aderiscono di fatto, nel campo economico, culturale e politico. Hanno cancellato dal loro linguaggio, coerentemente, termini come capitalismo, socialismo, contraddizioni di classe, lotta di classe, classe operaia, ecc. Ma si guardano bene dal cancellare, con altrettanta coerenza, altri termini, quali: solidarietà, interessi generali e comuni, egoismo, individualismo, corporativismo. Questi termini, oggi come ieri, motivano in parte la funzione di quelle organizzazioni. Ma il contenuto che coprono è rovesciato. Infatti quando "solidarietà" si accompagna a "lotta di classe", "interessi generali" a "classe operaia" contro "interessi capitalistici", e così via, questi termini significavano esattamente il contrario di quando gli "interessi generali" sono per l'appunto gli "interessi capitaistici" - una volta esclusa ogni ipotesi alternativa; e "interessi comuni" dei lavoratori sono quelli definiti tali dal sistema padronale e compatibili con tale sistema: la ripetizione di quanto avevano già organizzato i fascisti col sistema corporativo. Ecco dunque che il termine "corporativo", nel contesto storico italiano, designa esattamente il contrario di quello che organizzazioni sindacali e politiche e media vorrebbero fargli designare: corporativa è la difesa di interessi specifici che non miri, neppure in prospettiva, al rovesciamento né alla modifica profonda del sistema economico-politico esistente, e sia compatibile con gli interessi che tale sistema definisce come generali. Non solo, ma accetti l'istituzione di garanzie per l'osservanza di tali limiti. Sia priva insomma di prospettiva generale alternativa. A mediatori istituzionali fra i detentori del potere economico e politico e i lavoratori, ai fini della tutela degli "interessi generali" definiti come sopra, sono promosse le organizzazioni politiche dell'ex-sinistra e i sindacati, che grazie al loro passato (risalente a ben prima degli anni sessanta) godono tradizionalmente della fiducia dei lavoratori, ma hanno fatto propria la causa della stabilità del sistema economico e politico vigente. Ecco dunque partiti della ex-sinistra e sindacati invocare, al pari dei fascisti, la solidarietà dei lavoratori subordinata alla compatibilità col sistema dei padroni. Le libere iniziative individuali o di gruppo rischiano di varcare i limiti consentiti e di scuotere la stabilità del sistema che i sindacati-istituzione concorrono a garantire. Per questo, e non per gli addotti motivi morali e moralistici, esse vengono criminalizzate. I) Mi domando se per Manghi "i movimenti d'ispirazione marxista" non siano assimilabili a qualcosa come il famigerato "Servire il popolo" degli anni settanta, che molto aveva di stalinista, qualcosa di populista e di marxista praticamente nulla. 2) La sopravvalutazione non concerne la trasformazione della società e dei costumi, profonda e indubbia, ma la presunta novità dei contenuti politici proposti. 3) 11quale poi compare nella figura di "ozioso" solo al tempo della sua decadenza. I nobili in origine non lavoravano, ma erano attivi come guerrieri (mettendo a rischio anche la vita) e come governanti. 4) Leggiamo a p.66: " ... primi anni sessanta. Prima di allora lo stesso termine "sindacato" era largamente sconosciuto ... " Senza commenti. 5) Presenti sempre e comunque in chi tenta di fare storia utilizzando le proprie esperienze personali - come sanno bene quanti si occupano di storia orale. 6) Si era allora al culmine di una fase di boom economico, mentre l'ammontare dei salari era sproporzionato al livello raggiunto di ricchezza sociale. Di qui la pressione per l'aumento dei salari e la relativa facilità ad ottenerlo, entro limiti però invalicabili. 7) Scrive Manghi (p. 41): " ... domina ... l'idea che le ricchezze disponibili non crescono indefinitamente". Da questo deduce che "Si attenua lo scandalo di una povertà che si diffonde contemporaneameme all'opulenza''. Restando nella sfera in cui operano concetti quali lo scandalo, non comprendo perché, in queste condizioni, lo scandalo dovrebbe attenuarsi anziché aggravarsi. .DIKUSSIONl/fOFI LEMEZZESEGHE ALL I ARREMBAGGIO Goffredo Fofi Ci sono luoghi (redazioni di certi settimanali e riviste, pagine culturali di certi quotidiani, redazioni di rubriche radio e televisive, sottosettori di certe case editrici, ecc. - diventati da qualche tempo molto agitati. Di una vitalità che corrisponde senza più remore e maschere a quella medesima che ha fatto del nostro paese uno dei più rappresentativi, per incrocio di circostanze storiche ed economiche ancora poco spiegate e che anzi ci si guarda bene dal voler spiegare, del degrado crescente dei rapporti sociali, di una etologica strugg/e f or lif e che bensì si basa sul paradosso di una diffusùicchezza che ne toglie, quantomeno nei settori di cui si parla, ogni belluina "necessità". Poiché infatti, di riffe o di raffe il benessere - il godimento di uno standard di vita elevatissimo rispetto alle medie mondiali - è assicurato. La nevrosi e l'insoddisfazione, il voler di più (ma spesso un "di più" che non si sa definire, se non genericamente col termine di "successo", che indica solo una mediocre fama, il mediocre plauso dei media) sono tuttavia in agguato. Nel campo che riguarda giornalisti e letterati le regole del gioco sembrano essere meno "scritte" che altrove, per esempio rispetto a quelle, allucinanti da sempre, della carriera universitaria, e dunque può apparire più scoperta la sua litigiosa aggressività. Non vale la pena dilungarsi nella descrizione di questa specie di umanità, che peraltro fa oggi di tutto per mostrarsi come davvero è davanti alle telecamere di molte trasmissioni inventate ad hoc, che il "pubblico" appassionato forse riesce anche a gustare, nella convinzione del "tutti peccatori" della stessa pasta, quelli dentro lo schermo e quelli in poltrona. Vale la pena invece di constatare l'uniformità anche quando più ci si vorrebbe affermare per diversi. O abbaiare di più. Altre constatazioni vengono però alla mente. Per esempio, quella della quasi generale scomparsa di una "serie A" di intellettuali di taglia, perlomeno tra quelli che più si mostrano o di cui più si parla. Se si escludono certi "grandi vecchi" o quasi grandi. Ma poi si escludono? ne conosciamo, di senilmente trascinati dall'andazzo, che vogliono anche loro gustare, dopo vite non poi tanto dure, le gioie belle del "successo" e per esse si svendono con sconcertante narcisismo; ne conosciamo anche tra quelli un tempo vicini. Ne consegue nel campo intellettuale e artistico, che i posti occupati dalla serie "A" sono liberi, e che c'è una o più leve di "serie D" che cerca affannosamente di occuparli. Non mancano le chances per riuscirvi, anche se la lotta sarà a coltello, è già a coltello, tra i singoli e tra i gruppi; tanto più se, nella generale dimissione di gusti e valori, bastano gli osanna dei colleghi di cordata per far passare uno scrittore dalla D alla A. Anche se naturalmente il tale non sarà mai un Gadda anche se ne avrà occupato la poltrona, o un Calvino, o un Pasolini, o una Morante. 9
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