STORIE/CONSOLO scomparsa in cucina; l'uomo, dietro il banco, mi teneva d'occhio. Gli feci cenno di venire. Mi consigliò il loro piatto tipico, lo zichinì. Era piccantissimo. Lacrimavo, ma con quegli occhi addosso non osavo smettere di mangiare o fare alcuna smorfia d'intolleranza. Mandavo giù a bicchieri colmi di dolcetto. Alla fine avevo vampe in bocca, nello stomaco, e la testa mi girava per il vino. Gli eritrei, uomini e donne, ridevano con tutti i loro denti bianchissimi, ma non ero in grado di capire se ridevano di me. Anche loro mangiavano lo zichinì, ma non usavano la forchetta, attingevano con le dita a un grande piatto comune posto al centro d'ogni tavolo. Mi ricordai che anche così si faceva in Sicilia nelle famiglie contadine. E mi venne di pensare che il Nord, il mondo industriale, era anche questo, la rottura della comunione, la separazione dei corpi, la solitudine, la diffidenza, la paura d'ognuno nei confronti dell'altro. - Piccante? - mi chiese l'uomo togliendomi il piatto, e mi sembrò che avesse un tono ironico. - Un po' - risposi, con sussiego. E mi trovai subito ridicolo. Pensai alla mia gastrite cronica, ai bruciori che m'aspettavano la notte, l'indomani; alle disgustose pasticche di magnesia bisurata, di Maalox che avrei dovuto ingollare. Fumando, mi misi poi a leggeresu quel giornale disastrato una recensione al mio ultimo libro; la lessi senza interesse, senza attenzione, non capivo neanche quello che vi si diceva. Bruciore per bruciore, continuai a bere, bevvi fino all'ultimo goccio la bottiglia di dolcetto. Uscii che barcollavo. Pioveva ancora. Mi riparai la testa 36 r,11LANO -••~ne. 29 Via Monten•I"""·15 e sosuenosAyres, via " 5alpi. 20 e sos Go11a:rlo. •!..,.io ~M1-t-1N11Wll1"""'="-- Nuo,'a Vige111nese, 191 MONZA viav.Emanuele, 9/A SESTO SANGIOVANNI via Firenze, 50 con quel residuo di giornale che mi restava. Sbucai in via Castaldi e lì ancora un'insegna esotica m'attrasse: Bar Cleopatra. Il locale era pieno di egiziani. Il juke-box diffondeva una di quelle nenie senza inizio e senza fine, dolcissime, strazianti, che hanno il ritmo delle carovane, il tono del deserto, nenie che sono la matrice d'ogni musica mediterranea, del cante jondo andaluso, dei canti dei carrettieri siciliani, delle serenate napoletane. Qualcuno degli egiziani cantava assieme al cantante del juke-box, altri tamburellavano con le dita sul piano del tavolo, un altro ballava, dondolando la testa dai capelli crespi. Ordinai un caffè. Che fu insufficiente a far svanire i fumi del vino, a togliermi la sonnolenza che mi ottundeva e che quella nenia ancora accentuava. Gli egiziani bevevano tè scuro dentro bicchieri, fumavano. Parlavano fra loro a voce alta, con suoni gravi, gutturali o fortemente aspirati, spesso sghignazzavano. Erano meno riservati degli eritrei, più caciaroni, più scugnizzi. Uno venne ad offrirmi una sigaretta. - Piace musica araba? - mi chiese. - Piace, piace tanto. E, sedendosi al mio tavolo, cominciò a sciorinarmi nomi di divi delle loro canzoni, fra cui riuscii a distinguere solo quello della mitica Om Kalsoum. Gli diedi delle monete e gli chiesi di mettere Om Kalsoum. Appena s'udirono le prime note, venne a risedersi e smise di parlare, si chiuse nel silenzio, in religioso ascolto. Anche gli altri si fecero silenziosi e malinconici. In quella, s'aprì di schianto la porta ed irruppero nella stanza tre poliziotti. Ordinarono a tutti d'alzarsi e, mani in
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