Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

DALLAFINESTRA Julien Gracq Nel 1988 Julien Gracq farà la sua entrata nella Pléiade, la prestigiosa collana Gallimard dei classici. Proprio la Gallimard aveva rifiutato ilprimo romanza di Gracq (Al castello d' Argol, ed. it. Bompiani 1968) che l'autore pubblicò a proprie spese nel 1938 da José Corti, piccolo editore e libraio vicino al gruppo surrealista a cui è restato fedele per tutte le opere successive. Julien Gracq, il cui vero nome è Louis Poirier, promeneur surrealista amico di Breton e Peret, professore liceale in pensione di storia e geografia, è uno degli scrittori francesi più segreti e schivi. Autore di un pamphlet senza indulgenza sui costumi letterari parigini (La littérature à l'estomac), non ha mai preso la parola al di fuori dei suoi libri e ha rifiutato il premio Goncourt ricevuto nel 1951 per La riva delle Sirti (ed. it. Mondadori, 1952). "li mio interesseper gli esseri umani è sempre più debole. Non dimentico un paesaggio, ma mi capita di dimenticare una persona che ho incontrato e ho relazioni migliori con i luoghi che con lagente," mi dice accogliendomi nel suo appartamento parigino. "È Emmanuel de Martonne, mio maestro, che mi ha insegnato a vedere un paesaggio, in un modo non impressionista, ma direi piuttosto più vicino a Cézanne, nei suoi volumi, strutture, stile di rilievi, nella sua articolazione". La sua è una geografia sentimentale dove la precisione dell'osservazione e lefantasticherie di un flaneur si fondono in un linguaggio tecnico e poetico insieme. "lo credo vi sia una prof onda solidarietà tra uomo e paesaggio, nei miei romanzi i personaggi sono inestricabilmente legati al luogo e dipendono da esso, non c'è psicologia". Gli ultimi libri di Gracq sono infatti una lunga conversazione tra l'autore e il paesaggio in una ricerca di segni di una realtà non ordinaria vista con il caleidoscopio surrealista, ma arricchita "di quel dinamismo esplosivo della parola che. costituisce (con le ricerche di Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Valéry) l'apporto positivo dell'ultimo secolo della poesia francese". li romanzo per Gracq "è una provocazione al desiderio" e "un'esperienza diretta e inedita, come un incontro, un viaggio, o una malattia d'amore, ma un 'esperienza non utilizzabile". Nel 1939 Gracq conosce André Breton. "li gruppo surrealista allora si era già disperso, restava Peret e qualche pittore, ma mi sono sempre sentito lontano dalla pittura, la musica mi interessava molto di più. Breton era un personaggio magnetico, originale nella sua vita privata a cui dava più importanza che alla letteratura: la poesia per lui era dappertutto. Ci vedevamo spesso, era un 'amicizia personale, non ho mai aderito al surrealismo perché non ne condividevo l'intransigenza e il lato politico, ma è stato l'ultimo grande movimento fondato sulla modificazione della maniera di vivere. Mi ha molto influenzato soprattutto per lapoesia, anche se ha lasciato poche tracce: è nato intorno alla personalità di Breton ed è morto con lui". Gracq è nato nel 1910ed ha avuto, afferma, "la fortuna di essere vissuto nellaprima metà del secolo, molto più interessante della seconda. Ho l'impressione che una civiltà stia finendo così, nell'indifferenza. Attualmente leggo in modo capriccioso e distratto, ma mi sembra un'epoca senza interesse. La letteratura sta perdendo sempre di più terreno, ilpubblico può leggeremilioni di libri senza recepirli, senza che alcuna conseguenza si manifesti, se.non quella commerciale. 1più bravi scrittori 'francesi' vengono da altre lingue e non ho fiducia nei libri che sono traducibili. Un buon testo dovrebbe andare così in profondità nellapropria lingua da non poter essere tradotto". li brano chepubblichiamo è tratto da Lettrine 2, José Corti 1974. Lidia Breda Dalla mia finestra che dà a nord su rue de Grenelle, scorgo ad altezza d'occhi un disordine allegro e colorato di lembi di muro, comignoli, vasi di terracotta, tetti di zinco e di tegole, antenne televisive, così mutevole a seconda delle ore, arioso e soleggiato come il disordine complicato di un ponte, quando si scala la fiancata di un bastimento. Proiettati fino alle grondaie da ramponi, sigillati ai muri, che disegnano a partire dei cortili interni tortupsi percorsi da scalare, scopro d'acchito dietro le mie tende la vita quotidiana, fortemente intrisa di poesia e di "jarniente", degli operai intenti ad aggiustare i tetti di zinco. Del loro andirivieni professionale, ho appreso ormai quasi tutto: la ricognizione preliminare del reparto in avanscoperta, il metro in mano, le lunghe consultazioni sul piano inclinato all'imbrunire - l'impalcatura, sull'orlo delle grondaie, le assi a X dove si agganciano le carrucole che portano il materiale dalla strada - lo svolgersi illanguidito della giornata lavorativa, le conversazioni, le libagioni in pieno cielo, le pause teatrali e meditative del giorno avanzato, allorché gli operai si avvicinano ai camini coronati di vasi rossi, come al bastingaggio quando giunge l'ora di "ammainare le vele", il profilo tutto incendiato dal sole che tramonta. Osservo i teneri, sensibili e mutevoli colori del cielo, così passeggeri, dei fogli di zinco nuovo, colori ai quali una serie di piccole tele di Helion, - proprietà oggi del mio amico Brunet - ha saputo rendere giustizia. Osservo le migrazioni dei colombi fra i tetti, balconi, e statue, lungo la giornata, più complicate dei meccanismi delle maree - l'attrazione misteriosa che esercitano certi vasi dei comignoli e alcune antenne su di un gruppo di uccelli stiliti - so riconoscere la coppia di colombi isterici che ogni mattina per un quarto d'ora pizzica e strattona la cordicella delle veneziane della mia vicina, per dei fini impossibili a determinarsi. Questo piccolo mondo in quota, con i suoi rilievi, cardini, dentelli, rivoli, crinali - un mondo che vedo quasi a portata di mano al di là della gola _ombrosae verticale della rue de Grenelle, il cui fondo mi è nascosto e da dove sale al mio balcone solo il brusio lontano del torrente - è disteso, inondato di sole come la terrazza di un alpeggio sospeso al di sopra della barriera verticale della foresta. Una vita rada e timida vi si muove, rallentata dallo svernamento, ma che il sole ritornato scalda e accéiera più che altrove. In fondo alla calca stratificata dei tetti, due o tre volte alla settimana, dalla sua guardiola corazzata di ardesia si apre la finestra mansardata di una giovane cameriera - o piuttosto una collaboratrice domestica - il cui occhio perlustra malinconicamente, alla ricerca di una qualche anima gemella, il deserto delle superfici di zinco e il pozzo del cortile interno. Lei, così lontana, alta, sola, così dimenticata, mi fa pensare alla casa sulla montagna con la finestra illuminata che ossessiona da lontano Melville nei Racconti della Veranda, al punto tale che lasciando perdere tutto si mette in cammino attraverso campi e foreste per raggiungerla. Un po' a destra, quasi di fronte alle mie finestre, tento di immaginare la sistemazione intima di un alloggio che mi ha sedotto per la sua disposizione: ingloba i due ultimi piani, che apparentemente comunicano per una scala interna, di una casa stretta e alta. 65

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