Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

MOOERNITAESTORIA UNARASSEGNA Antonella Tarpino Dissoluzione del senso, sapere autofondato, luogo dell' "oltre": i I)Jultiformi tratti del "moderno" occupano ormai ogni riflessione ·sulla storia, ne invadono la fraseologia, concorrono a mutare, nella loro alterità, la stessa immagine del tempo trascorso. La percezione del nostro ieri è filtrata dai raggi di un'era che si riconosce sempre più estranea, sola, mentre i confini temporali di ciò che si definisce "passato" sono in permanente subbuglio. Osserviamo, scrisse parecchi anni fa Philippe Ariès, vasti territori del passato prossimo più recente allontanarsi da noi e confluire nell'area di un'indistinta e informe "età preistorica". Nella scala dei tempi il "passato remoto" appare così estendersi a macchia d'olio e l'oggi farsi più piccolo, estinguersi di giorno in giorno. Questo senso di effimero che pervade l'oggi fino a tramutarlo frettolosamente in ieri, è ben espresso nelle parole dell'americano Martin Berman, autore di un vivace e innovativo libro dal titolo L'esperienza della modernità (Il Mulino 1985);qui il moderno è assimilato al vortice di un moto in perpetua tensione che oltrepassa e divora di continuo se stesso per dar forma a un universo in cui - riprendendo una straordinaria frase del Marx giovane - "tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria"; e dove si sperimenta la vertigine dell'infinita plasmabilità del mondo. La modernità - di cui il Faust goethiano è, nella eclettica lettura di Berman, l'emblema - si libera della viscosità del passato, annienta ogni attrito della simbologia passatista rappresentata dagli arcadici Filemone e Bauci, emancipandosi dalla durata e dagli intralci della memoria. "Solo se non ha requie", recita Faust, "l'uomo impegna se stesso" anche a costo di allearsi con le potenze della distruzione poiché, lo insinua Mefistofele, "nulla c'è che nasca e non meriti di finire disfatto". Modernità è per Berman il luogo dell'ambiguo, suscettibile di ispirare insieme orrore e meraviglia, amore e odio per ciò che promette e per ciò che distrugge. Essa produce altresì eroi ambivalenti: all'eroe positivo, Faust, simbolo del volto tragico dell'evoluzione, si oppongono i campioni di quella tendenza deteriore definita da Berman "modernolatria", che dagli esordi dell'esperienza futurista approda fino alle devastazioni, compiute in nome del moderno dall'architetto roosveltiano Robert Moses: l'autore delle gigantesche Highways che portarono allo sventramento del quartiere newyorkese del Bronx, e alla dispersione della comunità che l'abitava. Su un altro versante - la storiografia di impianto annalista di Le Goff - si può cogliere lo stesso sforzo di misurare la disperata incomunicabilità tra fa modernità inverata fino a estenuarsi e i rallentati fotogrammi del tempo passato, ormai inerte. Termini opposti di questo binomio non paiono tanto, a Le Goff, la coppia passato/presente quanto l'opposizione tra due tipi distinti di progresso: un progresso ciclico, circolare, che situa l'antico, il già sperimentato, e dunque ciò che è depositario dei valori, al sommo della ruota, e il progresso lineare, rettilineo che privilegia invece quanto si allontana irrimediabilmente dall'antichità. Moderno è allora, per il Le Goff di Storia e memoria (Einaudi 1987), ciò che contrasta la norma, che nega il culto dell'autorità cui rimanda l'antico, per divenire superamento dei limiti, corsa vertiginosa verso l'abisso, rottura di ogni continuum dell'esperienza. Il moderno - continua Le Goff - è un processo di accelerazione senza freni volto verso l'inDISCUSSIONI/TARPINO compiuto, l'abbozzato, l'ironico; e nel corso di questa inarrestabile marcia esso tende (come già in Berman) a negarsi, a distruggersi. Segni premonitori di questa attualità inedita che interrompe e trasgredisce gli ambiti di un solidale fluire del tempo storico, si avvertono già in alcuni scritti di Philippe Ariès, redatti nell'immediato dopoguerra ma usciti da poco in una nuova edizione col titolo Il tempo della storia (Laterza 1987). Il passato si rivela a noi - afferma Ariès - tramite una brusca collisione; nell'urto che si produce al contatto ccin qualcosa di insolito. L'intima essenza della percezione del tempo trascorso consiste per Ariès proprio nel senso di sorpresa, di "disorientamento" che esso, in quanto "differenza", induce. È nella sua alterità "traumatica" che il passato si affaccia alla nostra coscienza. La nozione di un cortocircuito temporale - presente nell'insieme della riflessionepiù recente sull'ermeneutica della storia - porta in superficie analoghe combinazioni concettuali tutte inequivocabilmente volte a registrare il divario incolmabile che separa il mondo volubile della modernità dagli innumerevoli ieri, appiattiti sullo sfondo lontano del già esperito. Il moderno non è neppure equiparabile al presente - ammonisce Le Goff - né è interpretabile come misura universale. Perdono infatti di senso i confronti, compiuti dagli studiosi dei secoli scorsi, tra ipotetici tassi di modernità riscontrati volta per volta nelle diverse civiltà. Assimilando questi differenti ambiti temporali si finisce col fare della modernità - avverte Le Goff - un "futuro passato". E Futuro passato è, non a caso, il titolo dell'ultimo libro di Reinhart Koselleck uscito in Italia (Marietti 1986): forse il più idoneo aprecisare il complesso apparato categoriale che sottende al magmatico territorio del moderno. Fedele ai principi della Begriffsgeschichte, della storia dei concetti cui l'intera sua opera si ispira, egli muove dalla semantica storica della nozione di modernità. Il sorgere della consapevolezza di vivere in un'età moderna segna, per Koselleck, l'avvento di un tempo radicalmente nuovo, qualitativamente diverso da quello che aveva caratterizzato fino ad allora il senso del trascorrere dei secoli; e tale da segnare una cesura irreversibile con le altre età: l'Antichità e il Medioevo. Il punto di frattura è rintracciabile, qui, nell'esaurirsi di quella visione cristiana della storia scandita da un tempo neutro, sempre uguale a se stesso perché proiettato nell'attesa di una fine; allora si sarebbe prodotto cioè il trapasso dal tempo della "profezia", risolto e conchiuso in sé (reso nullo in quanto alimentato solo dalla prospettiva della sua fine), al tempo della "prognosi", aperto, sostenuto da un'idea di futuro che vede l'uomo capace di calcolare con un livello di previsione fino ad allora inconcepibile lungo il proprio orizzonte. E nel corso del XVIII secolo, alla vigilia della rivoluzione francese, che si accumulano - prosegue Koselleck - gli indizi di un tempo nuovo: la storia non si compie più nel tempo ma grazie al tempo; si affranca dai ritmi ciclici della natura per acquistare un carattere autonomo e dinamico. Anche il rapporto con il passato muta: la percezione di vivere l'inedito toglie ogni evidenza a un passato paradigmatico, come era stato fino ad allora. Sollecitata da una coscienza temporale "rivoluzionaria", (lo stesso concetto di rivoluzione quale lo intendiamo noi oggi si estende dall'ambito astronomico in cui era nato per indicare i rivolgimenti della politica e dello spirito) si affaccia una nuova idea di Storia. Dalle Historie come cronache di fatti specifici, si passa ora alla Geschichte o Storia in generale. L'apparire di un "singolare collettivo" che racchiude in sé la possibilità di tutte le storie particolari permette ora - l'espressione è tratta da Von Humboldt - "di presentare ogni evento come parte di un tutto, o che è lo stesso mettere in luce in ogni evento la forma della storia in generale''. La modernità si con69

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==