Linea d'ombra - anno VI - n. 25 - marzo 1988

MARZO 1988 - NUMERO 25 LIRE6.000 I mensile di storie, immagini, discussioni

========== CHISENEINTENDE ========= :============== LOCHIAMAVA ========== "ILDEVOTO-OLI" ' ============ ORALOCHIAMERA ========= "ILNUOVODEVOTO-OLI" ---ELOTROVA~~~~~~ ===== NELLEMIGLIORLI IBRERIE- La tradizione che si rinnova, che muta ... per rimanere fedele a se stessa. Grazie a un lungo e accurato lavoro di Gian Carlo Oli, coadiuvato da un'autorevole équipe di docenti universitari, di esperti delle varie discipline e di artisti di valore, vede oggi la luce questa nuova, preziosa e indispensabile opera in 2 volumi. NUOVOVOCABOLARIIOLLUSTRATO DELLALINGUAITALIANA 150.000LEMMI,6.740ILLUSTRAZIONI,96 TAVOLEA COLORI PERESSEREIN SINTONIACONLAREALTÀLINGUISTICAE CULTURALEIN CUIVIVIAMO -Selezione = dal Rçader'sDigest ALSERVIZIODELLALINGUAITALIANA

Einaudi JohanJnakobBachofen Ilmatriarcato Tomoprimo Per la prima volta in traduzione integrale un grande classico della storia delle religioni, rassegna enciclopedica dei miti e dei simboli di tutto il mondo che hanno tramandato fino a noi la presenza del potere femminile. A cura di Giulio Schiavoni, con un saggio di Furio Jesi. «I millenni», pp. LXXIV-522con 30 illustrazioni fuori testo, L. 60 ooo GastoSnalvatore Stalin Nell'inverno del 1952, al crepuscolo della dittatura, il vecchio tiranno mette in scena un suo Re Lear. Traduzione di Riccardo Held. «Supercoralli», pp. 95, L. 16 ooo AndréGide ViaggiaolCongo RitorndoalCiad Il reportage nel cuore dell'Africa equatoriale che segna una svolta nella vita e nell'arte di Gide. Con un saggio di Valerio Magrelli. Traduzione di Franco Fortini. «Supercoralli», pp. v-345, L. 28 ooo MarioFortunato Luoghniaturali L'esordio narrativo di un « paesaggista esistenziale». Nove racconti legati da un unico filo che intreccia le vicende dei personaggi alla disperata ricerca di sentimenti. «Nuovi Coralli», pp. 153, L. 10 ooo RaffaelBloaldini Furistir VeniIndialettro magnolo Una voce inconfondibile della poesia dialettale racconta la nevrosi quotidiana. Introduzione di Franco Brevini. «Collezione di poesia», pp. IX-105, L.9000 ErsiliZaamponi eRobertPoiumini Calicanto La poesia Ingioco Dopo I Draghliocopei un'originale « scatola di montaggio» con cui imparare a leggere, capire, amare la poesia. «Gli struzzi», pp. 193, L. 14 ooo Il. Baroni E. FublniP.Petazzi, P. Santi G.Vlnay Storidaellamusica Il fatto musicale nei suoi aspetti storici e nei suoi elementi espressivi dall'antica Grecia sino ai giorni nostri. «Gli struzzi», pp. xxvm-535 con 34 illustrazioni fuori testo, L. 26 ooo A.Schonberg eW.Kandinsky Musiceapittura Letterete, sti,documenti La pittura astratta, la musica atonale e il progetto di un'arte totale in un dossier inedito. «Saggi», pp. xv-190, L. 42 ooo lsabedleMadariaga CaterindaiRussia Una biografia a tutto tondo della grande sovrana fra intrighi di corte, riforme amministrative, imprese militari e esperimenti sociali. Traduzione di Enrico Basaglia e Michela Zernitz. «Biblioteca di cultura storica», pp. XXI-847con 8 illustrazioni fuori testo, L. 75 ooo RoberCt.Ritchie CapitaKnidd e la guerrcaontro I pirati Nella vicenda storica della pirateria, l'avventurosa vita del capitano Kidd fa anche luce sulla politica commerciale dell'Inghilterra fra Sei e Settecento. A cura di Franco Marenco. «Saggi», pp. xxn-281 con 20 illustrazioni fuori testo e 2 cartine, L. 30 000 EduardSoaccone Fenoglio I testi, l'opera Le origini, le ragioni, la modernità della scrittura di Fenoglio. «Pbe», pp. xv-214, L. 15 ooo VittoriAolfieri Mirra La tragedia dell'amore impossibile d'una giovane principessa. Nota introduttiva di Guido Davico BoninÒ. «Collezione di teatro», pp. vm-95, L. 8000 BrunoMunari Unfioreconamore Un poeta che è anche un grande designer insegna ai bambini l'arte dell'ikebana. «Libri per ragazzi», pp. 64, L. 18 ooo

Direi/ore Goffredo Foti Direzioneeditoriale Lia Sacerdote Grupporedazionale Adelina Aletti, Giancarlo Ascari, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Alfonso Berardinelli, Paolo Bertinetti, Gianfranca Bettin, Franco Brioschi, Marisa Caramella, Cesare Cases, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Stefano De Matteis, Bruno Falcetto, Fabio Garnbaro, Piergiorgio Giacché, Giovanni Jervis, Filippo La Porta, Gad Lerner, Claudio Lolli, Marco Lombardo Radice, Maria Maderna, Luigi Manconi, Danilo Manera, Edoarda Masi, Santina Mobiglia, Maria Nadotti, Antonello Negri, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli, Bruno Pischedda, Roberto Rossi, Franco Serra, Marino Sinibaldi, Paola Splendore, Gianni Turchetta, Emanuele Vinassa de Regny, Gianni Volpi. ProgettoGrafico Andrea Rauch/Graphiti Ricercheiconografiche Fulvia Farassino, Nino Perrone Pubblicitàsettoreeditoriale Emanuela Merli Via Giolitti, 40 - 10123Torino Tel. 011/832255 Hanno inoltrecollaboratoa questonumero: Pasquale Alferi, Antonio Aliverti, Marcella Bassi, Francesco Cavallone, Paola Costa, Vincenzo Cottinelli, Giorgio Ferrari, Regina Hayon Cohen, Bruno Mari, Vanna Massarotti, Roberta Mazzanti, Grazia Neri, Piera Piatti, Carla Rabuffetti, Emanuela Re, Luciana Stegagno Picchio, Itala Vivan, ·Storiestrisce, le case editrici Einaudi, Garzanti, Lavoro, le librerie Feltrinelli di Via Manzoni e La Nuova Corsia di Milano. I saggi e interventi di caratterescientifico vengonopubblicati con il concorso del "Progetto CulturaMontedison". Editore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Tel. 02/6690931-6691132 Fotocomposizionee montaggi multiCOMPOS snc Distribuzionenelleedicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Telefono 02/8467545-8464950 Distribuzionenelle librerie POE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (Ml) - Tel. 02/4473146 LINEA D'OMBRA mensiledi storie, immagini, discussioni Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo 111/70% Numero 25 - Lire 6.000 Abbonamenti Abbonamento annuale: 1TALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno bancario o e/e postale n. 54140207 intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscritti non vengono restituiti Si risponde a discrezionedella redazione. Si pubblicano poesie solo su richiesta. llNEAD'D■RA anno VI marzo 1988 numero 25 EDITORIALI 4 6 9 11 Vittorio Dini Edoarda Masi Goffredo Fofi Elsa Morante Sud e nazione Mediatori Le mezzeseghe all'arrembaggio Nota introduttiva a "Il mondo salvato dai ragazzini" IL CONTESTO 14 Memoria (P. Splendore su Raymond Williams); Consigli/Sconsigli (G. Cherchi); Horror (S. Benni); Riviste (M. Cuminetti su alcune riviste cattoliche); Confronti (M. Barenghi su Bohumil Hrabal R. Mozzanti su Barbara Lanati, V. Perretta su li giapponismo di F. Arzeni); Giornalisti (A. Cristo/ori su Citati e il suo Kafka); Teatro (S. De Matteis sui napoletani Ruccello e Moscato); Musica (A. Baricco su Pogorelich); I numeri (A. D'Orrico su Hrabal e "Linea d'ombra"); Lettere (di P. Barcellona e P. Vineri sulla recensione di Ciafaloni a Barcellona); Dai lettori (S.C. Perroni su Arbore, M. Pistoia su Kubrick, M. Giannini sul Cile di Donoso). POESIA 63 fohn Montague STORIE 28 33 35 37 38 42 47 52 65 75 Elfo Sony Labou Tansi Vincenzo Consolo Andrea Berrini Mimmo Lombezzi Olive Schreiner J.M. Machado de Assis Moacyr Scliar Julien Gracq F. Paolucci Mancine/li Poesie Problemi di parcheggio L'immagine Porta Venezia I bianchi Diario eritreo Realtà e visione. Una piccola storia africana a cura di Annalisa Oboe Padre contro madre a cura di Rita Desti La ballata del falso Messia a cura di Amina Di Munno Dalla finestra a cura di Lidia Breda Laura NARRARELASCIENZA 55 Edmund Wilson Alle Galàpagos INCONTRI 29 T. Ben Jelloun Uno, due e tanti a cura di G. Fofi e Egi Volterrani DISCUSSIONE . 67 69 71 72 Stefano Velotti Antonella Tarpino Marcello Flores Paola Splendore Filosofia e critica letteraria secondo Habermas Modernità e storia. Una rassegna Il cinema contro la storia Pastiches post-moderni 78 Gli autori di questo numero 79 Pro memoria La copertina di questo numero è di Margherita Be/ardetti

DISCUISIONI/DINI SUOENAZIONE Vittorio Dini Da qualchetempo ormai l'intellettualità sociologica e politica di questo paese ha dichiarato finita la questione meridionale;conalcunidistinguo, in quanto molti specificano che finiti sono i vecchitermini della questione meridionale. Anche il poterepoliticosembra avere sancito tale atto di morte, ponendo fine - ma di fatto soltanto ridimensionando e ristrutturando - all'intervento straordinario, che dal secondo dopoguerraha costituito l'asse portante della politica meridionalistica dei vari governi. Eppure, a qualsiasiosservatore anche non particolarmente attento la realtà appare ancora segnare profonde differenze tra Nord e Sud; basta trascorrere solo poche ore sia nelle città, sia soprattutto nei piccoli centri delle due aree per cogliere tutta la distanza di condizioni sociali, economiche, di qualità della vita che le separa. La stessa dimensione culturale, così come quella antropologica, mostrano a prima vista differenziazioni analoghe a quelle di qualche decennio fa. I dati oggettivi,dal canto loro, confermano tale impressione; basta dare uno sguardo al recente Rapporto 1987sull'economia del Mezzogiorno della SVIMEZ (Il Mulino, Bologna 1987).Sesi guarda all'occupazione, dato certo fondamentale, risulta che il tasso di disoccupazione effettiva e il tasso di inoccupazione totale sono all'incirca il doppio rispetto al Nord e, per di più, mostrano una crescita preoccupante. Tuttavia, non c'è alcun dubbio che la situazione presenti caratteristiche del tutto nuove in confronto a qualche decennio fa. Lo sviluppoc'è stato, dal punto di vista economico e nelle sue conseguenzesociali e culturali. Un radicale processodi modernizzazionesi è verificato, secondo tempi e modalità affatto peculiari. I tempi, in primo luogo: l'accelerazione spinta ha realizzato in un trentennio un processo che altrove ha richiestouna dimensione secolare. E se teniamo presente che sempretale processo ha comportato acute diseguaglianze e profonde distorsioni nello sviluppo sociale ed economico, non ci si poteva attendere certamente che una simile accelerazionenon amplificasse gli effetti negativi. Il quadro che ne emerge è pertanto estremamente complesso: accantoa dati e fenomeni di chiaro significato - qua- !e, per esempio,i consumi notevolmente accresciuti e tuttora 1~ crescita proporzionalmente maggiore che nel resto d'Italia - e che esprimono la modernizzazione avvenuta, persistono invececaratteristiche e strutture del tutto inidonee ad una società modernasviluppata. I servizi in generale, ma anc?ra di più per la qualità stessa della vita le strutture ammin!strative e politiche, presentano livelli di arretratezza e disfunzione assolutamente inaccettabili. La crescita caotica, senza nessun disegno programmatore, degli insediamenti e 4 delle realtà urbane ha moltiplicato, fino a renderli intollerabili, gli effetti perversi del disservizio. Secondo lo stesso Rapporto SVIMEZ, l'area urbana di Napoli, opportunamente e realisticamente ricalcolata, comprende 4,3 milioni di abitanti, la metà circa della popolazione urbana dell'intero Mezzogiorno. Se a ciò si aggiunge la natura del sistema politico locale, immagine riflessa di quello nazionale, e la sua educazione e formazione - anche a livello di personale politico ed amministrativo - all'esclusiva attenzione verso i flussi della spesa pubblica, con relative articolazioni malavitose e camorristiche, allora non ci si dovrà sorprendere più di tanto per come vanno le cose. Che a Napoli la Nettezza urbana e i trasporti, il traffico siano giunti a livelli di insopportabilità così acuti, non è un mero problema di arretratezza, di gestione amministrativa, quanto piuttosto un problema squisitamente politico. Occorreranno profonde riforme del sistema politico, affinché si possano ottenere dei risultati significativi. Discorso analogo e talvolta complementare vale per la malavita organizzata: essa, più che rappresentare il cancro delle attuali istituzioni, affonda le radici nella natura del sistema sociale e politico, del quale rende più efficaci e realizzabili compiti e finalità troppo complicati dentro il quadro della legalità. Dal punto di vista sociale, in seguito allo sviluppo è avvenuta una disarticolazione delle classi e dei gruppi sociali. La polarizzazione netta tra ricchi - per lo più arroganti e incapaci di progettare attività produttive - e poveri - destinati alla povertà o all'emigrazione - non è più così netta. Beninteso, non è che la distanza non esista o non sia molto radicale. Tutt'altro: la miseria sociale esiste ancora e in certo senso si è anche estesa e radicalizzata. Ciò che invece si è modificata è l'estrema diffusione e differenziazione delle fonti dei redditi: il lavoro salariato nelle sue diverse espressioni, l'erogazione da parte dello stato assistenziale e degli enti locali hanno determinato una giungla di retribuzioni e coagulato interessi e corporazioni più o meno forti e consistenti. Ne è risultata sì una omologazione dei ceti popolari, ma si tratta di una omologazione parziale, quasi esclusivamente legata al livello dei consumi: non a caso proprio i consumi - abbiamo visto - risultano in aumento. La straordinaria diffusione dei mezzi di comunicazione di massa è un altro e decisivo strumento di omologazione. E tuttavia non soltanto gli ambiti sociali appaiono diversificati, le stesse culture che essi esprimono sono per così dire frastagliate; la loro diversificazione è in relazione non solo con l'insediamento sociale, ma anche con importanti sopravvivenze di tradizioni culturali antiche. Ed è un intreccio che potrebbe avere anche un significato decisamente positivo, se si riuscisse a rendere effettivamente produttiva questa relazione tra modernità e tradizione. Si tratterebbe di recuperare una identità non del tutto perduta e coniugarla con una modernità pienamente dispiegata; se l'omologazione - come abbiamo supposto - riguarda principalmente la forma (consumi, massmedia, ecc.) e non ancora l'identità stessa in senso compiuto.

Ma certo gli stessi modi di vita, i bisogni, stanno profondamente modificandosi insieme ai consumi e sottp l'egemonia dei massmedia. Altri dati sembrano indicare modificazioni altrettanto consistenti dal punto di vista delle classi dirigenti. Già abbiamo visto come in ambito amministrativo e politico la tradizione parassitaria e speculativa abbia trovato nel sistema dei partiti e nella criminalità organizzata alimento e supporto per un ulteriore sviluppo. La gestione degli enti locali evidenzia l'assommarsi di questa deleteria tradizione, dell'incompetenza e dell'inerzia. L'intero sistema amministrativo e politico meridionale ne è pervaso: alle strutture deboli e giovani si aggiunge così una soggettività perversa, con risultati che abbiamo sotto gli occhi tutti. Anche settori che mostrano un carattere più dinamico e lasciano soprattutto intravvedere potenzialità di sviluppo vengono invece, proprio a causa di una gestione politica di tal genere, repressi e bloccati. Tutto il campo delle politiche del lavoro potrebbe oggi avere ben altra direzione e progetto, solo che si intendesse la sua finalità generale. La domanda e l'offerta di lavoro forse mai come oggi - e soprattutto nel Mezzogiorno - presentano una notevole omogeneità di indirizzo: il lavoro socialmente utile piuttosto che quello industriale e direttamente produttivo. Settori come il turismo, il commercio, l'artigianato, il lavoro nei beni culturali ed ambientali, la ricerca, in generale i servizi e il cosiddetto terziario richiedono sempre di più impiego di manodopera, e contemporaneamente molti giovani rivolgono la propria attenzione e la propria preparazione (spesso del tutto volontaria e da autodidatti) verso questo genere di attività. Il risultato di tale convergenza è frequentemente in modo riduttivo piegato, e nel migliore dei casi, al puro e semplice "posto": energie sprecate, che non producono e non si rinnovano ed estendono come pure reclamerebbero. Qui si intrecciano in un nodo che appare inestricabile sistema politico nazionale e sua articolazione meridionale. Lo stesso Rapporto SVIMEZ, sembra avvicinarsi al problema, quando dice (p. 18): "Il Mezzogiorno non può far conto esclusivamente sulle virtù spontanee dei soggetti sociali e del mercato. Per la sua modernizzazione sarebbe invece sempre necessaria l'azione di uno stato che DISCUSSIONI/DINI Foto di Peppe Avallone. esso per primo diventi finalmente moderno, in tutte le sue articolazioni centrali e locali, ordinarie e straordinarie". Ma la soluzione è difficilmente attingibile attraverso il recupero di una progettualità perduta e di un'autonomia di organi ed enti operativi, come subito dopo viene indicato. · Se il Mezzogiorno è cambiato, la natura e la funzione degli intellettuali ha subito metamorfosi altrettanto rilevanti. Socialmente, è difficile non applicare ad essi il termine, una volta abusato, di "proletarizzazione"; anche se è innegabile che al Sud la laurea conferisce ancora uno status particolare fruibile spesso anche sul piano politico. Ma la vecchia dicotomia che spingeva l'intellettuale meridionale a scegliere il filisteismo verso i ceti dominanti o l'alternativa anarchica al potere è oggi assai meno presente: gli intellettuali formano e sviluppano, a seconda delle loro forze, propri gruppi e corporazioni con relativi sistemi di alleanza con altri gruppi e con le forze organizzate (istituzioni, partiti, sindacato). Dal punto di vista intellettuale, dell'ideologia, i termini sono anch'essi profondmente mutati. L'intellettuale meridionale tende sempre più a sfuggire e a far dimenticare, a nascondere la propria origine, quasi ne provasse vergogna: richiamato altrove perché altrove si trovano i mezzi di produzione intellettuale, è poi spinto a questa dimenticanza del1'origine e, se proprio vi è costretto, ne parla solo per giustificare la partenza, quasi si trattasse di una fuga. Se rimane, e non è funzionario di establishments dominanti, è quasi sempre dedito al lamento, al rimpianto delle occasioni perdute, alla denuncia di un sistema nemico che lo costringe a non esprimersi come vorrebbe e saprebbe. C'è un altro atteggiamento, questo già presente in una tradizione non priva di momenti di autentica nobiltà intellettuale: l'atteggiamento illuministico-radicale, oggi ben rappresentato da Sciascia. È un atteggiamento generoso, molto spesso francamente utile e-necessario - penso ad esempio alla recente polemica di Sciascia verso il conformismo dello schieramento antimafi~, specie se visto in contrapposizione alla gretta logica di schieramento condita di pericolosi germi di totalitarismo sostenuta da difensori di quello schieramento come Giampaolo Pansa. Tuttavia la verità che con questo atteggiamento si afferma è pur sempre una verità parziale: ciò che si denuncia è la degenerazione, la deformazione del potere, mai la radice reale delle disfunzioni. Si attingono così importanti acquisizioni sul piano dei diritti civili e delle battaglie conseguenti. Ma, anche in confronto con l'illuminismo radicale classico, manca una prospettiva riformistica conseguente, cosicché il radicalismo della denuncia rischia di diventare disperato pessimismo. Non sembra esservi via d'uscita se non la pura resistenza, la difesa di spazi comunque delimitati. Certo, ottimismo è veramente difficile mostrarne, a meno che non si sia disposti a contrabbandare idee; ma è forse ancora possibile svolgere una funzione critica di conoscenza nel Mezzogiorno senza perdere di vista possibili obiettivi di trasformazione dell'esistente. 5

DISCUUIONI/MASI MEDIATORI Edoarda Masi Una lobby, o gruppo di pressione, che i mutamenti del presente hanno investito di una straordinaria crescita di potere e, ad un tempo, di una crisi d'identità mortale, è quella dei sindacalisti. Il loro grande potere congiunto all'azzeramento (o al rovesciamento) del loro ruolo tradizionale è uno dei tanti paradossi, oggi, di una società impotente a riconoscersi quale è e che si maschera dietro i nomi di un passato morto (democrazia parlamentare, sovranità popolare, rappresentanza) e dietro valori inesistenti. Ne deriva una confusione mentale, nei soggetti interessati, dove è difficile distinguere la buona dalla mala fede. È il caso di Bruno Manghi, segretario generale della CISL di Torino, in un saggio recente: Passaggio senza riti, Edizioni Lavoro, Roma 1987. La prima reazione di un lettore non giovane e di formazione marxista è l'incredulità. Come è possibile in un diri- •gente sindacale tanta ignoranza della storia del movimento operaio? Dal primo capitolo si introduce e si sviluppa una tematica, che resterà di supporto a tutto il libro: "La tensione morale ... per molte generazioni, accomuna socialisti, anarchici, marxisti, cattolici sociali, progressisti di varia estrazione ... La sua direzione è la giustizia sociale... il riferimento ... gli ultimi" (p. 23-24). Questo riferimento agli "ultimi" - che sono poi i "poveri" del cristianesimo - sarebbe stato centrale nelle ideologie del movimento sindacale italiano, e sarebbe venuto menò_negli ultimi anni, con l'innalzamento rilevante del tenore di vita medio dei lavoratori (con l'entrata presunta nell'epoca: della "ricchezza"). L'inattualità del riferimento ai poveri ''.ultimi", oggi che tutti sono diventati ricchi, sarebbe una delle cause della presente crisi del sindacalismo. L'asserzione può avere una validità - in termini più che altro psicologici - per un certo numero di "cattolici sociali" colti e bene intenzionati (un po' meno, credo, per i sindacalisti, sia pure di estrazione cattolica). È parzialmente arbitraria per quel che concerne le sfere laiche del movimento sindacale, e palesemente assurda se riferita ai marxisti. Ma l'autore vi ritorna e vi insiste: "Che l'identificazione con gli ultimi ponga problemi è testimoniato dal continuo ricorso che i movimenti di ispirazione marxista (e non solo essi)hanno fatto ad una morale di subalterni inerente la sobrietà dei costumi, le amicizie, i gusti, le abitudini semplici, in una inesauribile rincorsa fra lealtà e trasgressione" (p.31). Sembra di sognare. (1) Un quadro simile non solo è falsificatore del realismo materialistico del marxismo, ma ne cancella l'intera sostanza, là dove la candidatura a classe dirigente degli operai (ben distinti dagli straccioni o Lumpenproletariat) si fonda sul loro carattere non già di poveri bensì di "ricchi", in quanto produttori fondamentali della società industriale. È sufficiente 6 una lettura superficiale del Manifesto del partito comunista per sapere che l'ascesa della borghesia e la sua vittoria sulle classi feudali sono per Marx il modello dell'emancipazione del proletariato industriale. Oggi possiamo accordare più o meno attualità a questo discorso, ma è evidente che gli "ultimi" vi sono totalmente estranei, come sono estranei alla lunga tradizione della parte di movimento operaio che ad esso si ispira. Se si muove da una simile deformazione, o capovolgimento, ne deriva fra l'altro che le sole visioni "disincantate" (cioè non moralistiche) della politica restano quelle della "cultura pluralistico-conflittuale britannica e nord-americana" (ibid.). Naturale, se si omette che il marxismo si fonda non sull'uguaglianza con gli ultimi bensì sulla lotta di classe - e "conflittuale" è di certo, se pur non sempre "pluralista" (sì nella versione socialdemocratica, non in quella leninista). (Nella stessa pagina, e nella seguente, anarchismo storico e populismo russo sono sottoposti a una rapida semplificazione, per non dire altro, se pure non alla deformazione radicale riservata al marxismo.) Leggiamo ancora a p. 40: " .. .l'immagine degli ultimi... sta perdendo forza ... i soggetti sociali in condizioni subalterne e marginali vengono studiati...". Non lo sfiora il sospetto che fra "subalterni" e "marginali" possa intercorrere qualche differenza: non solo Marx ma anche Gramsci è estraneo al suo orizzonte. Queste e altre simili cantonate sono facili per chiunque, nell'Italia degli ultimi quarant'anni, si sia impegnato politicamente nell'area cattolica o in quella comunista. Due culture parallele si sono sviluppate in modo autonomo: entrambe offrivano della realtà una visione parziale che si pretendeva totale; ma almeno ciascuna delle due non pretendeva di identificarsi con l'altra. La confusione comincia durante il movimento degli anni sessanta e settanta quando, rotte le barriere istituzionali, l'incontro fra le due avviene nella superficialità e nell'equivoco. L'impasto psicologico nato da quell'equivoco è per molti una componente esistenziale, una realtà di cui tener conto comunque. Ma la debolezza si rivela quando si tenta di fare storia su un arco di tempo più esteso, su quelle basi franose. Ecco allora l'altra sfasatura, presente in molti della generazione degli anni sessanta: oltre a sopravvalutare il carattere "rivoluzionario" di quel periodo e comunque la sua: importanza (2), essi sembrano scambiare, per così dire, il tempo della propria giovinezza con quello della giovinezza del mondo. L'intera storia del movimento operaio è appiattita su quegli anni. Anche nel libro di Manghi c'è una doppia sovrapposizione di categorie e di tempi. Non si distingue fra la società europea preborghese e quella borghese, dove il rapporto signore-servo, fondamentale nella prima, è sostituito in misura sempre più massiccia da quello capitalista-salariato, con l'affermarsi della produzione industriale. La caratteristica del salariato è esattamente di non essere più un servo ma un libero cittadino al pari del capitalista. (È la precondizione della

DISCUSSIONI/MASI .. .spostare le questioni sul piano della morale e della psicologia, evitando un'indagine fondata sull'economia e sulla politica, è funzionale all'autodifesa dei sindacalisti quali professionisti che mi sembra il fine del libro di Manghi, e anche la sua fondamentale debolezza. vendita della sua forza-lavoro.) E quest'ultimo non è più, in alcun modo, "il ricco... spesso ... 'ozioso' " (p.50): la sua figura è l'imprenditore, che oggi si continua e si perfeziona nel manager. L'indistinzione fra il servo e il salariato e fra il signore aristocratico (3) e l'imprenditore borghese è di derivazione cattolica, e ne discendono numerose implicazioni - valide all'interno del pensiero cattolico tradizionale, ma insensate per i marxisti e anche per quei cattolici che hanno adottato le categorie marxiste nell'analisi economico-sociale. Ad essa si aggiunge poi l'idea che "l'esperienza sindacale", cioè la sindacalizzazione dei lavoratori e infine il movimento operaio, abbia inizio più o meno negli anni sessanta (4). Per di più un movimento operaio, come abbiamo visto, con caratteristiche premoderne. La doppia sfasatura temporale oscura la differenza di fondo fra i modi di produzione preindustriale (premoderno) e industriale (moderno), mentre attenua, fino a cancellarla, la continuità fra gli anni sessantasettanta e l'oggi, e cioè fra due fasi diverse di un sistema immutato neisuoi fondamenti; non solo, ma all'interno del quale proprio negli anni sessanta si opera quella svolta che conduce alla condizione presente. Queste sfasature, pur derivando dalle distorsioni del vissuto soggettivo (5) - quelle di un appartenente alla generazione degli anni sessanta, di formazione cattolica - sono funzionali alla difesa, oggi, degli interessi dei sindacalisti come categoria, al di là della perdita del ruolo tradizionale. Fra i cambiamenti verificatisi fra gli anni sessanta-settanta e oggi, Manghi sottolinea l'arricchimento dei lavoratori, la loro "entrata nella città", il venir meno dei valori di uguaglianza e solidarietà. È evidente che simili cambiamenti - siano essi realtà o aspetti fenomenici di altro - sono occorsi principalmente dal periodo (non breve) precedente gli anni sessanta ad oggi. Bassi salari, "esclusione dalla città", uguaglianza, solidarietà, fraternità fra i lavoratori si riscontrano nel corso di un secolo e mezzo di movimento operaio e si attenuano proprio a partire dagli anni sessanta. Ma si tratta di fenomeni di ordine diverso, non assimilabili; e quindi è bene esaminarli uno per uno. Cominciamo dalla "ricchezza". Quella che Manghi chiama con questo nome, se riferita all'intera nostra società credo si possa meglio definire accelerazione dell'aumento della produttività del lavoro grazie a nuove tecnologie, per un verso; e riassetto della divisione del reddito complessivo mondiale, per l'altro. Per quanto riguarda il primo aspetto, Manghi sa troppo bene che l'aumento relativo di salari e stipendi ha subito un'accelerazione da metà anni sessanta (6), mentre negli ultimi dieci anni la quota del reddito complessivo riservata ai lavoratori dipendenti è mediamente diminuita (più fortemente in alcuni settori sociali intermedi); insomma la ricchezza relativa dei lavoratori da ultimo è diminuita e non aumentata. (Mi sembra superfluo aggiungere che di ricchezza e di povertà è lecito discorrere solo in termini relativi, quando perfiqo i bisogni elementari non si definiscono in termini assoluti.) Per quanto riguarda il secondo aspetto, non mi soffermerò sullo sfruttamento esercitato globalmente dal Nord sul Sud del mondo, nelle nuove forme di colobizzazione non coloniale, e sulla promozione dell'Italia a paese del Nord sfruttatore, sia pure a livello parzialmente subalterno. (È la promozione che non era riuscita a ottenere col colonialismo straccione dell'era fascista.) Se poi tutto questo si traduce per un certo numero di operai nella parvenza falsa e nella falsa coscienza dell'arricchimento all'interno del loro paese, accompagnata dal rifiuto di riconoscersi sfruttatori di altri, oltre frontiera, è cosa che riguarda la psicologia di massa e le tecniche complesse della mistificazione (ivi inclusa l'automistificazione). (7) Quanto ali' "entrata nella città", confesso che mi sembra un discorso ideologizzante di basso livello. È legato alla tesi degli "ultimi": ma proprio chi chiedeva giustizia e uguaglianza per gli "ultimi" non poteva non includervi in primo luogo (ancor più di chi promuoveva la lotta di classe) giustizia e uguaglianza nei diritti civili e politici, e quindi riconoscimento della piena cittadinanza. Se poi l'entrata nella città è qualcosa di diverso dal miglioramento delle condizioni materiali di vita congiunto alla pienezza dei diritti civili e politici, mi sfugge di che cosa possa trattarsi. "Il popolo ... non voleva cambiare la città, semplicemente intendeva entrarci." Se questo significa "il popolo non voleva fare la rivoluzione, semplicemente intendeva migliorare le proprie condizioni di vita materiale e di partecipazione sociale", l'affermazione è senz'altro corretta. Con l'aggiunta che il popolo vuole sempre questa seconda cosa, e arriva alla rivoluzione solo . quando gli sono precluse tutte le strade per ottenerla pacificamente. Se si intende, in più, che oggi non ci troviamo in una situazione rivoluzionaria, mi sembra un'ovvietà; mi pareva un'ovvietà anche negli anni sessanta, e ancor più nei settanta. Ed eccoci alla questione della caduta dei valori, che da qualche tempo sembra dominare il campo. Non voglio ripetere in proposito quanto ho già accennato di recente su questa rivista. Osserverò solo che, in questo caso, spostare le questioni sul piano della morale e della psicologia, evitando un'indagine fondata sull'economia e sulla politica, è funzionale all'autodifesa comunque dei sindacalisti quali professionisti - che mi sembra il fine di questo libro, e anche la sua fondamentale debolezza. " ... mentre l'essere burocrati e professionisti non desta alcun problema nella cultura precedente, diventa inammissibile trasgressione nei movimenti orientati sull'uguaglianza" (p.37). Che pasticcio! Sono messe insieme due categorie del tutto diverse: burocrati e professionisti. Poi si omette di dire che nel passato i burocrati non destavano alcun problema finché non si incontrava la loro presenza in sedi non proprie (diverse per esempio, dalla pubblica amministrazione): nella specie, non nei sindacati. Da un lato, dunque, si tende a equiparare l'attività sindacale e qualunque altra attività professionale. Dall'altro lato, 7

DISCUSSIONI/MASI Foto di Sergio Ferrarla. si identifica ripetutamente lo stesso sindacato col "lavoro organizzato": senza cogliere la reciproca incompatibilità delle due definizioni. E trascurando il fatto che se il sindacalista è un professionista, un tecnico che mette la sua specifica competenza al servizio dei lavoratori organizzati (così come, per esempio, l'avvocato o il consulente fiscale mettono la loro competenza a disposizione dei clienti), questo implica automaticamente la non attribuzione al sindacalista di alcun potere decisionale. Invece Manghi rivendica per il sindacato (identificato non con i lavoratori ma con i vari strati di sindacalisti: anche in forma esplicita e articolata, per esempio nella parte II, cap. 4, p. 131-134) un potere politico che può legittimamente appartenere solo ai lavoratori organizzati. Di qui l'equivoco: di potere politico in questi termini ovviamente non parla mai. La "caduta dei valori" viene comunemente associata alle "spinte corporative", che muoverebbero tutti i lavoratori che si propongono la difesa in prima persona dei propri interessi specifici, scavalcando il sindacato e rifiutandogli la delega. Mi sembra che anche qui il luogo comune sia dominato dall'equivoco, non casuale. Il nostro paese ha conosciuto il corporativismo nella forma fascista. La tesi fascista era la seguente: "Esistono interessi generali del paese [a quel tempo si diceva 'della nazione'], preminenti rispetto agli interessi delle singole categorie. Le concezioni basate sulla lotta di classe, invece, antepongono gli interessi delle classi (rappresentate dalle rispettive organizzazioni) a quelli generali del paese. Noi (fascisti) promuoviamo un'organizzazione delle diverse categorie in termini non reciprocamente conflittuali - almeno non conflittuali oltre il limite al di là del quale sarebbero lesi gli interessi generali nazionali. Ciascuna categoria difenda i propri intere·ssi, in forma organizzata, subordinatamente al rispetto di interessi e fini superiori, che ci accomunano tutti". Va aggiul).tOche il sistema economico scelto dal fascismo come atto a favorire lo sviluppo degli interessi nazionali generali era quello capitalistico. A una più energica difesa di tale sistema mirava la correzione apportata dal fascimo alla teoria liberale, col porre un forte accento sugli interessi generali comuni (capitalistici), quando il solo rispetto della leggeparve troppo poco di fronte al premere della lotta di classe. Secondo la teoria della lotta di classe, quelli che vengono presentati come interessi generali nazionali (o del paese) non sono affatto generali ma di parte, e precisamente della parte padronale: infatti coincidono col sostegno al sistema capitalistico, di cui detta parte padronale beneficia a danno dei lavoratori, in particolare degli operai. L'unione solidale di tutti gli operai, non solo all'interno dei singoli paesi ma anche in campo internazionale, fondava una sfera nuova di interessi generali e comuni, alternativa a quella proposta dal capitalismo e mistificata come nazionale. Nel corso della storia del movimento operaio l'unione solidale si estese, dapprima nell'alleanza con i contadini non proprietari, quindi con i lavoratori in generale, quindi con le 8 popolazioni dei paesi colonizzati ed ex-colonizzati (borghesie "nazionali" incluse), e infine - nei fronti popolari e derivati - a tutti i cittadini di buona volontà promotori degli interessi nazionali (patriottici) in direzione anticapitalistica. L'estensione sempre più larga della sfera solidale alternativa per un verso coincideva col progressivo rafforzamento del movimento operaio, e con la candidatura della classe operaia a classe dirigente in luogo della borghesia capitalistica (e capace pertanto di rappresentare in termini più larghi e autentici della borghesia stessa gli interessi di larghi strati di popolazione, dentro e fuori dei confini nazionali). Per un altro verso, coincideva pure con la subalternità crescente dei dirigenti operai ai gruppi politici che - in rappresentanza della classe operaia - si erano impadroniti del potere statale (Partito comunista dell'Unione Sovietica) e, durante la guerra antinazista e antifascista, col progressivo attenuarsi dei contenuti di classe (alternativi al capitalismo) nei programmi delle stesse organizzazioni operaie - politiche e sindacali. Il movimento degli anni sessanta e settanta, in polemica con questa evoluzione, ripropose fra l'altro i contenuti a/- ternativi al sistema capitalistico come base della solidarietà popolare. In questi termini, la solidarietà non poteva includere la totalità della popolazione, né far riferimento a interessi generali indiscriminatamente comuni a tutti. Erano esclusi gli interessi capitalistici: quelli cioè di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, per condizione oggettiva o per scelta soggettiva, patrocinavano la continuazione e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico. La seconda metà degli anni settanta ha segnato non solo la sconfitta del movimento alternativo, ma il declino dell'ipotesi alternativa anticapitalistica, che per oltre un secolo era stata alla base della solidarietà operaia e anche della solidarietà degli operai con gli altri strati sociali a cui ho accennato sopra. Il paradosso (apparente e per nulla nuovo nella storia) sta nel fatto che le organizzazioni politiche e sindacali operaie (sarebbe il caso di dire: già operaie) sopravvivono, nella sfera del potere politico e dei gruppi di pressione, al tramonto delle motivazioni per le quali si erano costituite e avevano agito per un intero periodo storico. Non solo, ma sopravvivono senza render pubblico, a giustificare la propria sopravvivenza, nessun insieme di contenuti e di fini nuovi, sia rispetto al proprio passato, sia rispetto alle pratiche e alle ideologie del capitalismo oggi vincenti. A queste ultime esse

aderiscono di fatto, nel campo economico, culturale e politico. Hanno cancellato dal loro linguaggio, coerentemente, termini come capitalismo, socialismo, contraddizioni di classe, lotta di classe, classe operaia, ecc. Ma si guardano bene dal cancellare, con altrettanta coerenza, altri termini, quali: solidarietà, interessi generali e comuni, egoismo, individualismo, corporativismo. Questi termini, oggi come ieri, motivano in parte la funzione di quelle organizzazioni. Ma il contenuto che coprono è rovesciato. Infatti quando "solidarietà" si accompagna a "lotta di classe", "interessi generali" a "classe operaia" contro "interessi capitalistici", e così via, questi termini significavano esattamente il contrario di quando gli "interessi generali" sono per l'appunto gli "interessi capitaistici" - una volta esclusa ogni ipotesi alternativa; e "interessi comuni" dei lavoratori sono quelli definiti tali dal sistema padronale e compatibili con tale sistema: la ripetizione di quanto avevano già organizzato i fascisti col sistema corporativo. Ecco dunque che il termine "corporativo", nel contesto storico italiano, designa esattamente il contrario di quello che organizzazioni sindacali e politiche e media vorrebbero fargli designare: corporativa è la difesa di interessi specifici che non miri, neppure in prospettiva, al rovesciamento né alla modifica profonda del sistema economico-politico esistente, e sia compatibile con gli interessi che tale sistema definisce come generali. Non solo, ma accetti l'istituzione di garanzie per l'osservanza di tali limiti. Sia priva insomma di prospettiva generale alternativa. A mediatori istituzionali fra i detentori del potere economico e politico e i lavoratori, ai fini della tutela degli "interessi generali" definiti come sopra, sono promosse le organizzazioni politiche dell'ex-sinistra e i sindacati, che grazie al loro passato (risalente a ben prima degli anni sessanta) godono tradizionalmente della fiducia dei lavoratori, ma hanno fatto propria la causa della stabilità del sistema economico e politico vigente. Ecco dunque partiti della ex-sinistra e sindacati invocare, al pari dei fascisti, la solidarietà dei lavoratori subordinata alla compatibilità col sistema dei padroni. Le libere iniziative individuali o di gruppo rischiano di varcare i limiti consentiti e di scuotere la stabilità del sistema che i sindacati-istituzione concorrono a garantire. Per questo, e non per gli addotti motivi morali e moralistici, esse vengono criminalizzate. I) Mi domando se per Manghi "i movimenti d'ispirazione marxista" non siano assimilabili a qualcosa come il famigerato "Servire il popolo" degli anni settanta, che molto aveva di stalinista, qualcosa di populista e di marxista praticamente nulla. 2) La sopravvalutazione non concerne la trasformazione della società e dei costumi, profonda e indubbia, ma la presunta novità dei contenuti politici proposti. 3) 11quale poi compare nella figura di "ozioso" solo al tempo della sua decadenza. I nobili in origine non lavoravano, ma erano attivi come guerrieri (mettendo a rischio anche la vita) e come governanti. 4) Leggiamo a p.66: " ... primi anni sessanta. Prima di allora lo stesso termine "sindacato" era largamente sconosciuto ... " Senza commenti. 5) Presenti sempre e comunque in chi tenta di fare storia utilizzando le proprie esperienze personali - come sanno bene quanti si occupano di storia orale. 6) Si era allora al culmine di una fase di boom economico, mentre l'ammontare dei salari era sproporzionato al livello raggiunto di ricchezza sociale. Di qui la pressione per l'aumento dei salari e la relativa facilità ad ottenerlo, entro limiti però invalicabili. 7) Scrive Manghi (p. 41): " ... domina ... l'idea che le ricchezze disponibili non crescono indefinitamente". Da questo deduce che "Si attenua lo scandalo di una povertà che si diffonde contemporaneameme all'opulenza''. Restando nella sfera in cui operano concetti quali lo scandalo, non comprendo perché, in queste condizioni, lo scandalo dovrebbe attenuarsi anziché aggravarsi. .DIKUSSIONl/fOFI LEMEZZESEGHE ALL I ARREMBAGGIO Goffredo Fofi Ci sono luoghi (redazioni di certi settimanali e riviste, pagine culturali di certi quotidiani, redazioni di rubriche radio e televisive, sottosettori di certe case editrici, ecc. - diventati da qualche tempo molto agitati. Di una vitalità che corrisponde senza più remore e maschere a quella medesima che ha fatto del nostro paese uno dei più rappresentativi, per incrocio di circostanze storiche ed economiche ancora poco spiegate e che anzi ci si guarda bene dal voler spiegare, del degrado crescente dei rapporti sociali, di una etologica strugg/e f or lif e che bensì si basa sul paradosso di una diffusùicchezza che ne toglie, quantomeno nei settori di cui si parla, ogni belluina "necessità". Poiché infatti, di riffe o di raffe il benessere - il godimento di uno standard di vita elevatissimo rispetto alle medie mondiali - è assicurato. La nevrosi e l'insoddisfazione, il voler di più (ma spesso un "di più" che non si sa definire, se non genericamente col termine di "successo", che indica solo una mediocre fama, il mediocre plauso dei media) sono tuttavia in agguato. Nel campo che riguarda giornalisti e letterati le regole del gioco sembrano essere meno "scritte" che altrove, per esempio rispetto a quelle, allucinanti da sempre, della carriera universitaria, e dunque può apparire più scoperta la sua litigiosa aggressività. Non vale la pena dilungarsi nella descrizione di questa specie di umanità, che peraltro fa oggi di tutto per mostrarsi come davvero è davanti alle telecamere di molte trasmissioni inventate ad hoc, che il "pubblico" appassionato forse riesce anche a gustare, nella convinzione del "tutti peccatori" della stessa pasta, quelli dentro lo schermo e quelli in poltrona. Vale la pena invece di constatare l'uniformità anche quando più ci si vorrebbe affermare per diversi. O abbaiare di più. Altre constatazioni vengono però alla mente. Per esempio, quella della quasi generale scomparsa di una "serie A" di intellettuali di taglia, perlomeno tra quelli che più si mostrano o di cui più si parla. Se si escludono certi "grandi vecchi" o quasi grandi. Ma poi si escludono? ne conosciamo, di senilmente trascinati dall'andazzo, che vogliono anche loro gustare, dopo vite non poi tanto dure, le gioie belle del "successo" e per esse si svendono con sconcertante narcisismo; ne conosciamo anche tra quelli un tempo vicini. Ne consegue nel campo intellettuale e artistico, che i posti occupati dalla serie "A" sono liberi, e che c'è una o più leve di "serie D" che cerca affannosamente di occuparli. Non mancano le chances per riuscirvi, anche se la lotta sarà a coltello, è già a coltello, tra i singoli e tra i gruppi; tanto più se, nella generale dimissione di gusti e valori, bastano gli osanna dei colleghi di cordata per far passare uno scrittore dalla D alla A. Anche se naturalmente il tale non sarà mai un Gadda anche se ne avrà occupato la poltrona, o un Calvino, o un Pasolini, o una Morante. 9

DISCUSSIONll•OPI Ciò che più impressiona in tutto questo è il ruolo svolto dai capicordata, a volte - come si è visto - persone un tempo di talento. Con maggior ritardo che in altri campi, anch'essi sembrano essersi accorti che: la vita è breve, il futuro assai incerto (per tutti, per il mondo), e meglio una gallina oggi che niente domani. Tutto questo non scandalizzerebbe poi troppo, non fosse che avviene sotto varie coperture ideologiche, con il richiamo a grandi messaggi e nomi ed idee, con il velo magari di una signorile raffinatezza in certuni/certune, e che, nel momento stesso in cui questo cinismo ci viene imposto, ci si fa anche la predica, la morale, da parte di alcuni; e si ditiramba di qualità supreme che sarebbero rintracciabili in testi ahinoi meschinissimi da parte di altri. Prosperano, i capicordata, sulla e della moltitudine degli aspiranti artisti - mai così vasta. Ci siamo accorti da tempo, facendo questa rivista, di quanto fosse imponente per esempio la schiera degli scriventi, e quanto mediocre, interessata quasi sempre soltanto all'esplicazione del proprio narcisismo e alla sete di una pur piccola fama. L'impressìone è stata verificata da altri, che però ne hanno fatto motivo del loro successo: e pensiamo a certe testate che hanno scoperto essere i loro lettori per i tre quarti aspiranti scrittori, e fanno di tutto per compiacerli. Il mondo piace com'è a tanti che vi ci si trovano bene, ma ecco che la spinta all'affermazione da parte di tanti, fuori da progetti comuni, in qualche modo elevati, collettivi, al di sopra degli interessi immediati del singolo e dei suoi simi10 · ·li, porta a una sovrabbondanza di volgarità, alla perdita di senso di ogrti discussione su qualità e valore, alla difendibilità di quafsiasi opzione non di rottura, e infine a quella arroganza del tutti contro tutti che va oltre le alleanze che, probabilmente, sono solo provvisorie e transitorie, e anche oltre le leadership, utilitaristiche, intercambiabili. Vale dunque la pena di dichiararsi sempre più coscientemente fuori gioco, di non accettare lo status quo dei poteri, di fare banda a parte, e di mirare il più possibile in alto: non nel senso di ciò che rassicura, ma di ciò che conta e vale rischiando se necessario impopolarità e isolamento. Vale la pena di andare a trovarsi il proprio pubblico altrove che tra addetti ai lavori, letterati e aspiranti tali (insomma, di non incoraggiarne i vizi e vezzi), di esercitare fino in fondo il diritto che una rivista ha alla selezione del meglio, anche tra i suoi lettori, di stimolare riflessionee dibattito su ciò che sta a monte ma che è in realtà l'unico "primo piano" degno e possibile, di seminare dissidenza e scontentezza ma unitamente chiarificazione e responsabilizzazione, di proporre confronti e collegamenti sul fondamentale e non sul superfluo dei media. Siamo certi che, in giro, c'è molta più gente insoddisfatta - benché isolata e perciò pigra - di quanto non si immagini, e che essa si trova per l'appunto non nei luoghi canonici in cui potrebbe venire in mente a una rivista "politica" di cercarli (per es. nell'ex movimento, neanche nei suoi residuati organizzati) o a una "culturale" (per esempio, tra gli "scriventi"), ma altrove, nelle minoranze di minoranze, nei margini della provincia, nei meandri dello sfacelo e di istituzioni tra i molti stanchi di essere imboniti e menati per il naso dai bonzi dell'ufficialità, ecc. ecc. E tra coloro soprattutto, che ancora pensano possibile e auspicabile una loro partecipazione a qualcosa di più che alla, magari dorata, sopravvivenza da zombi dimidiati e parcellizzati,coloro che sono consci della propria natura di "mezzeseghe" quanto lo siamo noi che facciamo la rivista, ma che per l'appunto non la negano e di questo sanno farsi una forza: per osare superarla in direzione di una ricerca di ragionamento e solidarietà oltre ogni "particulare". Il contributo che una rivista può dare a questa impresa è piccolo, ma non spregevole. Per certi aspetti può anche essere entusiasmante, purché si sappia chiedere il massimo alle proprie forze, e mantenersi vigili nei confronti di tutto, e soprattutto della tentazione dei riconoscimenti, dei piccoli successi che chiedono grandi compromessi. Il "tradimento dei chierici" descritto da Benda negli anni trenta non è mai stato così impressionante e generalizzato come oggi; resta sempre un tradimento nei confronti della ricerca della verità, ma non certo perché i chierici si impegnano troppo nella storia: perché ci si impegnano troppo poco. Il problema, insomma, è quale pegno; e quello di oggi non può che essere massimo, nei confronti della sopravvivenza dell'umanità e del mantenimento, in essa, di una dignità che la ricchezza degli sviluppati e la miseria degli altri stanno distruggendo con spaventevole rapidità.

11MONDOSA1VATO DAI RAGAZZINI. NOTAINTROOUff'IVA Elsa Morante Non ci è capitato di veder ricordato nei tantissimi articoli sul '68 in voga di questi tempi, Il mondo salvato dai ragazzini tra i libri che, usciti in quell'anno, meglio ne interpretavano alcuni caratteri di fondo che valgono peraltro anche oltre quel- /' anno e quel movimento. Dopo l'edizione nei Supercoralli di Einaudi, se ne fecero altre negli Struzzi, e nella terza comparve un 'introduzione non firmata ma di penna de/l'autrice, che più tardi ella volle venisse tolta dalle edizioni successive, perché datata o forse perché non rispecchiavapiù le sue idee, sulla possibilità di una salvezza venuta dai "ragazzini". Si tratta di un testo di cui anche molti lettori della Morante ignorano l'esistenza. Esse ci pare bello e rappresentativo; lo riproponiamo per ricordare i vent'anni di un grande libro di poesia, che invitiamo tutti a rileggere o a·leggere, e insieme, naturalmente, i vent'anni del '68. (Linea d'Ombra) Sulla funzione della poesia nel mondo, e in particolare nel mondo nostro contemporaneo, Elsa Morante ha esposto le proprie idee in varie occasioni (per esempio, nel 1959 in un suo saggio sul romanzo, nel 1965 nella sua conferenza Pro o contro la bomba atomica, ecc.). A riassumerle in breve, essa considera il poeta come "centro sensibile" del dramma, naturale e storico, degli altri viventi: ma non, ovviamente, in qualità di semplice spettatore, o strumento di registrazione. Attraverso il disordine apparente del dramma, il poeta deve restituire continuamente agli altri la realtà, intesa come il valore sempre vivo e integro che è nascosto nelle cose. Per arrivare a scoprirla e a renderla, deve affrontare "per così dire, a occhi aperti" e senza smarrirsi, la vicenda paurosa, davanti alla quale gli altri si accecano e si perdono, arresi al caos. Deve partecipare alla loro esperienza, attraversare la loro stessa angoscia. E simile destino apparenta il poeta-cavia della Morante da una parte al voyant di Rimbaud, e, dall'altra, all'intermediario "che nei miti affronta il drago notturno, per liberare la città atterrita". Nella nostra epoca, il dramma collettivo, storicamente inteso, ha acquistato una evidenza e un'estensione senza precedenti. Oggi, a nessun individuo cosciente sarebbe permesso di non sapere. I mezzi della scienza pratica pongono anche l'uomo più comune, quotidianamente, in presenza di tutta l'innumerevole miseria e strage che affolla il mondo in ogni sua parte. Anche l'uomo più comune oggi ha, davanti ai suoi propri occhi, la prova che tutti i viventi della terra sono suoi uguali nella sostanza e nel dolore. Ma davanti a questo spettacolo, che dovrebbe aprirgli la coscienza, spesso l'individuo e la colDIICUUIONI/MOIIANTI lettivitàreagisconoinvece, forseperunadifesamalaugurata, con la scelta opposta. La scienza stessa, mentre fornisce i mezzi fisici per vedere, offre il sistema per accecarsi. A tutti i mali cheda sempreappartengonoallanatura,oggi sovrastal'infezione dell'irrealtà, che è contro natura, e porta necessariamente alla disintegrazione e alla vera morte. Le nostre tribù contemporanee, una dopo l'altra, si fanno suddite e schiave del regno dell'irrealtà. E la funzione dei poeti, che è di aprire la propria e l'altrui coscienza alla realtà, è oggi più che mai difficile (fino all'impossibile) eppure più che mai urgente e necessaria. Nessun poeta, oggi, può ignorar~ la disperatadomanda,ancheinconscia,deglialtriviventi.Piùche mai, la ragione della sua presenza nel mondo è di cercare una risposta per sé e per loro. Il presente libro (che qui si ripropone alla lettura in una edizione più accessibile) vuol essere la rappresentazione di una simile ricerca. In una serie di poesie, poemi e canzoni, una coscienza di poeta, partendo da una esperienza individuale (Addio della Prima Parte), attraverso una esperienza totale che si riconosce anche nel passato millenario e nel futuro confuso (poesie della Seconda Parte, e in particolare il poema, in forma di dramma La serata a Colono) tenta la sua proposta di realtà comune e unica (canzoni della Terza Parte). Si capisce allora perché Elsa Morante definisca il suo libro, fra l'altro, romanzo e autobiografia: non intendendo questi come un séguito di fatti particolari o personali; ma come l'avventura disperata di una coscienza che tende, nel suo processo, a identificarsi con tutti gli altri viventi della terra. Il mondo salvato dai ragazzini, scritto in gran parte nel corso del 1966 e terminato nell'estate del 1967, è uscito in prima edizione nella primavera del 1968. Sono gli anni cruciali del grande movimento giovanile contro le funebri macchinazioni del mondo attuale organizzato: e la corrispondenza delle date non è casuale. Un'analoga rivolta disperata e inarrestabile (che si definisce, secondo i suoi termini reali, "rivolta contro la morte") è alle origini di questo libro e ne disegna il destino: risolvendosi, come suo tema liberatorio (unica possibile risposta alle domande) nell'Allegro della sua terza parte, le "Canzoni popolari", fra le quali si trova la serie di canzoni che dà il titolo al volume. Il significato di questo titolo non è davvero frivolo (come ha presunto forse qualche consumatore di passaggio, che non ha letto il libro). Chi siano, in ultima analisi, secondo l'autrice, i ragazzini, è spiegato nella prima delle "Canzoni popolari", la ormai quasi famosa Canzone degli F.P. e degli l.M. Essi si identificano, in sostanza, coi Felici Pochi (F .P .), nei quali consiste i/ sale della terra, e che saranno sempre, infine, i veri rivoluzionari. Che questi poi oggi si trovino (quando si trovano) in ispecie fra i giovanissimi, è un fatto significativo delle società attuali, le quali non tardano a sopprimere, in varia maniera, il non assimilabile, o a corrompere tutto quello di cui si appropriano. Il rischio, oggi più che mai, è "diventare adulti". E questo spiega non solo l'impegno estremo e urgente di tanti ragazzi ma anche la "fuga dalla vita" di tanti 11

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