Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

DISCUSSIONINILOffl condo un'ipostatizzazione pseudowittgensteiniana dei giochi linguistici, ma come linguaggio discorsivo, tendenzialmente comunicativo, dove, per esempio, l'enunciazione di una promessa suscita a buona ragione l'attesa di un suo mantenimento (cosa che nessuno si aspetterebbe se la promessa venisse pronunciata da un attore sul palcoscenico o da un personaggio di un romanzo). L'indistinzione tra filosofia e letteratura, tra linguaggio "normale" e poesia mortifica non solo la filosofia, ma anche la letteratura e la poesia: non ogni uso del linguaggio è destinato infatti a "dischiudere un mondo", non tutti i rapinosi balbettamenti e cenni vaticinanti inaugurano qualcosa. La continuità della conversazione universale (auspicata da Richard Rorty), il flusso e riflusso delle interpretazioni, per proseguire in maniera sensata deve prevedere anche la sensatezza dei 'sì' e dei 'no'. Altrimenti il 'sì' e il 'no' degli attori [i normali P.arlanti, per intenderci] che agiscono comunicativamente sono a tal punto prevenuti e soverchiati retoricamente dai contesti linguistici, che le anomalie [... ] rappresentano ancora soltanto sintomi di vitalità dileguante, come processi di invecchiamento, come svolgimenti analoghi alla natura, e non come la conseguenza di soluzioni errate di problemi, di risposte non valide" (p. 210). Qui troviamo le radici dell'esteticizzazione odierna della filosofia (e in certo modo anche della storia), le basi "teoriche" della filosofia come moda, come successione di "stili di pensiero": e al di là del fastidio che il dilagare della moda come categoria ormai sempre più onnipervasiva può suscitare, bisogna considerare come l'esteticizzazione delle problematiche, delle teorie ecc. porti alla loro facile rimozione: basta fare qualche giro di parole e dichiararle infine "obsolete"; che non significa, nel caso specifico, 'inadeguate', 'fallaci', 'rese irrazionali dalle nuove realtà' ecc., ma semplicemente 'rimosse' o livellate e banalizzate a tal punto da poter essere stipate nel grande e comodo calderone della 'metafisica occidentale'. 68 Foto Camera Press Agenzia Grazia Neri. Dire ciò che si è detto, non significa negare che, per esempio, la scienza, nel corso della sua storia, non ha visto naufragare interi paradigmi per ragioni tutt'altro che argomentative, razionali, bensì per pressioni ideologiche, economiche o per "obsolescenza"; ma solo che la categoria molto in voga dell'obsolescenza non può e non deve mascherare rimozioni e livellamenti. Da questo punto di vista, comunque si consideri il libro di Habermas, bisogna riconoscergli il merito di rimettere continuamente e cocciutamente alla prova l'adeguatezza delle teorie che discute, senza ammucchiarle indistintamente nel contenitore dell' "irrazionalismo", complementare a quello della "metafisica occidentale". Ciò che invece Habermas non merita, ciò che non merita la sua storiografia filosofica attenta ai nessi essenziali né la sua difesa "inattuale" di un'istanza di incondizionatezza all'interno del discorso filosofico, è il rimprovero davvero fuorviante che gli ha riservato una delle poche recensioni apparse finora in Italia: e cioè quello di "non differenziare la vague" ["della stilizzazione retorica celata nel radicalismo dell'oltrepassamento della metafisica"] dalle sue ragioni che, verosimilmente non hanno perso cogenza per il solo fatto di essere massificate" (Maurizio Ferraris su "Alfabeta", n. 102). L'accusa mi sembra ingiusta. Né mi sembra corretto dire che "l'obsolescenza della critica della ragione soggettocentrica è il filo conduttore del Discorso filosofico della modernità", se per obsolescenza si intende qualcosa di diverso dal risultato di un vaglio critico sostenuto da un'idea molto precisa e chiaramente dichiarata di ciò che è la filosofia o il linguaggio orientato all'intesa; che non rinunciano affatto alle pretese di verità, alla pretesa di trascendere il contesto determinato, il qui e ora, cioè lo spazio e il tempo, pur nella chiara consapevolezza che "non vi è nessun contesto zero per le pretese di verità. Queste vengono elevate qui e ora e sono esposte alla critica. Perciò noi contiamo sulla banale possibilità, che esse vengano rivedute domani o in altro luogo. La filosofia si intende come prima quale custode della razionalità nel senso di una pretesa razionale endogena alla nostra forma di vita". In altre parole, la filosofia non occupa un luogo diverso da quello della quotidianità, ma tenta di esplicitarne i presupposti e solo in tal modo non si preclude la possibilità di criticarne le patologie e di mediare tra linguaggi "speciali" - le scissioni e differenziazioni · che sono il risultato irreversibile della modernità - e la prassi quotidiana. Quella filosofia che si nega come tale per ibridarsi in un unico testo pseudoletterario onnicomprensivo, si preclude, a dispetto delle sue pretese radicali, ogni critica pertinente alle sfere altamente differenziate delle scienze e del diritto, della morale e dell'arte, e rifiuta ogni possibilità di mediazione tra di esse e il mondo quotidiano. La critica è un valore irrinunciabile del moderno. Per esercitare una critica, per pensare discorsivamente, non è necessario infatti regredire a una ragione sostanziale, a una razionalità soggettocentrica forte che assegna definitivamente ciascuna sfera vitale al "posto che le spetta". Quest'ultima pretesa, e non solo la ragione sostanziale premoderna, a ben vedere - diversamente da quanto affermano di solito i manuali scolastici - si era incrinata già con Kant; e i grandiosi, magnifici fallimenti di Nietzsche e di chi, come lui, si è scontrato duramente con i paradossi di un'autocritica totale della ragione, non possono essere ripetuti all'infinito, né ridursi a materia di un'estenuante esercizio stilistico per ogni trovata: devono piuttosto diventare esperienza acquisita, che non va rimossa né livellata sul termine vago di irrazionalismo, ma semmai ripensata seriamente: nel quadro della proposta di una teoria dell'agire comunicativo Habermas in questo libro ha provato seriamente a farlo.

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