Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

può essere solo "Dio". Ora al contrario il presupposto di tutto il mio libro è l'assunzione della contraddizione irresolubile, senza l'accettazione della dialettica della riconciliazione-riappropriazione: ecco, il punto, una contraddizione senza dialettica (come scrivevogià in/ soggetti e le norme: l'accettazione della contraddizione, la convivenza con la scissione è una strada possibile e anzi un compito necessario). La mia "distanza" dal pensiero debole, dal neo-contrattualismo e dalla teoria sistemica (che a me paiono complementari) sta tutta qui: questi orientamenti, a mio parere, tendono a indebolire le contraddizioni, a risolverle in un continuo interscambio fra sistema e ambiente; in un'etica della flessibilità e della debolezza come accettazione dell'orizzonte chiuso dell'intrasformabilità/intrascendibilità dell'attuale stato delle cose. L'orizzonte delle differenze, definito nell'ambito del pensiero debole, è così relegato nelle pratiche quotidiane, nella brevità dei tragitti giornalieri, così condizionato al "dimagrimento" dell'individuo e al continuismo puntiforme dei ·desideri e degli interessi contingenti, da diventare, paradossalmente, una vera "teoria" dell'indifferenza totale, un'etica dell'accettazione dell' "esistente", così com'è. La libertà dell'individuo di decidere la propria vita diventa un "fatto" assolutamente indifferente, non più traducibile nel conflitto, né, tanto meno, "rappresentabile" come contraddizione della diversità radicale delle ragioni. In questo annullamento delle differenze - o nelle loro riduzioni a pure differenze quantitative misurabili con il solo metro del valore di scambio - mi pare appunto che ci sia una vocazione totalizzante, e persino violenta, contro al quale sento la necessità di opporre una "irriducibilità" ai codici della formalizzazione sistemica, del neo-utilitarismo calcolistico e della filosofia del "dimagrimento". Paradossalmente questo è invece il senso comune di molta parte della sinistra che è ormai solidale con il pluralismo inqifferenziato degli interessi; anzi il fatto complice dell'immoralità dell'indifferenza alle ragioni radicali del "totalmente altro", dell'irriducibile che sporge oltre ogni formalizzazione. La sinistra non riesce a prender atto dell'inaudito successo del capitalismo che è riuscito nell'impresa di rendere potenzialmente visibili tutti i bisogni umani nella forma della merce. Oggi, questa è la novità, l'invasività della forma di merce non è solo un fatto tecnico, ma l'ideologia dell'illimitata capacità di produrre valori di scambio attraverso i quali tutti i valori d'uso, tutti i bisogni umani possono essere "rappresentati"; della capacità del sistema di differenziarsi per seguire la complessità puntiforme della vita individuale e collettiva. Ma questo è possibile appunto perché le differenze, non sono più irriducibili, ma tutte misurabili sul metro della quantità di denaro, di successo, di consumo. La differenza quantitativa, contingente non è differenza, non ammette dissenso, né contraddizione. Ecco perché nel mio libro si dice il rifiuto di un'ennesima positivizzazione del polo antagonista che lo risolva in una ipostasi innocua e tranquilizzante. Anzi si afferma tutto il contrario di quello che mi attribuisci: nessuna nostalgia di un diritto che aspiri ad essere fondato su un'idea naturale di giustizia; nessuna tentazione di annullare l'economia dentro la politica, nessun proposito di produrre sintesi assolute. Quanto ai cafoni inseguiti dagli armigeri e dai feudatari, a parte la facile demagogia della scena, sarebbe troppo facile ricordarti che questo accadeva dentro una "immagine del mondo", in cui i "cavalieri del Sacro Graal" erano ancora la risorsa di legittimazione del potere, e che solo dentro quell'immagine la brutalità dello sfruttamento servile diventava praticamente vera nella sua crudezza. Qualche buona lettura ti potrebbe aiutare a capire meglio che il potere si struttura come una strategia che vive dell'intreccio di teorizzazioni e pratiche. La teoria è anche sublimazione e riorganizzazione della prassi; e non è possibile distinguere la teoria dai processi reali, come ha insegnato - a quanto pare inutilmente - K. Marx, preoccupandosi di fare la critica della filosofia del diritto hegeliana e la critica dell'economia politica borghese prima di passare alle analisi dettagliate della manifattura e del1'impresa capitalistica. La teoria dominante è oggi quella che rappresenta la società come sistema estremamente articolato, ma compatto nella difesa della propria identità e della propria ratio calcolistica. L'individualismo di massa non è solo un'immagine, ma la realtà profonda della modalità di comportamento e delle aspettaIL CONTUTO tive. È questa cultura e questa prassi che si esaurisce nel presente, che dichiara la "fine della storia" e costringe l'innovazione dentro le maglie dell'adattamento compatibile. Contro questa chiusura l'opposizione è radicata nell'esperienza quotidiana della miseria dei rapporti umani e della sofferenza diffusa. Mantenere aperto l'orizzonte storico della forma negativa della sofferenza del singolo di fronte all'invivibilità del presente, infatti, significa rifiutare la speranza della "pace perpetua", ma anche fare appello all'ultimo valore .d'uso che non si lascia interamente "commercializzare''. Percorrendo questa strada è un po' difficile trovare tutte le buone compagnie che tu mi attribuisci. Qualcuno potrebbe trovarsi sulla tua strada. Nella confusione della debolezza c'è posto anche per una equa distribuzione dei libri da leggere. RITIDIMORTE Paolo Vineri Nel recensire il libro di Pietro Barcellone L'individualismo proprietario Francesco Ciafaloni ("Linea d'Ombra", gennaio 1988) commenta la seguente frase: "I casi estremi della nascita e della morte, che prima sembravano avvenimenti del tutto privati, nel senso dell'individualità e dell'intimità, oggi sono oggettivati e regolati sin nei dettagli". Il punto mi sembra importante, in quanto esemplificazione concreta discutendo la quale ci si può forse intendere meglio circa il problema generale - quello del significato della modernità. Il commento di Ciafaloni mi lascia molto a disagio; pur rivendicando giustamente il carattere pubblico della morte nella maggior parte delle società, egli mi sembra avere equivocato il senso della frase di Barcellona. Il punto non è che intorno alla morte non sia mai esistito un rituale pubblico; al contrario - la privatizzazione della morte da questo punto di vista è un fatto molto recente. Il problema vero è che, pur inserito in un rituale, in linea di massima l'individuo veniva lasciato morire in pace. Non era cioè inserito in quel meccanismo di "oggettivazione e regolazione" costituito dalla tecnologia medica. Il problema è pertanto quello della definizione di pubblico e di rituale. Possiamo porre sullo stesso piano il rituale di qualunque società del passato con la pervasività oggettivante del rituale tecnologico? Dal punto di vista di Ariès, citato da 25

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