DISCUUIONI/MASI MEDIATORI Edoarda Masi Una lobby, o gruppo di pressione, che i mutamenti del presente hanno investito di una straordinaria crescita di potere e, ad un tempo, di una crisi d'identità mortale, è quella dei sindacalisti. Il loro grande potere congiunto all'azzeramento (o al rovesciamento) del loro ruolo tradizionale è uno dei tanti paradossi, oggi, di una società impotente a riconoscersi quale è e che si maschera dietro i nomi di un passato morto (democrazia parlamentare, sovranità popolare, rappresentanza) e dietro valori inesistenti. Ne deriva una confusione mentale, nei soggetti interessati, dove è difficile distinguere la buona dalla mala fede. È il caso di Bruno Manghi, segretario generale della CISL di Torino, in un saggio recente: Passaggio senza riti, Edizioni Lavoro, Roma 1987. La prima reazione di un lettore non giovane e di formazione marxista è l'incredulità. Come è possibile in un diri- •gente sindacale tanta ignoranza della storia del movimento operaio? Dal primo capitolo si introduce e si sviluppa una tematica, che resterà di supporto a tutto il libro: "La tensione morale ... per molte generazioni, accomuna socialisti, anarchici, marxisti, cattolici sociali, progressisti di varia estrazione ... La sua direzione è la giustizia sociale... il riferimento ... gli ultimi" (p. 23-24). Questo riferimento agli "ultimi" - che sono poi i "poveri" del cristianesimo - sarebbe stato centrale nelle ideologie del movimento sindacale italiano, e sarebbe venuto menò_negli ultimi anni, con l'innalzamento rilevante del tenore di vita medio dei lavoratori (con l'entrata presunta nell'epoca: della "ricchezza"). L'inattualità del riferimento ai poveri ''.ultimi", oggi che tutti sono diventati ricchi, sarebbe una delle cause della presente crisi del sindacalismo. L'asserzione può avere una validità - in termini più che altro psicologici - per un certo numero di "cattolici sociali" colti e bene intenzionati (un po' meno, credo, per i sindacalisti, sia pure di estrazione cattolica). È parzialmente arbitraria per quel che concerne le sfere laiche del movimento sindacale, e palesemente assurda se riferita ai marxisti. Ma l'autore vi ritorna e vi insiste: "Che l'identificazione con gli ultimi ponga problemi è testimoniato dal continuo ricorso che i movimenti di ispirazione marxista (e non solo essi)hanno fatto ad una morale di subalterni inerente la sobrietà dei costumi, le amicizie, i gusti, le abitudini semplici, in una inesauribile rincorsa fra lealtà e trasgressione" (p.31). Sembra di sognare. (1) Un quadro simile non solo è falsificatore del realismo materialistico del marxismo, ma ne cancella l'intera sostanza, là dove la candidatura a classe dirigente degli operai (ben distinti dagli straccioni o Lumpenproletariat) si fonda sul loro carattere non già di poveri bensì di "ricchi", in quanto produttori fondamentali della società industriale. È sufficiente 6 una lettura superficiale del Manifesto del partito comunista per sapere che l'ascesa della borghesia e la sua vittoria sulle classi feudali sono per Marx il modello dell'emancipazione del proletariato industriale. Oggi possiamo accordare più o meno attualità a questo discorso, ma è evidente che gli "ultimi" vi sono totalmente estranei, come sono estranei alla lunga tradizione della parte di movimento operaio che ad esso si ispira. Se si muove da una simile deformazione, o capovolgimento, ne deriva fra l'altro che le sole visioni "disincantate" (cioè non moralistiche) della politica restano quelle della "cultura pluralistico-conflittuale britannica e nord-americana" (ibid.). Naturale, se si omette che il marxismo si fonda non sull'uguaglianza con gli ultimi bensì sulla lotta di classe - e "conflittuale" è di certo, se pur non sempre "pluralista" (sì nella versione socialdemocratica, non in quella leninista). (Nella stessa pagina, e nella seguente, anarchismo storico e populismo russo sono sottoposti a una rapida semplificazione, per non dire altro, se pure non alla deformazione radicale riservata al marxismo.) Leggiamo ancora a p. 40: " .. .l'immagine degli ultimi... sta perdendo forza ... i soggetti sociali in condizioni subalterne e marginali vengono studiati...". Non lo sfiora il sospetto che fra "subalterni" e "marginali" possa intercorrere qualche differenza: non solo Marx ma anche Gramsci è estraneo al suo orizzonte. Queste e altre simili cantonate sono facili per chiunque, nell'Italia degli ultimi quarant'anni, si sia impegnato politicamente nell'area cattolica o in quella comunista. Due culture parallele si sono sviluppate in modo autonomo: entrambe offrivano della realtà una visione parziale che si pretendeva totale; ma almeno ciascuna delle due non pretendeva di identificarsi con l'altra. La confusione comincia durante il movimento degli anni sessanta e settanta quando, rotte le barriere istituzionali, l'incontro fra le due avviene nella superficialità e nell'equivoco. L'impasto psicologico nato da quell'equivoco è per molti una componente esistenziale, una realtà di cui tener conto comunque. Ma la debolezza si rivela quando si tenta di fare storia su un arco di tempo più esteso, su quelle basi franose. Ecco allora l'altra sfasatura, presente in molti della generazione degli anni sessanta: oltre a sopravvalutare il carattere "rivoluzionario" di quel periodo e comunque la sua: importanza (2), essi sembrano scambiare, per così dire, il tempo della propria giovinezza con quello della giovinezza del mondo. L'intera storia del movimento operaio è appiattita su quegli anni. Anche nel libro di Manghi c'è una doppia sovrapposizione di categorie e di tempi. Non si distingue fra la società europea preborghese e quella borghese, dove il rapporto signore-servo, fondamentale nella prima, è sostituito in misura sempre più massiccia da quello capitalista-salariato, con l'affermarsi della produzione industriale. La caratteristica del salariato è esattamente di non essere più un servo ma un libero cittadino al pari del capitalista. (È la precondizione della
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