Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

Fl&OSOFIAEtRITltA&ETTERARIA SEtONDOHABERMAS Stefano Velotti Nell'ultimo libro di Habermas tradotto in italiano (Il discorso filosofico della modernità, Laterza 1987, pp. 394 L. 30.000) ricorre un'affermazione che può stupire molti raffinati filosofi europei e americani: "post-moderni", "post-strutturalisti", "decostruzionisti", (o, grosso modo, tutti coloro che oggi sostengono l'indistinzione tra letteratura, critica letteraria e filosofia), .quando non regrediscono a forme d'indistinzione pre-moderne, si muovono, al pari dei giovani hegeliani, su una scena dominata dall'ombra dell' "ultimo Filosofo"; la filosofia mondiale ritenuta da molti come la più avanzata si ritrova d'improvviso ricoperta di polvere e privata della gagliarda originalità, del candore di "tabula rasa" e di nuova, disincantata innocenza, che l'avvolgeva: "essi [i post-strutturalisti] lottano ancora contro quei concetti 'forti' di teoria, verità e sistema, che pure già da più di centocinquant'anni appartengono al passato ... [e] ritengono di dover strappare la filosofia dall'illusione di formulare una teoria che detiene l'ultima parola"; p. 213, nota). A questa terapia di una sindrome scomparsa (se mai tale sindrome è davvero esistita al di fuori di una· filologia cieca, delirante, o da manuale scolastico), si accompagna quasi sempre una storiografia filosofica livellante, che si annuncia di solito come "presa di congedo dalla metafisica". Con la lucidità che lo contraddistingue (e che sa rendere appassionante la lettura di questo libro non sempre facile), Habermas mostra come tale livellamento storico è operato di necessità da quei pensatori che hanno compiuto un balzo fuori dalla "dialettica dell'illuminismo": il primo a compierlo chiaramente è stato Nietzsche (e dopo di lui Heidegger, Derrida, Bataille, Lacan, Foucault; mentre Adorno si è fermato al limite). La modernità, a partire almeno dall'inizio del XIX secolo (avvertita come differenziazione di ambiti vitali prima unitari o più organicamente regolati e come lacerata dalle contraddizioni che attraversano la società civile e lo stato, la religione e la scienza, il sapere e la vita quotidiana), aveva visto fallire, prima di Nietzsche, tre grandiosi tentativi di concepire una ragione che fosse adeguata alle nuove esigenze: I) la ragione hegeliana come autoconoscenza riconciliante, che "stravinceva" sulla realtà, mortificando i conflitti reali, empirici, in quanto inessenziali; 2) la ragione come appropriazione liberante, propugnata in vario modo dai giovani hegeliani di sinistra, che metteva in gioco però un concetto troppo ristretto di prassi, tale da "violentare" invano una realtà infinitamente complessa e resistente; e infine 3) una ragione come memoria risarcente,come sostituto del potere unificante della religione, approntata dagli hegeliani di destra (e riproposta dai neoconservatori di oggi). "In tale situazione Nietzsche non aveva altra scelta che quella di sottoporre ancora una volta la ragione centrata nel soggetto ad una critica immanente - oppure di abbandonare del tutto tale programma. Nietzsche si decide per la seconda alternativa - rinuncia ad una rinnovata revisione del concetto di ragione e manda in congedo la dialettica dell'Illuminismo ... adopera la scala della ragione storica per gettarla via alla fine, e mettere piede nel mito, nell'Altro dalla ragione" (pp. 88-89). Da quel momento Nietzsche diventa una "piattaforma girevole": "lo scienziato scettico, che vorrebbe svelare la perversione della volontà di potenza, la ribellione delle forze reattive e l'origine della ragione centrata nel soggetto con metodi antropologici, psicologici e DISCUSSIONINILOffl storici ·trova seguaci in Bataille, Lacan e Foucault; il critico iniziatico della metafisica, che ricorre ad un sapere particolare e insegue l'origine della filosofia del soggetto fin dentro gli inizi presocratici, in Heidegger e Derrida". Ma tutti i suoi seguaci non possono eludere il dilemma di una critfoa totale della ragione che si riferisce a se stessa. Una delle strategie concettuali messe in atto per sfuggire a tale dilemma consiste nella cancellazione della differenza tra letteratura e filosofia, tra critica Letteraria (intesa come prosecuzione della letteratura) e discorso argomentativo volto all'intesa. La questione è molto spinosa, perché coinvolge non solo il classico problema della distinzione teorica (e non semplicemente intuitiva, di fatto), tra letteratura (o arte) e discorso "normale" (o ciò che arte non è), ma anche lo statuto dei nostri discorsi quotidiani, il reciproco intendersi, la possibilità- in linea di principio - della comprensione tra uomini di una stessa cultura e di culture diverse, vale a dire che la possibilità di convincere qualcuno della validità, giustezza o superiorità delle proprie opinioni senza ricorrere esclusivamente alla sollecitazione di strati affettivi tramite la retorica, o la violenza. Che poi, di fatto, ciò sia in moltissimi casi difficile o quasi impossibile, è tutt'altra questione, non meno importante al dunque; ma, ripeto, del tutto diversa da quella sollevata dai "poststrutturalisti", secondo cui l'intendimento non è altro che un caso speciale del fraintendimento, per cui il fraintendersi non presenterebbe sempre la possibilità di giungere a un'intesa effettiva. Ma cosa c'entra tutto questo con l'indistinzione tra filosofia e letteratura? Il pensiero discorsivo può criticare totalmente se stesso, o a prezzo di una contraddizione lampante (cioè riconoscendo di fatto nello stesso pensiero discorsivo l'unico mezzo per metterne a nudo la radicale insufficienza), oppure parlando un linguaggio "speciale", che rivendica un rigore anch'esso "speciale", come, per esempio, quello letterario: questa è la mossa fatta da Derrida e dai suoi seguaci. "Derrida vuole estendere la sovranità della retorica sul territorio del logico, per risolvere quel problema dinanzi a cui si ferma la critica totalizzante della ragione"; i testi filosofici analizzati da Derrida vengono letti dunque come testi letterari, di modo che il loro contenuto manifesto viene sistematicamente smentito da quelle "comunicazioni indirette" trasmesse all'interprete dall'eccedenza retorica del significato degli strati letterari, sempre presenti anche in un testo che si presenta come non letterario. Un ampio contenuto testuale onnicomprensivo cancella in tal modo la differenza specifica tra filosofia e letteratura, comunque la si voglia determinare (Habermas la determina con l'aiuto di Jakobson: la letteratura, la ·poesia si distinguono dal discorso orientato comunicativamente per il prevalere della funzione poetica sulla altre; e la funzione poetica è quella che dirige "la disposizione al messaggio in quanto tale", approfondendo "la dicotomia fondamentale tra segni e oggetti" e rendendo in tal modo più o meno irrilevanti le condizioni di validità, il riferimento all'oggetto ecc.). Che i grandi pensatori siano stati anche grandi prosatori, o che le figure retoriche possano dischiudere e chiarire un pensi~ro meglio di quanto possa farlo un linguaggio logicamente scarmficato, è ovviamente compatibile con la distinzione tra filosofia e letteratura. La funzione poetica (per seguire Jakobson) è in opera in q~~lsiasi testo o discorso: ma in alcuni essa prévale, strutturandoh m maniera diversa, e con diverse pretese, rispetto a quelli "normali" o filosofici - essendo il linguaggio filosofico un "prolungamento" una "provincia" del linguaggio "normale". ~ da sottolineare che il linguaggio "non:nale" non è inteso se67

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