Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

ILCONTUTO CONFRONTI FASCINAZIONIGIAPPONUI Vanda Perretta Chiunque nutra in sé un'anima comparatista e al tempo stesso sia interessato e non solo incuriosito dall'Estremo Oriente, non potrà che essere grato a Flavia Arzeni per L'immagine e il segno. Il giapponismo nella cultura europea tra '800 e '900 (Il Mulino, p. 242, L. 20.000), un volume che, di immagine in segno, illustra, e non solo a parole, il rapporto tra la nostra cultura ed una parte del pianeta estremo orientale: il Giappone. Sostenuta da una conoscenza diretta della realtà giapponese e da una esauriente letteratura secondaria, l'analisi di Flavia Arzeni affronta i problemi del japonisme dagli inizi francesi per poi toccare la versione inglesee americana del fenomeno, quella italiana e quella austro-tedesca cui è dedicata una particolare attenzione. È così che quelli che Melville definiva "sconosciuti arcipelaghi e Giapponi impenetrabili" (p. 11)appaiono via via meno misteriosi mentre i contorni dell'icona occidentale dell'universo giapponese si precisano in una visione d'insieme nitida e precisa. Paese ignoto, serrato, protetto e nascosto anche agli occhi dell'ovest più esplorativo, il Giappone è stato pericolosamente esposto, nel quadro di un generico "orientalismo", ad essere confuso con l'immagine egemone della Cina, oppure a essere visto come accessorio meraviglioso di ridondanti o esotiche ornamentazioni. In realtà accanto all'assunzione dell'arte figurativa e non giapponese come qualcosa di prodigiosamente interessante, nell' occidente vive una ricezione del giapponismo molto più profonda e sottile che si ritrova nell'influenza della lirica, del teatro ed ovviamente delle arti visive in generale. Discreto e raffinato il lavoro di Arzeni mette a posto e restaura le tessere del composito mosaico del debito "giapponese" all'interno della nostra cultura, sottolineando gli aspetti più vari e meno palesi della passione occidentale per un mondo la cui seduttività è inversamente proporzionale alla distanza che ce ne separa. Breton, Claudel, Yeats, Pound, Ungaretti, Hofmannsthal, Rilke, per non citare il padre fondatore del japonisme europeo Edmond de Goncourt, sono tutti affascinati dalla voce nuova che sembra salire dall'orizzonte di una cultura mai frequentata prima; tutti, tra gli intellettuali più attenti, si curvano sull'arte giapponese, stanchi d'Europa, con la segreta speranza che, ad 24 un mondo assediato dal dubbio, sia proprio l'Oriente a poter dare la luce (p.27). Brecht, disinteressato alla giapponesità in quanto tale, studia la tecnica del teatro giapponese arrivando a un "nuovo genus del teatro epico" (p.198) e di tutti i mezzi scenici presi in prestito dal no predilige la maschera, epitome di ogni allusione. La cultura di destra, invece, nel suo entusiasmo per la disciplina guerriera giapponese, per lo spirito di obbediente negazione del sé, per la sottomissione assoluta all'autorità, non sopravvive alle fiamme dell'esplosione atomica mentre oggi, in epoca di post-giapponismo, ci si avvicina all'Oriente che sino a ieri altro non era che "il mistero, la seduzione, l'eccesso, l'impostura" (p.7) con gli strumenti di un meno alato interesse socio-politico che mette megliÒ a fuoco la realtà complessa di paesi sempre meno lontani e sempre più legati alle nostre strutture economiche; a livelloestetico invece, in particolare per il Giappone, quello che oggi si indaga sono soprattutto le singolari convergenze tra la sua tradizione artistica e le avanguardie nostre, con un'attenzione molto più concreta per le manifestazioni attuali della creatività artistica in ogni campo, in vista di un auspicabile sincretismo o per lo meno di Disegno di Otto Eckmann (1895 ca.). LETTERE approccio culturale meno oleografico o di maniera. Sottinteso è, per Flavia Arzeni, il bisogno di confronto e la nostalgia che l'Occidente ha maturato per tutto il mondo filosofico-religioso orientale e quindi anche giapponese, come cammino di possibile salvezza dall'apparente disfatta del patrimonio metafisico dell'Occidente. LACONTUDDIZIONE IRRUOLUBILE Pietro Barcellona Caro Ciafaloni, Quello di mettere tutti in un fascio (da Severino a Cacciari, da Vattimo a Napoleoni) appartiene alla logica degli album di famiglia con la quale in genere ci si sottrae alla responsabilità di guardarsi allo specchio per vedere le nostre ascendenze: su questo piano sarebbe divertente ricostruire l'album di famiglia del "pentitismo ideologico". In realtà, leggendo la tua recensione al mio libro L'individualismo proprietario nel numero di gennaio di "Linea d'ombra", mi sono convinto che la nostalgia della totalità e la vocazione totalizzante che mi imputi (affatto estranea al mio discorso) è diffusa nel tuo scritto più sottilmente di quanto non possa apparire. Che significa questo tuo richiamo al realismo funzionalista che "ospita le disfunzioni e il conflitto" entro lo schema della ingovernabilità e che propone cauti e graduali rimedi, se non essere interamente dentro la retorica del falso pluralismo e della assoluta rispettabilità ed equivalenza di tutti i punti di vista che oggi imperversa dentro la cultura dell'innovazione compatibile, della teoria sistemica e del pensiero debole? Non basta a esorcizzare la filosofia della '.'debolezza" contro la quale mi batto, il richiamo saggio e ragionevole al fatto che il "mondo è duro, urta e fa male". La saggezza e il realismo sono, in realtà, l'atteggiamento di chi ha già rinunciato a chiamare sulla scena i testimoni della invivibilità dell'ordine esistente e della irriducibilità della contraddizione fra questa società, apparentemente intrascendibile, e il bisogno di mantenere aperto un orizzonte storico, una disponibilità all'accadere imprevisto del nuovo. Tu hai già accettato gli argomenti del sistema: sono possibili solo miglioramenti, oltre questo orizzonte non c'è "altro". Oppure come dicono quelli di Comunione e liberazione, I' "altro" del soggetto scomparso

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