Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

LA STORIELLA SALACE E LA SIGNORA CHE NON RIDE ( Il dente finto non è ancora pronto) Da Il signore di buona famiglia (Mondadorl 1934). Un disegnatore di tutt'altra razza ma capace di far satira di costume e ritrarre la nostra piccola borghesia come pochi era il codognese Giuseppe Novello, da poco defunto e che è bene, su questa rivista, commemorare. Era un Grosz all'italiana. Le sue raccolte di vignette - molte risalgono all'era fascista - sono valide tutt'ora, com'è non valida, ma eterna la componente piccoloborghese. Hanno ragione Fruttero & Lucentini, quando nella prefazione a uno degli album di Novello - li signore di buona famiglia (BUM, Mondadori) - scrivono: "Il lettore d'oggi sfoglia questi album con un senso di malessere. Attorno a lui le cose sono enormemente cambiate, le finestre si sono aperte sull'intero universo ... In cucina non si aggirano più le arcigne serve, le burrose cuoche ricorrenti negli 'interni' di Novello. I ritratti dei nonni sono stati tolti dal salotto ... Più niente è riconoscibile. Eppure c'è qualcosa di non caduco, di non legato alla defunta attualità nel teatrino del 'buon' Novello, del 'gentil' Novello. Qualcosa che persiste, che sopravvive intatta attraverso ogni contesto, ogni mutazione ... Ognuno potrà divertirsi a eseguire i trapianti da sé, a spostare la signora della pensione Nettuno in un bungalow delle Seychelles, a introdurre tra due usci cameriere somali e filippine, ad avviare il pullman dei pensionati verso la grande mostra di Manet, a far scrivere alla nonna un bestseller sui suoi trascorsi amorosi... Sì, le cose sono cambiate, si sono infinitamente complicate e moltiplicate. Ma ancora negli innumerevoli intersti:Zisi coglie, nettissima l'unghiata crudele del 'buon' Novello, l'indelebile cicatrice". E infatti l'Italietta di allora rassomiglia sinistramente, fatti i debiti "trapianti", a quella di oggi: allora i divertimenti organizzati dal regime, sempre uguali, con folle entusiaste, oggi il divertimento delle televisioni e dei giornali (applausi) dove ogni "tipo", annidato nella sua nicchia, compare a turno a dire "cucù". I ruoli sono equamente distribuiti: lunedì tocca al nostalgico, martedì al pos tutto , mercoledì al moralista, giovedì al pensatore debole, venerdì al giornalista all'americana, sabato al giullare di corte, domenica al giornalista all'anglosassone. Quando c'è un "buco" subentra di striscio un vetero-marxista, o uno della "sinistra patetica". C'è posto per tutti. I giochi sono fatti. Infine, dopo Altane Novello, ancora un consiglio in campo tragicomico. Dato che notoriamente la nostra critica, impettita e spocchiosa com'è, aborre i libri che fanno ridere o sorridere, temo che non sarà segnalato come merita un libro straordinario, impietoso nel suo humour nero ma anche molto struggente: Novelle da un minuto di Istvan Òrkény (Edizioni E/0, L. 18.000), scrittore amatissimo in Ungheria (il n. 23 di "Linea d'ombra" ha pubblicato sei sue "novelle" non incluse in questarnccolta). Un libro da non lasciarsi sfuggire: nei suoi folgoranti flash Òrkény affonda il bisturi nelle parti guaste e nel contempo ride in modo sublime di ciò che ama, che è poi il modo migliore di amare. IL CONTUTO MEMORIA UNGRANDEDELNOVECENTO Goffredo Fofi Nell'ultimo numero di questa rivista, parlando dei napoletani Ruccello e Moscato (dei quali pubblichiamo dei testi poche pagine avanti) Stefano De Matteis avvertiva l'influenza sulla loro opera di quella di Raffaele Viviani. Diversi anni fa, concludevo una "voce" enciclopedica su Viviani in questo modo: "Nella prima metà del secolo, egli rimane l'unica alternativa reale al teatro borghese di Pirandello, ma, purtroppo, non c'è stato nessuno in grado di poter raccogliere la sua bandiera, né in teatro, né in cinema, né in letteratura". Che sia davvero la volta buona? Le difficoltà di mettere in scena Viviani (la necessità di "cast" molto numerosi, e con caratteristi di alto livello) unite alla irreperibilità dei suoi testi, hanno contribuito al quasi silenzio su questo autore importantissimo, che per parte mia colloco tra i maggiori italiani del secolo, in compagnia dei più grandi. Il gruppo di lavori corali che nell'arco di pochi anni (la fine degli anni Dieci e i primi Venti) copre opere come Borgo Sant'Antonio, Piazza Municipio, Eden Teatro, Festa di Piedigrotta, Campagna napoletana, e quello che io ritengo il suo capolavoro, Lo sposalizio (1919), va considerato tra le cose più belle del nostro teatro e della nostra letteratura: un esempio unico di descrizione amplissima - sociologicamente profonda, artisticamente varia e appassionante, tecnicamente innovativa e al passo con kacquisizioni del teatro europeo del tempo - di una città, di un popolo, di quel "proletariato marginale" che è stato l'ossatura (sfruttata e vituperata) della capitale del Sud. Viviani ha affrontato la scoperta e descrizione della sua città - allora - rinunciando ai canoni della commedia borghese, ricuperati invece più tardi, ora bene e ora, più spesso, male. Egli aveva fatto del coro un protagonista dalle mille facce tutte nette e scavate; servendosi della musica ora come distanziazione antipatetica e ora come dilatazione patetica; e, venendo da quella stessa gente, ne ha saputo vedere la miseria che produce miseria, la costrizione dello spazio, la violenza dei rapporti sociali e sessuali. È la sua crudeltà a impressionare soprattutto, oggi: le viltà, le sopraffazioni, le dure leggi della sopravvivenza, le malignità di un controllo sociale esercitano dal vicolo sui suoi abitanti, l'abilità di certi personaggi a scendere a patti con la propria coscienza, la fin17

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