STORIE/LOMBEZZI In Eritrea si entra di notte. Le luci dei fari bucano nuvole di polvere che avanzano sul deserto tra richiami di gente in armi, scambi di tè e di informazioni. Ogni tanto qualcuno si insabbia ma nessuno si scompone. Gli uomini scendono a sgranchirsi le ossa e aspettano tranquilli il prossimo convoglio che li aggancerà e li riporterà sulla pista. A un certo punto tutti i percorsi si confondono: siamo vicini al guado: il "rubà", il fiume in piena taglia tutte le strade. Solo i nomadi attraversano l'acqua indifferenti con le spade a tracolla. Dopo pochi minuti sono sull'altra sponda, mentre un ruggito annuncia il camion russo che ci trascinerà dall'altra parte del fiume. È un colosso da 30 tonnellate strappato agli Etiopici nel '79 e ancora ammaccato dalle granate degli Eritrei. Avanza nel fiume sprofondando con due grandi baffi d'acqua. Un mutilato di 18 anni balza a terra sull'unica gamba che gli ha lasciato l'ultima offensiva e, salutandoci, aggancia il cavo d'acciaio. Il colosso si immerge nel fango e ci trascina dall'altra parte. I nomadi di prima, fierissimi e infangati, bevono tè seduti accanto alle spade. Siamo in Eritrea. Area bombing Da oltre dieci anni l'Eritrea è quello che in termini strategici si definisce "zona di fuoco libero". Qui non esistono "obbiettivi militari": la vita stessa è un bersaglio, si tratti di uomini, animali o cose. È pericoloso persino stendere i panni, perché una macchia colorata nel giallo delle pietraie potrebbe attirare il fuoco dei caccia. Per questo, da oltre dieci anni, in Eritrea non si costruiscono più case, ma solo tane o rifugi sotterranei. Sono freschi e tenuti molto bene. Bere del tè tra questa pareti di roccia è piacevole, specie quando fuori la pianura va in polvere nei 50 gradi del Corno d'Africa, ma ogni tanto lo sguardo spia quel buco nel soffitto, se mai nel cielo apparisse un punto d'acciaio, quel tuono che arriva da Asmara e che in pochi istanti può lasciare un cumulo di macerie e di lamenti. Poi tutti riprendono a bere. Il tè fa un altro giro e tutti dicono "Bizuh harrur", "fa caldo oggi" ... La morte che arriva dal cielo è capricciosa e bizzarra ma non per questo meno spietata; a Orota c'è un grande spiazzo circolare circondato da 8 montagne. Pare un luogo magico e da anni è un punto di incrocio di nomadi e carovane. Un mese prima del nostro arrivo c'era un mercato, uno dei tanti mercati con i vecchi che si salutano in modo rituale stringendosi a lungo la mano. Per il MIG deve essere stato uno scherzo. Fuggire in tempo è impossibile perché il terreno è completamente scoperto, e pochi secondi di fuoco hanno lasciato a terra 20 cadaveri, 20 corpi di donne e bambini schiacciati tra le rocce o rannicchiati con le budella in mano. Dieci minuti dopo, probabilmente, il MIG era già rientrato ad Asmara senza neppure aver visto gli effetti della "missione". La guerriglia qui è un rac40 conto a episodi che quasi mai fanno notizia. Restano poche foto incerte dove i corpi si distinguono appena dal paesaggio, e i racconti avari degli uomini del Fronte. Wyna Al campo di addestramento dei commandos, il tuono dei kalashnikov ricorda un po' il suono di una fionda. Un'eco lunghissima rimbalza nella valle e si disperde lentamente come la polvere dei proiettili che fracassano le rocce ottocento metri più in là. A questa distanza l' AK 47 uccide ancora e le reclute lo maneggiano con impaccio e con un certo timore. Avranno sì e no 17 o 18 anni e le loro mani di contadini faticano a obbedire agli ordini di un ufficiale poco più anziano, che nella guerriglia si è guadagnato i gradi di istruttore. Ad Asmara era iscritto alla facoltà di economia, ora studia manuali militari e addestra i commandos. Nel combattimento corpo a corpo ci si esercita con le baionette innestate ma i mitra non sono sufficienti e molti mimano i movimenti con dei bastoni, così sui gesti meccanici degli "afondo" e delle parate si sovrappongono i movimenti più antichi dei contadini al lavoro. Non c'è nulla di ostentato e di marziale in questi gesti. La guerra per questa gente è una fatica in più oltre quelle dei campi, un "mestiere" duro e inusuale che li costringe a muoversi in gruppo, loro così abituati a scorrazzare da soli negli spazi immensi del Corno d'Africa. "Non arrendersi". La polvere sollevata dai sandali in marcia sembra l'unica divisa di questo esercito di poverissimi dove l'unica cosa che luccica sono i caricatori dei mitra, eppure negli occhi di alcuni si legge una determinazione che rende temibili persino i bastoni con cui mimano immaginari assalti all'arma bianca. Sono occhi che hanno visto massacri e deportazioni, saccheggi e incendi di villaggi, occhi di gente scampata alle armate senza legge di una guerra che non fa prigionieri. Sahel Da certe zone dell'Eritrea anche gli avvoltoi se ne sono andati. È il Sahel a nord di Nacfa. È come se l'intera pianura fosse stata bombardata da una pioggia di meteoriti. Miliardi di pietre rosse si stendono a perdita d'occhio trasformando la pianura in una gigantesca carta vetro, dove è impossibile camminare, dormire, marciare, fuggire o attaccare. Il Sahel è un'incudine di pietra che può essere infinita~ mente battuta dal cielo ma difficilmente conquistata via terra. I paracadutisti del Derg furono lanciati in questa zona due anni fa per costituire una testa di ponte per l'invasione, ma in pochi giorni questa terra paziente e desolata si chiuse su di loro lasciando solo ossa sbiancate e prigionieri sfiniti nelle mani dei ribelli.
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