaggio-regista-creatore era lì a sfogliare pagine di testo da stracciare o da trasformare in messaggi per Orazio, a cui Carmelo Bene, delegava, a lui come ad altri, le proprie battute avviandosi all'inazione attraverso un gioço di duplicazioni, di controfigure, in cui si arrivava alla recita della recita grazie al primario intervento di Laforgue. Ora tutto questo scompare e nello stesso tempo ciò che resta si solidifica nella ripetizione di un passato inutilizzabile, che si riduce e si essicca, e di cui tornano però sulla scena gli eroi che vogliono sottomettere la storia. Se precedentemente l'AmletoEdipo non uccideva neppure il padre, qui è il re a mettere in scena la recita della propria storia: l'antieroe è defraudato e vive una tragedia impossibile, anch'essa decaduta a messinscena, pietrificata come il melodramma e mimata come un'operetta. Tra i personaggi, che vengono indicati come situazioni, il re è l'opera, il melodramma, ma più un Conte di Luna senza più passioni perché tutte appagate che una Leonora o un Manrico; ripete la sua cerimonia al di fuori della storia e facendosi beffa della storia, essendone egli l'artefice, colui che ha spodestato Amleto dei contenuti e delle forme del dramma. Anche Amleto, melodrammaticamente, abbandona la ribellione e sceglie l'altra strada, quella dell'amore: ma la sua tentazione è la fuga dal nulla verso l'eterno. Egli prova la libertà estraniandosi dalla storia e "prova" l'amore nella tournée con Kate, la donna e l'altro dell'universo·concettuale di Bene. L'omertà che reggeva il sodalizio tra Sir e Lady Macbeth è fallita e il nulla lo assale. Si chiede solo pietà per gli eredi diseredati da ciò che non hanno commesso e di cui non vogliono subire le cause né gli effetti. Si formulano i termini di una rinuncia e di un rifiuto della storia per interrogarsi sulla Storia. Se il melodramma è Verdi e la sconfitta è quella degli eroi verdiani, la donna è Puccini o la decadenza, in un gioco dove il neoclassico mima (e vince) la classicità come quegli angeli alla Castel Sant' Angelo che sono lì a stigmatizzare l'impossibile volo di Amleto, indaffarati in acconciature e in veli. Anche i biglietti passati a Orazio non servono a innescare una trama bensì a sottolinearne l'incomprensibilità. A tutto questo solo la bellezza e la forma, il marmo e la statua possono sopravvivere, come predominio sulla carne c'è il freddo marmo in cui si scolpisce l'estasi orgasmo della berniniana "Ludovica Albertoni", la madre. "Tutto è bene quel che non finisce mai", oppure "ho messo l'infinito in cartellone", sono resti modificati di quelle "moralità IL CONTESTO leggendarie" di Laforgue che si trasformano in moralità impossibili perché combattono l'amoralità vincente e diffusa: resta solo la pietà per se stessi, e per la storia come agonia che annulla ogni tragedia. L'abilità teatrale di Bene non sembra conosca limiti; sulla scena prende corpo un susseguirsi di concetti che spodestano lo spettacolo affermando una teatralità che abbandona se stessa per inconciliabilità con la storia, sia quella narrata che quella vissuta. Gli antieroi hanno la vita difficile: non c'è salvezza né nella carne né nella bellezza. L'esperienza è inutile, perché ineffettuate, solo la finzione può essere smerciata come esperienza. Il vacuo rumore della ribellione si è sopito, è stato da tempo sconfitto. L'insieme delle tecniche espressive rende ancor più funerea una morte che procede a passo lento e fa dell'agonia lo strumento di un'eco infinita: tutto risulta all'impossibile eroe inadeguato, ogni cosa merita l'indifferenza o il disprezzo. È come se quest'agonia avesse perso il filo conduttore. Spaesato nella storia, tra gli angeli che nulla annunciano, né sciagure né salvezze, anche Bene vuol essere un angelo, per troppo fallita umanità, ma rissoso e ironico, e parlarci di una Storia che nulla dà e tutto ha preso, e dell'inanità di ogni fuga. 21

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