I&CINEMA CONTRO&ASTORIA Marcello Flores Successo di pubblico e di critica, specie della critica più sofisticata, quella che punta a creare i cult movies, quella per cui il cinema è solo il cinema e la sua storia narcisisticamente utilizzata. Ma giudizio favorevole anche dei critici più "discorsivi", quelli che si basano per lo più sull'intuito e sul gusto e che dalle pagine dei grandi quotidiani e settimanali predeterminano, non si saprà mai esattamente in quale misura, il consenso di larghe masse (e il relativo botteghino). Si sta parlando di alcuni film che hanno in comune alcune caratteristiche: grosse produzioni, registi-autori tra i più affermati, attori di spicco e cast comunque accuratissimi e molto professionali, fotografia, montaggio e musica a grandi livelli. Da Oscar, per intenderci. Ma sono film che hanno anche un altro elemento in comune, di cui pure si è parlato e su cui si sono innestate polemiche (sia pure di corto respiro), un elemento che forse è meno casuale di quello che si può pensare: sono infatti film storici, o almeno film le cui vicende narrate sono profondamente innervate in tessuti storici ben determinati, in momenti di storia emblematici, importanti, significativi, centrali anche per la comprensione di aspetti e fenomeni del mondo contemporaneo che hanno una certa "durata", non passeggeri insomma e finiti una volta per tutte. Proprio questa dimensione storica particolare, diversa da quella tradizionalmente assunta nei film di genere storico, permette qualche riflessione forse non superflua sull'uso della storia in film come L'ultimo imperatore di Bertolucci, Il siciliano di Cimino, Gli intoccabili di De Palma e Hollywood Babilonia dei fratelli Taviani. Occorre subito dire che il problema non è solo quello di rinfacciare a questi autori, come è stato fatto, di non aver "rispettato" la verità storica. E non tanto - come hanno fatto in modo arrogante e impacciato i critici di cui sopra sostenendo che l'arte può ben disinteressarsi del rispetto "esteriore" di una realtà che va vista solo come pretesto e suggestione - perché l'autore è libero di interpretare, dimenticare, sottolineare il materiale da cui ha preso le mosse seguendo solo la propria profonda esigenza estetica senza doversi occupare di "riscontri" tutto sommato superficialicronachistici. Chi dà questi giudizi scorda evidentemente le grandi discussioni - soprattutto estetiche - che in proposito si sono avute, e si arrocca dietro un crocianesimo a volte riverniciato di linguaggio post-moderno che sembra purtroppo essere ridiventato il luogo comune di tanti critici che scrivono su quotidiani e settimanali. No, il punto vero che merita discutere è caso mai un altro. Perché, cioè, autori che vogliono raccontare delle "loro" storie, sempre piu scelgono la storia per poterlo fare, o cascano comunque entro le sue coordinate pur decidendo poi di ignorarle? Quindici-venti anni fa era accaduto esattamente il contrario. Moltissimi autori, e non solo i grandi, avevano scelto il film di finzione e di invenzione, fosse di genere o no (dalla commedia al western, dal giallo all'avventuroso) e ne avevano in parte rivitalizzato lo spirito e riscritto le regole proprio innestandovi dentro una prospettiva storica, una problematica politico-sociale che era storia non fosse altro perché spingeva a un rapporto critico con il presente e quindi con le sue cause. Un profondo senso critico, insomma, affrancava dalla astoricità anche generi tutt'altro che disposti, tradizionalmente, DISCUSSIONI/FLORU a suggerire riflessioni di tipo storico-politico. Ma anche dove l'aspetto storico era meno evidente, o mancava addirittura del-tutto (come in molti film del "free cinema" inglese degli anni sessanta o della "nouvelle vague" francese) era la capacità di dare senso storico al presente o, meglio, di fissare il presente come storia e farne documento insostituibile di lettura e comprensione della società contemporanea, a caratterizzare indelebilmente quei film. Adesso, invece, argomenti e periodi che, pur se scelti solo come sfondo, paesaggio, ambientazione, potrebbero essere assai illuminanti sulla condizione attuale, vengono quasi programmaticamente tarpati della loro capacità di trasmissione storica, sia essa simbolico-evocativa-emotiva che maggiormente razionale. II problema non è dunque contestare agli autori il diritto di "situare" le loro invenzioni narrative nel contesto storico che più preferiscono. Ma tentare di comprendere come mai registi certo non sprovveduti né poco curiosi, possano "ignorare" nel loro intimo estetico, nel loro profondo afflato narrativo, tutte le suggestioni e implicazioni (anche estetiche e narrative) che il periodo storico prescelto come ambiente contiene in sé. Le vicende della Cina dagli anni Venti alla rivoluzione culturale o il periodo del proibizionismo e del gangsterismo pre-New Deal americano o l'emigrazione italiana in America e gli anni della "nascita" del cinema o ancora gli anni del secondo dopoguerra vissuti in una Sicilia lacerata o contesa, sono momenti storici così prorompenti che solo con molta fatica si potrebbe riuscire a impedir loro di "tracimare" in qualsivoglia narrazione ivi ambientata. Nei film in questione (sintomo preoccupante di una tendenza più generale che si rivela anche nei film di serie e di autori meno dotati) vi è un appiattimento totale della prospettiva storica, un appiattimento del confronto e dell'alternarsi tra passato e presente, una dimensione atemporale in cui finisce per cacciarsi il presente stesso e lo spettatore con lui: un fenomeno, insomma, che va ben al di là delle scelte narrative e delle predilezioni estetiche di autori tra l'altro così differenti. Né vale il discorso che si tratta di filmcinema, di opere in cui è la struttura stessa della narrazione cinematografica e il suo dispiegarsi tecnico-estetico a legittimare la propria riuscita, il rigore estetico e il porsi in rapporto costante non più con la realtà ma solo con il cinema e la sua storia. II livello francamente impoverito della riflessione critica ed estetica cinematografica, che non riescemai ad andare al di là - e spesso rimane addirittura al di qua - della riflessione che ebbe luogo nelle riviste degli anni Sessanta, fa salti mortali (linguisticamente parlando) per accreditare queste opere di una sostanza "formale" di grande rilievo. II formalismo è sempre stato un fenomeno assai attento alla storia, e tutte le opere, anche filmiche, che sono state segnate dalla volontà di costruirsi attorno al proprio modo di vedere e raccontare lo facevano, coscientemente, con un rapporto con la storia e con la realtà che era forse discutibile ma sempre ancorato a una visione critico-concettuale. Ormai non più di formalismo si tratta, anche se si utilizzano discorsi estetici più ambigui e apparentemente più sofisticati: ma di puro calligrafismo, di un cinema spot-orientato, il cui orizzonte non è più la narrazione significativa ma la narrazione che può permettere di esaltare il tecnicismo (il montaggio, la fotografia, la musica, la recitazione). L'atteggiamento prevalente di fronte a film come questi, e che anzi accomuna opere e autori così diversi, non è un rifiuto estetico o una distanza per il loro modo di raccontare, e neppure lo sdegno (giusto) per i singoli attentati alla verità storica. È la noia. Ed è una noia che non nasce da incapacità di linguaggio, ma da un linguaggio incongruente e fuori fase, che si parla addosso, che non è veicolo 71
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