Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

DISCUSSIONE/CONSOLO IL VESTITOPARLATO Vincenzo Consolo "E sì ver voi aguzzavan le ciglia/come il vecchio sartor fa nella cruna". Questa famosa similitudine è nel XV del1' Inferno, nel canto dei Violenti contro natura (che non sono gli inquinatori), come a scuola, nel bisogno di titolare le scansioni del poema, ci insegnavano. In quel canto è la similitudine del vecchio sarto che strizza gli occhi per infilare l'ago, canto in cui Dante incontra il suo maestro, l'autore del Tesoretto: e a ragione, et pour cause, si sarà detto per secoli. "Siete voi qui, ser Brunetto?" chiede l'allievo ("quel qui così denso di angoscioso stupore - in questo luogo? tra questi peccatori di una colpa tanto vergognosa e così duramente puniti? -" annota il Sapegno, il miglior commentatore della Commedia, a giudizio di Borges). Certo non per ragioni di orientamento sessuale Dante accomuna il modo di guardare dei dannati a quello del sarto, ma per ragioni diciamo di atteggiamento visivo. C'è infatti nei primi, nel loro modo di guardare, qualcosa di furtivo e insieme di insistito, di ansioso e di febbrile nel voler cogliere l'insieme rapidamente escoprire il particolare che appaghi, di bramoso e disilluso, sì che gli occhi si fanno piccoli, aguzzi, come di miope che si sforzi di superare il limite del suo orizzonte visivo; così negli altri, nei sarti, c'è lo stesso sguardo, dato il loro vivere e lavorare in angusti interni, male illuminati, gli occhi sempre appuntati sul particolare monotono e deludente. E c'è quindi, negli uni e negli altri, in questo loro "aguzzar le ciglia", il pericolo della sclerosi, dell'irrigidimento dello sguardo sull'esterno, la superficie, il significante. Questa parola, significante, appartenente alla linguistica, ci fa saltare da Dante a Roland Barthes, e dal medievale sarto all'attuale stilista o creatore di moda. li sistema della moda si chiama un ponderoso studio del semiologo francese, che esamina il fenomeno della moda, ne analizza la struttura. Ma la esamina dall'angolazione francese, e nel momento in cui la haute couture, fatta per le classi appunto alte e dalla massa vissuta come mitologia, si stava trasformando, da produzione artigianale diveniva industriale, di consumo non più di élite ma di massa, dai sacri ateliers si trasferiva negli emporii, nei grandi magazzini. Nel momento in cui dalla Francia il primato della produzione della moda si trasferiva in Italia. A Milano. Perché in Italia? Crediamo sia questa la risposta, rischiando il facile sociologismo e la mancanza di carità di patria: cessando d'essere "artistica" e "culturale", prodotta e consumata da e per una consolidata borghesia, la moda trovava nel nostro paese (paese d'antica cultura e arte sì, ma dove è stata da sempre assente una borghesia e dove il popolo più radicalmente e rapidamente s'è trasformato in massa, cioè supina entità consumistica priva d'identità e di cultura) il terreno più adatto, sgombra d'ogni remora o ostacolo alle sue .nuove esigenze industriali e consumistiche. 12 Perché a Milano? Perché in questa città non bella, non d'arte come Roma, Firenze o Venezia, in questa città exindustriale e affaristica? Per due ragioni, secondo noi. Prima, perché Milano è la città dove la moda poteva essere ed è più "parlata". Dice Barthes: "Perché la Moda parla così abbondantemente l'indumento? Perché interpone fra l'oggetto e il suo utente un tale lusso di parole (senza contare le immagini), una tale rete di sensi? La ragione, lo sappiamo, è di ordine economico. Calcolatrice, la società industriale è condannata a formare dei consumatori che non calcolino; se produttori e compratori dell'indumento avessero una coscienza identica, l'indumento non si comprerebbe (e non si produrrebbe) che secondo i tempi, lentissimi, della sua usura; la Moda, come tutte le mode, poggia sulla disparità delle due coscienze". A Milano, quindi, si possono interporre, più che in qualsiasi altra città italiana, tutte le parole e le immagini tra l'oggetto e l'utente, qui e da qui si possono formare meglio i consumatori, perché qui è tutto l'apparato delle case editrici di rotocalchi, riviste, giornali, agenzie pubblicitarie e ora anche delle potentissime emittenti televisive. Non c'è stato in questi anni, oltre ai cosiddetti addetti ai lavori, poeta o scrittore, sociologo, critico d'arte o esteta, oscuro cronista o grande firma del giornalismo, economico, politico o di costume, che a Milano non abbia bruciato la propria manciata d'incenso alla moda. Un famosossimo giornalista della carta stampata e del piccolo (ma terribile) schermo, campione del più vieto conformismo e predicatore del più greve buon senso, ha chiamato un levigato stilista per farsi firmare il vestitino principe di Galles e l'apparato scenico di una sua trasmissione televisiva. Milano poi (e questa è la seconda ragione), con l'avvento del periodo cosiddetto post-industriale, con la caduta delle istanze politiche e sociali, da quella città brutta che è, e disumana, sia dal punto di vista fisico che climatico, è tornata ad essere insoddisfacente, angosciante, nevrotizzante, dove più si ha bisogno di compensi, di consumi consolatori. Dove più si è spinti a staccarsi dal reale, a vivere nell'irreale. E niente è più irreale, più priva di significato della moda. T.S. Eliot ha scritto che il genere umano è incapace di reggere una misura troppo alta di realtà. Sì, e la storia della civiltà umana è questo continuo oscillare, questo accostarsi e discostarsi dalla realtà. Da cui in questo momento siamo lontanissimi. E a Milano, con grande trionfo e gioia dei "sartori" dagli occhi aguzzi, e degli psicanalisti, più che in qualsiasi altra città .

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