Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

L'IMMAGINE Sony Labou Tansi "Non faccio critica sociale. Mi approprio della parola sociale e l'occupo". J ean-Max Sadoun chiamava la radio e la televisione "gli strumenti della confusione" senza essersimai preoccupato di spiegare a se stesso cosa intendesse dire con precisione. Trovava l'espressione gustosa e, come di tutte le cose che amava, non se ne serviva che in caso di forza maggiore. Quella sera cercò di ricordarsi l'ultima volta che si era preso il gusto di dirla. Non riuscendoci, provò a fare ricorso agli oggetti dell'immenso soggiorno decorato di cuoio color porpora, di velluto e di argento. Spesso era grazie a quegli oggetti che si ricordava di esser vivo, come se avesse passato il tempo a far consistere la sua vita nelle cose che toccava. Ogni oggetto, ogni angolo della stanza, ogni piccolo spazio erano per lui una storia: il solitario di malachite raccontava l'epoca in cui aveva visto il suicidio planare sulla testa di Yvonne. I lottatori di bronzo parlavano di suo nonno, all'epoca della guerra d'Algeria. Il gioco di scacchi in avorio taceva, ma ogni mattino richiamava alla memoria, come un profumo misterioso, la vicenda della sua prima nomina a un posto di alta responsabilità. Il cavallo d'ebano raccontava il suo incontro a quattr'occhi con Fide! Castro ... Ciascun oggetto era depositario d'una storia sola. Il suo sguardo aggredì con un certo compiacimento ogni oggetto, costringendolo a cacciar fuori il suo aneddoto. JeanMax Sadoun non amava molto il foot-ball, ma adorava ciecamente la squadra della Francia: un poster a colori della squadra gli ricordava la morte di sua madre, quattordici anni prima: lei gli stava parlando, ma intanto gli occhi di lui erano inchiodati su una foto della squadra francese che un balordo aveva incollato sul muro della clinica: Jean-Max Sadoun contava i giocatori e quando s'era staccato dalla foto, sua madre non era più. Le aveva chiuso gli occhi, senza grande emozione; ogni volta che guardava la foto, vedeva gli occhi di sua madre, rotondi, bianchi, immobili. Le pendola inopportuna batté sette colpi sul bronzo; JeanMax Sadoun si ricordò delle gole di Diosso, una piacevole selva d'argilla intricata di forme bizzarre. Si alzò dalla poltrona e andò verso la grande finestra, in fondo al balcone. La notte era profumata: una mescolanza di odori di fuoco, di fieno e di terra umida. Sentiva il meuzzin e non era contento di quella voce magnetica diffusa dagli altoparlanti. Tornò a sedersi cercando sempre di ricordarsi il giorno in cui si era servito dell'espressione "strumenti della confusione". Cercò di ricordasrsi se non aveva per caso detto "strumenti dell'intrallazzo". Per questo si avvicinò alla sua televisione a colori. Schiacciò il tasto. Aspettò, questione di far spuntare il ricordo abitualmente legato al clic dell'accensione. Il tempo che l'immagine ci metteva per formarsi era legato al ricordo del giorno in cui Yvonne si era suicidata. Diciotto secondi messi lì al posto dei venticinque anni che avevano passato insieme, in ben quattordici paesi diversi. Poi si era giurato di non pensare che all'avvenire. Ma ogni minuto, ogni secondo che il futuro gli mostrava si cambiava immediatamente in cenere del passato. Quarantasette anni di esistenza ribelle. Dura e difficile. Ma, ogni tanto, anche felice. L'epoca delle follie della moto. Gli occhiali neri e i jeans sbiaditi. I capelli lunghi che rimpiangeva, tanto più che adesso li aveva persi quasi tutti. Jean-Max Sadoun aveva un debole per i capelli delle donne e per i peli di qualsiasi genere, anche per quelli del suo cane Orione. Le sue mani avevano sempre voglia di capelli. I suoi occhi si incantavano per saziarsi di seni sboccianti e di fianchi ben torniti. Il suo naso affilato aveva sempre fame di odori di donne in piena fioritura. Riconosceva la propria debolezza di amare smoderatamente i liquori e l'altro sesso, quando erano "presentati bene". Anche qui, Jean-Max Sadoun non sapeva bene cosa intendesse per "presentati bene". Dipendeva. Quella sera, non aveva lasciato passare i diciotto secondi che l'immagine ci metteva per accomodarsi sul piccolo schermo. Senza dubbio perché aveva appena finito di mangiare da solo e gli era venuta voglia di un bicchierino di grappa. La bottiglia aveva due anni più di lui. Jean-Max Sadoun la teneva come una reliquia di famiglia e ci leggeva l'esistenza di suo padre ... Tutte le volte che tornava nel paese natale, ne prendeva provviste abbondanti, che poi travasava, man mano che ne beveva, nella bottiglia-reliquia che conferiva alla grappa un'altra "briosità". (Non diceva mai "un altro brio", usava questa parola sua: "briosità"). Bussarono alla porta. Il rumore della televisione impedì a Jean-Max Sadoun di sentire i primi colpi. I secondi JeanMax li aveva sentiti, ma dato che non aspettava nessuno, credette che bussassero alla televisione. Quando bw;sarono la terza volta, l'uomo si alzò e fece per andare ad aprire, ma l'uscio s'era già aperto e lasciò passare Petillo Argentillo do Mboudo Nisa. - Che notizie Petillo Argentillo? chiese Jean-Max Sadoun, passandosi la lingua sul labbro superiore per assaporare ·la grappa. Per tutta risposta Petillo Argentillo gli strinse la mano. Poi si sprofondò in una poltrona, si fece servire un bicchiere che vuotò di un sol fiato. Posò il bicchiere davanti a sé sul pavimento. - Non ti si vede spesso da queste parti, soggiunse JeanMax Sadoun e accennando a versargli un altro bicchiere al quale però Petillo fece un segno di rifiuto con la mano. - Non lo risparmieranno, disse Petillo, con lo sguardo perduto lontano. Chiese a Jean-Max di servirgli un altro bicchiere. Jean-Max gli indicò la bottiglia. Le mani di Petillo tremavano, era molto turbato. Il suo piccolo corpo pieno di grasso era scosso e teso. Jean-Max non trovò necessario fargli altre domande: avrebbe parlato. Aveva l'abitudine, tra 33

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==