IL CONTESTO tar dell'autore, come proclama l'epigrafe ("Madame Bovary sono io") è qui un personaggio femminile, ispirato alla figura della madre di Hrabal. Maryska, giovane donna briosa, seducente e bizzarra, croce e delizia del marito Francin, è una creatura insieme eterea e tellurica, che vediamo prima impegnata nel rito cruento della maialatura, e poi, a più riprese, quasi sospesa nell'aria: sia quando per gioco si arrampica su una ciminiera, sia quando più semplicemente corre in bicicletta, sempre suscitando l'incantata ammirazione degli astanti con la lunghissima chioma, che il parrucchiere le ha pettinato devotamente e che poi ha avuto cura di sorreggere, correndole accanto, finché la bicicletta non avesse preso velocità. Anche nella Tonsura si avverte peraltro un'ombra di tristezza: già all'inizio, nel motivo dei lumi a petrolio destinati a essere soppiantati dalla luce elettrica, e poi sempre più diffusamente nella seconda parte del libro. Giuseppe Dierna insiste nella postfazione sulla componente storica della malinconia di Hrabal: il taglio di capelli (la "tonsura") di Maryska, al pari di altre ricorrenti immagini di accorciamento e di divisione, raffigurerebbe la fine di una civiltà, il tramonto del vecchio mondo asburgico. A me pare che questa sia una lettura - come dire? - un po' troppo "rothiana" di Hrabal. La malinconia in Hrabal ha a mio parere soprattutto un'origine antropologica, o meglio ancora biologica. La comprensenza e la reversibilità dei momenti euforici e disforici è propria di ogni concezione vitalistica: quanto più forte e vivida è la percezione della realtà in termini di immediatezza sensuale, godibile e passibile, tanto più incombente e minacciosa appare la prospettiva della fine. La vita è, in quanto procede verso la morte. Ma in Hrabal non c'è solo questo; c'è anche un acuto senso dell'indissolubile commistione di crudeltà e tenerezza che caratterizza l'esistenza in quanto tale. Maryska, che dell'esuberanza vitale rappresenta senza dubbio l'incarnazione più genuina, collabora all'uccisione del maiale, coine abbiamo visto, e dopo averne lavorato le carni e il sangue, divora nottetempo due braciole con una voluttà quasi selvaggia. È più avanti, non si limita a tagliarsi i capelli o a accorciarsi le gonne, in omaggio alla moda, 18 o a segare le gambe di un tavolo insieme al vulcanico zio Pepin (e finiranno per affettare quattro volte la stessa gamba): mozza anche, con un colpo di scure, la coda del povero cagnolino Mucek, che diverrà idrofobo e dovrà essere abbattuto. Non si tratta né di futile sconsideratezza, né del simbolo della fine di un'epoca (anche se certo, la moda e la morte hanno qualcosa in comune); la vita è così, un impasto di gioia e sofferenze, di brutalità e di rimorso. Non sono nulla più che un tenero macellaio, dice il protagonista di Una solitudine troppo rumorosa. Fra la carne e la carta sussiste un'intima solidarietà, si tratti delle pagine dove ancora alita lo spirito dei grandi uomini o della carta insanguinata delle macellerie. Lavorando al macero, Hanta prova l'ebbrezza e l'angoscia della distruzione; ma la distruzione stessa è anche rinascita, o creazione ulteriore, nell'ininterrotto tramutarsi delle forme materiali. Il suicidio nella pressa meccanica (così come l'anacoretismo finale del protagonista di Ho servito il re d'Inghilterra) rappresenta anche una maniera, forse l'unica, di sopravvivere. Feroce e struggente, il vitalismo di Hrabal tende sempre più chiaramente verso esiti mistici. L'impetuoso fiume paratattico della sua narrazione si placa solo nei vasti seni di un silenzioso mare senza nome, dove detriti e diamanti trascinati dai vortici La Praga di Kafka e Hrabal. In basso: Kafka. della loquacità attendono il gesto di un'altra mano demiurgica. Ma su questa via possiamo capire Hrabal e ammirarlo, non seguirlo. Incapaci di aderire come lui all'immediatezza del vivere, privi dell'esperienza di una vita irripetibile come la sua e minacciati per parte nostra soprattutto dall'ammontare dell'indifferenziato, preferiamo attenerci a una visione delle cose meno istintiva e simpatetica, meno "entusiasta" (nel senso etimologico della parola), ma più articolata e più controllabile. Leggeremo erileggeremo con piacere Hrabal, e torneremo da lui a imparare quello che può insegnarci; ma non ci riconosciamo nell'orrore del silenzio che alimenta la vena delle sue narrazioni, né nella calma estatica che esse proiettano o postulano oltre i propri confini. Il suo mondo non è il nostro. Continueremo a seguirlo, con affetto, da lontano. IL SAGGISTABEST-SELLER Alberto Cristo/ori Kafka di Pietro Citati (Milano, Rizzoli 1987) sicuramente non è una biografia romanzata: malgrado nelle classifiche dei più venduti il libro figuri nel gruppo "narrativa" e non in quello "saggistica", l'autore ha voluto fare un libro (divulgativo quanto si voglia) di indole propriamente saggistica. Mentre la biografia romanzata infatti si caratterizza per il fatto che l'autore lavora sui fatti reali come su di un canovaccio da "infarcire" dando spazio alla fantasia, Citati si è limitato a calcare certi toni rispetto ad altri, a omettere certi aspetti della figura di Kafka e a insistere su altri. Mentre il biografo-romanziere lavora per aggiunte, Citati ha operato soprattutto per sottrazioni: egli non parla, se non per brevi accenni, della famiglia e del complesso edipico di Kafka, non accenna neppure all'ebraismo e all'interpretazione "politica" dell'opera kafkiana (il suo "tono da estrema sinistra", come è stato detto). Accusato da E. Filippini su "Repubblica" (13/10/87), Citati si è difeso dicendo: "Lei pretende una cosa sola da me. Ch'io ripeta alcune idee su Kafka che, da almeno quarant'anni, tutti i critici letterari ripetono e che vengono conservate gelosamente in ogni manuale di letteratura tedesca. Ora io non affermo che queste idee ... siano giuste o sbagliate. SemplicemC!nte,non mi interessava ripeterle". ("La Repubblica" del 16/10/87). L'autodifesa di Citati nasconde (male)
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