Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

ILCONTUTO MUSICA UN GRANTERRORE DELFUTURO Alessandro Baricco Con scelta felice e intelligente, il Teatro Valli di Reggio Emilia ha proposto recentemente un'accoppiàta da non perdere: La clemenza di Tito mozartiana e Il Signor Bruschino di Rossini. "Eccolo lì: uno si distrae un attimo e immediato arriva il tono servii-beota-cortese da recensione musicale come si deve".) L'operazione aveva un suo primo motivo di fascino nel fatto che si trattava della ripresa di due tra i più ammirati allestimenti degli ultimi anni: l'opera mozartiana veniva da Venezia e vantava la bellezza geniale delle scenografie di Pizzi. Il signor Bruschino era quello allestito a Pesaro, per il Festival rossiniano: con una regia di De Simone che riscatta la fragilità della piéce con una dovizia di gags francamente irresistibili. Rispetto agli originali variava in parte, a Reggio, il cast canoro: con risultati piuttosto tristi nella Clemenza e del tutto felici, al contrario, per il Bruschino: dove una citazione se la meritano almeno Desderi, che in scena fa ridere anche quando sta fermo, e Patrizia Pace, che meriterebbe maggior attenzione dallo star system, visto la voce e la sicurezza che sfoggia. Generosamente, comunque, il pubblico reggiano ha salutato tutti con sorprendente e genuino entusiasmo. Strana gente, quella dell'Opera. A volte micidiale, a volte benevola fino all'assurdo. C'era un soprano, nella Clemenza, che sembrava la parodia di un soprano: giù applausi. Ma il giorno che passa di lì Jessye Norman, cosa fanno quelli, si svenano? Mah. A parte il valore degli allestimenti, l'accoppiata voluta dal Teatro Valli aveva una sua preziosa valenza didattica in virtù degli infiniti e sotterranei legami che legano quelle due opere, così drasticamente differenti e contrarie. Entrambe, tanto per cominciare, sono opere postume: non rispetto alla vita del loro compositore, ma rispetto a quella del genere a cui appartengono. La Clemenza rasenta l'assurdo: composta nel 1791, riprende una tragedia del Metastasio scritta nel 1734e musicata ormai da quasi tutti (Leo, Hasse, Gluck, Jommelli, Scarlatti, Traetta e altri ancora). Lisa come un calzino, insomma. Per di più - e questo soprattutto deve stupire - la scelta del modello metastasiano, per quanto ! sforbiciato e rilucidato per l'occasione, im- ! poneva il riallineamento a una drammaturgìa primosettecentesca che il teatro mozartiano, fin dall' ldomeneo, aveva bril20 lantemente superato. Qualcuno ha parlato di "rivisitazione colta": una specie di remake: come sempre, si tende ad attribuire ai geni troppa intelligenza. In realtà l'anacronismo della Clemenza andrebbe compreso in quel generale processo. di regressione che segna l'ultima stagione del teatro musicale mozartiano. Dal Finale di Don Giovanni all'ultima nota della Clemenza quel teatro non è che geniale regressione: è rifiuto del futuro, è tempo arrestato. Il Commendatore è la foto ricordo di Dèi fatti fuori già da tempo, e per l'occas_ionericiclati, per paura. Così fan tutte è l'immobilità fatta teatro musicale: è come schiacciare pause nel videoregistratore della Storia. Il Flauto magico è la regressione più letterale: il mondo visto da un bambino. E la Clemenza: quella è come fare oggi un western: bisogna proprio non trovare nient'altro, e avere una fifa blu di inventare qualcosa. Il bello, nel Mozart maturo, è questo terrore del futuro. Gran parte dell'umanesimo mozartiano sta in quel terrore. A suo modo Signor Bruschino merita un discorso analogo. Le prime opere buffe di una certa solidità risalgono agli anni venti del settecento: il Bruschino è del 1813. Il grosso delle valenze culturali e musicali dell'opera buffa è stato consumato in pieno settecento: quando ci si mette Rossini l'opera buffa è già In basso: la scena di Pl:z::z:I per La clemenza di Tito alla Fenice. A destra: foto di Tommaso Le Pera. un genere che langue, agli sgoccioli. Rossini gli dà l'ultima scossa, che suona come il traballare del condannato sulla sedia elettrica: in pratica muore nel 1817 con la Cenerentola, ultima opera buffa rossiniana, e in senso stretto ultima opera buffa tout court. Anche qui crepita un preciso terrore del futuro: il teatro musicale rossiniano, sia comico sia serio, non è che una geniale manovra per eludere il "nuovo". Il sistema ha del diabolico: al "nuovo" sostituisce il "diverso"; così si riesce a correre senza andar avantì di un passo. Nella loro comune allergia al futuro, la Clemenza e il Bruschino prodigano genio musicale confezionato con scatole in disuso da decenni. Figlie di generi completamente opposti ..,_l'opera seria napoletana e l'opera buffa - tramandano i due lembi estremi e contrari della civiltà settecentesca: la suprema dignità del teatro serio, grandiosa processione di statue che celebra la sconfitta dell'umano con tanto fasto da convertirla in vittoria; e la canaglieria astuta del teatro comico, che simula la vittoria dell'umano con tanta autoironia da re·nderne in definitiva evidente la effettiva sconfitta. Prendete questi due lembi, cuciteli l'uno all'altro e avrete impacchettato il settecento.

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