Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

I L'ORRORE SECONDOKUBRICK Marco Pistoia (Firenze) 1980: con Shining Kubrick racconta, tra tante altre cose, la follia progressiva di un uomo, preda di varie forze, la più consistente delle quali è il suo passato, la sua storia, la Storia. 1987: l'indagine sull'orrore contemporaneo continua e Full Metal Jacket descrive quello più atroce, la guerra. Kubrick, in realtà, si è sempre mostrato estremamente attento all'analisi di follie e violenze, ma tra le sue ultime opere sembra esserci un filo più stretto di continuità in questa direzione. In particolare sembra che Kubrick, nei suoi ultimi film, insista in maniera più drammatica, senza più ricorrere al registro grottesco che era di un'opera come li dottor Stranamore, su questi temi, e la tragica intensità, visivamente straordinaria, di alcune scene di Full Metal Jacket è li a dimostrarlo. Penso alle scene di battaglia nella seconda parte del film, alle urla strazianti dei soldati morenti, espressione del terrore come e più di altre figure kubrickiane, dalle scimmie di 2001: Odissea nello spazio ad Alex di Arancia meccanica fino alla donna e il bambino di Shining. Immagini di volti espressionisticamente deformati, di esplosione rallentata di fuoco e sangue, come in un quadro agghiacciante e bellissimo, il Soldato morente di Otto Dix. Ogni volta Kubrick ridefinisce e amplia il discorso e sinonimi quali guerra, violenza, follia risultano continuamente sviscerati. In Full Metal Jacket la violenza del sergente Hartman è tutta verbale e mentale, quindi più pericolosa, capace di far regredire mentalmente, come il computer di 2001: Odissea nello spazio, il soldato "Palla di Lardo" e farlo impazzire. Teoria e prassi della guerra, prima e seconda parte del film, sono racchiuse nella vicenda del sergente e del soldato. La follia di un uomo agisce su un altro uomo, ma finisce per ritorcersi anche su di sé. La follia dello scrittore di Shining era tanto più pericolosa quànto più colpiva un soggetto che dovrebbe fare uso dell'ingegno, della ragione, ma era pur sempre sconfitta dall'equilibrio tra razionale e irrazionale del bambino. Kubrick ci lasciava con la speranza di un ricambio, di un positivo che, tra mille difficoltà, riesce a prevalere. Il finale di Full Metal Jacket, con l'ambiguità del discorso fuori campo del soldato (viviamo in un mondo di merda, ma siamo vivi e senza paura), sembra confermare la tendenza kubrickiana ad essere contemporaneamente Candido e il suo rovescio. In sostanza: non viviamo nel migliore dei modi possibili, ma quale altro mondo è possibile creare? Sarà sufficiente "coltivare il nostro giardino"? Il soldato Joker avrà la sorte del feto cosmico di 2001, si rigenererà a nuova vita, o farà la fine di Alex? È difficile intuire la risposta di Kubrick, ma l'eccezionale pregnanza di ogni sua riflessione può fornire più di.un'indicazione, più di un ammonimento. RITORNOIN CILE Massimo Giannini (Roma) Dodici giorni e la tarda, tiepida estate cilena. Tra l' 11e il 23 settembre del '73, a Santiago si consumavano febbrili speranze di democrazia. Annientati dalla violenza e dal dolore, si spegnevano allora Salvador Allende e Pablo Neruda. Il primo, caduto sotto i colpi dell'esercito traditore. Il secondo, schiantato nell'anima dai preludi di un'era di barbarie e tirannia. Cosa ne sarebbe stato del Cile? Cosa si è salvato, dopo quindici anni in cui le atrocità commesse da Pinochet sono state inutilmente sublimate da un popolo troppo \I lungo provato, e "metabolizzate" dal regime in una normalizzazione opprimente? Cosa rimane oggi, al. di là d'una superstite, tragica atarassia esistenziale, di una desolante immobilità politica? La memoria. Solo la memoria di un'antica stagione di speranze, ai cui albori tutto era ancora intero, perché scomposto nei mille frammenti della possibilità umana. In un lungo, concentratissimo viaggionel tempio di quella memoria - di cui negli anni a venire era stata in qualche modo pugnace vestale la seconda mogliedi Pablo, Matilde Neruda - si avventura José Donoso con La disperanza (Feltrinelli). Una storia di due giorni, in cui per Manungo Vera - cantore di libertà in esilio volontario - ammassati e secchi riemergono i ricordi di vent'anni. Ricordi forse un po' stereotipati, comunque tipici della "sindrome dell'esilio", cantata altrove da un Milosz o da un Lorca. Ma nel flusso torrenziale di rievocazioni la pagina di Donoso è in ogni caso convincente. C'è il mito delle radici recise: Chiloé, il paesino di Chonchy, l'acqua lenta e verde del fiume Cipresales, \e fronde del coigue e degli olmi, il poncho bagnato degli anziani del villaggio. C'è la ferita dischiusa sulle prime lotte politiche: "Santiago ensangrentado", il ritorno a calcare le strade in cui anni prima fu la guerriglia. IL CONTESTO Ma tra le pieghe oniriche dell'essere si insinua poi come sempre l'aculeo di un ferale sospetto: che sia la vita, oltre i sogni? Larisposta nel mirabile affresco della "Chascona" la casa nerudiana un tempo festosa, ora intristita per la morte di Matilde. Qui si piangono gli assenti. Ognuno, si sa, piange a modo suo, e le lacrimeche scorrono sono troppo diverse per essere del tutto vere. Piangono i vecchi letterati, amici dei poeti scomparsi, ansiosi di guidare le sorti di fondazioni "alla memoria". Piangono i compagni di partito, impazienti di purificare le povere spoglie del morto nel bagno sacro dell'ideologia, al suono di slogan e al cospetto di masse oceaniche agitate da sterile rabbia. Da Cristo a Panagulis, la storia è piena di grandi e belle persone in vita, svilitein morte per usi di bassa propaganda. Del resto, l'eterna tensione interiore dei rivoluzionari d'ogni tempo è tutta qui. Nel colmare, cioè, le distanze che allontanano l'immaginario individuale dal sentire collettivo. Sfugge allora ai percorsi dell'ovvio soltanto chi, senza lacrimein tasca, non sacrifica l'uno per l'altro, soffrendo un genuino dolore. Così per l'antieroe di Donoso, mitica rock star della rivolta. Deposta la sua "chitarra-sesso-mitra" (strumento di culto guerrigliero dei nuovi "crociati" di Formigoni) è incapace ormai di cantare, se non la nota monocorde dei remoti richiami all'infanzia e di un'incipiente insofferenza paterna. Tornato per ripartire, Manungo - attingendo alla forza dei propri drammi personali - resterà. Bere all'amaro calice del presente. Senza pregustare improbabili soavità di futuro. Nel Cile insanguinato val la pena di restare. L'esserci di un popolo oppresso è importante a tutte le latitudini. Ricordiamoci il turco di Yol, che (anche lui senza lacrime) suggeriva alla sua coscienza che "fuggire non basta, fuggire non serve". Anche l'eco sommessa del muto, lacerante colloquio degli sconfitti, serve. Magari a cercare di cambiare le rotte della storia. 27

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