PORTAVENEZIA Vincenzo Consolo "Incidono lo spazio", mi dicevo, "Sono una perentoria affermazione dell'esistenza". E li osservavo, nelle loro linee nette, nel loro scuro cloisonnage che li stagliava contro il fondo chiaro, nelle dure capigliature scolpite, nei colori forti, accesi delle loro facce. In contrasto, gli altri apparivano deboli, labili, indeterminati; i loro contorni incerti sfumavano nel grigio chiaro dello sfondo, il pallore delle loro facce era come di nebulosa che svaniva verso l'inconsistenza. E concludevo, sintetizzando: "Nero e bianco: l'esistenza e l'inesistenza; la vita e la morte. Avviene nei popoli", mi dicevo, "quello che avviene nella vita di un uomo. Il nascere, cioè, il farsi giovane, maturo, vecchio e poi il morire. Ecco, noi ci stiamo avvicinando alla morte. Come m'avvicino io, sbiancando ogni giorno nei capelli, nella pelle, preludio a quel bianco definitivo e immobile che è la morte". Andavo rimuginando questi pensieri (ma che pensieri? larve d'idee, banali congetture, sensazioni; e ridicole anche: andare incautamente ad affogarmi nel periglioso mare delle razze e dei popoli), questi pensieri dettati da noia e malumore, passeggiando il tardo pomeriggio d'un sabato a Porta Venezia o Porta Orientale, come la chiamò il Manzoni. Il quartiere che più amo in questa grigia città che è diventata ormai Milano, e il più vero, al confronto dei noiosi o irritanti quartieri del Centro o di quegli squallidi teatrini provinciali, di quell'affaristica organizzazione del divertimento di fine settimana che sono i quartieri di Brera e dei Navigli. Era di giugno. Il sole tramontava dietro le trame degli ippocastani e dei tigli dei Giardini, arrossava il cielo terso. Ma dalla parte opposta, a Oriente, nuvole nere erano squarciate da saette: si preparava il temporale della sera dopo la giornata di caldo appiccicoso. Lungo il corso Buenos Aires i negozi già abbassavano le saracinesche. Da via Castaldi e via Palazzi sbucavano nel corso a gruppi gli eritrei, riservati e dignitosi, con le loro donne, corpulenti madri dondolanti avvolte nei loro veli bianchi, esili, bellissime fanciulle vestite all'europea. E frotte d'arabi, tunisini ed egiziani, allegri e chiassosi, ragazzotti con un'aria di libertà e di canagliesca innocenza come quella dei gitani. Solitari marocchini, immobili e guardinghi, stavano con le loro cassette piene della paccottiglia d'orologi, occhiali, accendini, radioline, davanti a quei supermarket del cibo di plastica che si chiamano Quick o Burghy. Davanti alle uscite della metro, stavano invece gli africani della Costa d'Avorio o del Senegal con la loro mercanzia stesa a terra di collanine, anelli, bracciali, gazzelle, elefanti e maschere di finto ebano, d'un marrone lucido come la loro pelle. In angoli appartati o dentro le gallerie, stavano in cerchio, a cinguettare come stormi d'uccelli sopra un ramo, donne e uomini filippini, d'un nero affumicato. Da questa umanità intensamente colorata, si partiva poi tutta una gamma di bruno meridionale. Ed erano quelli dietro le bancarelle dei dolciumi "tipici", delle cravatte, delle musicasSTORIE/CONSOLO sette; erano famiglioledi siciliani,calabresi, pugliesi,con i pacchi e le buste di plastica delle loro compere, che tornavano a casa o sostavano davanti al Vie! per far prendere il frullato o il gelato ai loro mocciosi irrequieti. Erano, i marciapiedi di corso Buenos Aires, in questo tardo pomeriggio di sabato, tutta un'ondata di mediterraneità, di meridionalità, dentro cui m'immergevo e crogiolavo, con una sensazione di distensione, di riconciliazione. Io che non sono nato in questa nordica metropoli, io trapiantato qui, come tanti, da un Sud dove la storia s'è conclusa, o come questi africani, da una terra d'esistenza (o negazione d'esistenza) dove la storia è appena o non è ancora cominciata; io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell'estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione araba, del seppellimentoetiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino. Ma dal nero africano, dal bruno meridionale, si arrivava poi al biondo, al chiaro scialbo, all'isteria bianca. Ed erano gruppi di svizzerie tedeschi che uscivano da gioiellerieo da boutiques; era la triste, cariata umanità dei quartieri popolari e degradati qui di Porta Venezia o degli anonimi, squallidi dormitori della periferia; erano le frotte dei lunari, astratti punks nei loro neri abiti, nelle loro criniere arancione e verde, nelle loro borchie, negli spilloni e orecchini, sinistri, aggressivi e fragili. I nuvoloni avevano coperto tutto il cielo e si faceva buio; le saette ora vicine e non più mute, anticipavano tuoni fragorosi. E improvvisa, violenta arrivò la pioggia. Rimbalzava a campanelle sul marciapiede e sulla lamiera delle auto. E subito si trasformò in grandine, fragorosa come una cascata di ghiaia. Ci fu un fuggi fuggi generale, un rifugiarsi sotto i balconi, negli androni dei palazzi, nelle gallerie, dentro la metro. Le automobili, sul corso, erano ferme, incastrate per via dei semafori saltati, e con clacson e trombe lanciavano un rabbioso, assordante urlo d'aiuto. Tenendo il giornale sulla testa, corsi in direzione di Porta Venezia, scantonai per via Palazzi. I bar erano pieni, pieni ristoranti e pizzerie. Più avanti, m'attrasse un'insegna in caratteri amharici e con sotto la traduzione italiana: "Ristorante eritreo". Spinsi la porta a vetri ed entrai. Dentro era buio e deserto. Subito s'accesero le luci e da dietro il bancone del bar sbucarono un uomo e una donna sorridenti che m'invitarono ad accomodarmi a uno dei tavoli. - Vuole mangiare? - mi chiese l'uomo. - Vorrei prima asciugarmi. Mi porti intanto del vino. Stesi sulla spalliera d'una sedia il giornale che non avevo ancora letto, ridotto quasi a una pasta mucida. Ma per la verità leggevo di quel giornale, che compravo solo il sabato, le pagine dei libri..E quell, all'interno, erano in qualche modo ancora leggibili. Cominciarono ad arrivare eritrei, tutti zuppi come me, e sorridenti. La sala si riempiva a poco a poco. La donna era 35
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