Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

Dello Tessa In una caricatura degli anni '30 (Archivio Einaudi). erano uscite anni prima sempre a cura di Isella, in una elegante plaquette natalizia (Piazza Vetro - la vecchia - e altre pagine "ambrosiane" con un ritratto di Carlo Linati e una bibliografia di Dante /sella, Milano 1979), con un'appendice bibliografica poi ampliata nell'edizione maggiore. Tutto qui. Se si aggiunge che i titoli meritoriamente ripresi da Scheiwiller, ma anche i due ultimi qui sopra citati, non sono riusciti che raramente a sortire dal terreno delle cose di gusto riservate, volenti o nolenti, agli happy few di turno più o meno snobisticamente atteggiati, c'è da dire che il terreno solcato in profondità dall'edizione einaudiana di Isella non può certamente garantire da solo effetti automatici, se mai finirà per sortirli, e che dunque ancora altro terreno tessiano andrà dissodato perché la sua opera ottenga quei livelli di valore indiscusso dei classici, cui può legittimamente aspirare. Anche se il tempo alla fine è sempre onesto. Del resto sorte non diversa, per motivi in sostanza analoghi, accompagnò la riflessione critica sull'opera del Porta e su quella del Belli, quest'ultimo addirittura apprezzato da uno straniero di orecchio fino come Gogol di passaggio a Roma assai prima che se ne diffondesse da noi la conoscenza. In tal modo le massime espressioni poetiche del nostro Ottocento assieme a Leopardi e a Manzoni, stentarono non poco a uscire dai limiti di una valutazione assai restrittiva che, come si è detto, li voleva espressioni di una cultura decisamente minore, niente più che tracce bozzettistiche confinate ai margini della letteratura colta e destinate a un mondo tutto racchiuso all'interno di realtà regionali alla fine trascurabili. Peccato originale questo del tutto inemendato fino al secondo dopoguerra per un mondo inevitabilmente attardato a costruire, per altro con determinazione e coerenza, realtà nazionali tutt'altro che acquisite. La scelta del dialetto, della portiana "lingua della verità", anche in Tessa è un fatto di civiltà e un'esigenza di stile al tempo stesso, non a caso opposti l'uno e l'altra ai valori nazionali, già, come dire, inquinati dall'uso totalizzante che ne fece sin dall'inizio il regime fascista. Ma ancora prima la propensione per il dialetto discende dal fastidio per quella che egli definisce insopportabile melassa della lingua italiana. Gadda coloritamente ne avrebbe preso analoga distanza accennando allo stesso proposito a un terrore del dattilo in forza del quale egli avrebbe preferito, con motivazioni addirittura di natura economica, il ricorso all'uso del monosillabo e, in senso lato, dell'accento ossitono del dialetto lombardo. Allo stesso modo, la scelta del popolo come unico maestro, la scelta di quell' "alta scuola di perfetto eloquio" che Tessa esemplificava nella Milano popolare del tempo di Piazza Vetra la vecchia, si sposava felicemente con quella che gli proveniva dall'amato Porta a proposito della '' scoeura de lengua del Verzee'', il quartiere per intenderci della Ninetta. Ora, questo novello parlar lombardo si riallacciava a tutta una tradizione che, saltando a piè pari il periodo del teatro ferravilliano di fine Ottocento, questo sì irrimediabilmente di stampo bozzettistico anche se non privo di felice inventiva, recuperava di slancio le grandi stagioni dell'illuminismo e del periodo napoleonico su su fino ai testi dei vari "Varon, Magg, Balestree, Tanz e Parin ... '' e ancora del De Lemene e di Bonvesin de la Riva, ripercorsi con amore e dedizione. Il debito con questa tradizione Tessa precisa in modo particolare in quello stupendo e commosso monumento che egli innalza al maggior poeta milanese, al "poetta ambrosian", nell'ode appunto intitolata A Carlo Porta. Qui, in una sorta di recupero che è anche un doloroso congedo, consigliando " contra i magon" il "rézzipe" della poesia del gran lombardo (una definizione per la verità riferita a Gadda che non mi dispiace estendere a questo suo legittimo antenato), emerge a tutto tondo il senso della piena continuità di una tradizione che Tessa compendia e illustra col tono perentorio della grande poesia. Una grande poesia che si effonde negli affreschi straordinari di Caporetto 1917, forse l'unica trasposizione in versi di quella grande tragedia nazionale, della Morte della Gussona, e di alcune delle tappe di quei settacuu o cadute o tracolli della gent desculada (I deslipp de Càmol, De là del mur, La poesia della Olga, dove ritornano personaggi e situazioni della Ninetto, delle Desgrazzi di Giovanin Bongee e del Marchionn di gamb avert), in cui si configura per Tessa l'intero destino dell'uomo e, nell'occasione, la cifra più caratteristica della sua arte. Una poesia, infine, capace di riportare pace e consolazione attraverso il fantasma di un mondo scomparso emblematicamente rappresentato dalla figura del Porta che si fa sentire da lontano "come ona vos che canta sola per la campagna". Tutti i molteplici legami con la poesia del Porta sono infatti decisivi per la definizione della poesia di Tessa: la prima tutta centrata attorno ad una salda struttura narrativa di cui l'autore guida con perizia le vicende; la seconda eminentemente autobiografica, con una commistione di piani che risente ovviamente delle crisi dei linguaggi tradizionali e attraversa tutti gli sperimentalismi della nuova temperie culturale alla ricerca di diversi moduli e certezze. Si spiegano così le punte estreme di molti di questi moduli espressivi tessiani, che non arretrano neppure davanti al rischio della totale afasia o asemanticità, toccando percorsi assai simili a quèlli seguiti dal linguaggio musicale nel suo viaggio verso l'atonalità e la dodecafonia, di cui del resto Tessa fu attento testimone, come sottolineano quelle note di dizione da lui stesso apposte a quasi tutti i suoi · testi, oltre alle sue conclamate qualità di fine e ricercato dicitore delle poesie di Porta e ancora sue, avendo per altro acquisito una cultura e una competenza musicale insolite nei letterati del tempo (e l'amicizia a lungo coltivata con Toscanini può essere un dato biografico non puramente esteriore, anche se non vanno dimenticate le per lo meno uguali attenzioni riservate al mondo della pittura e a quello del cinema). Il risultato alla fine è esattamente quello di un negativo fotografico speculare al modello portiano, un negativo ricco di fascino per le complessità e ambiguità condensate in un arduo pastiche plurilinguistico, che si inserisce a pieno titolo nell'albero genealogico dei macaronici di ogni tempo fino a diventare caldamente e felicemente espressivo quando assume gli stilemi e i colori di una lingua, per lirami, rabelaisiana. Lingua rabelaisiana anche nei toni del linguaggio basso, una coprolalia una volta di più caustica e liberatoria che ha giusto in Porta (ma il Belli non fu certo da meno) il suo più straordinario ed eloquente precedente. A questo riguardo, non sarà un caso che essa trovi il terreno più fertile proprio in alcuni accenni di opposizione al fascismo trionfante, alla monarchia e al papato che gli tengono indegno bordone, toccando toni e accenti singolarmente vicini al Gadda di Eros e Priapo. Infatti di fronte alle pretese fanfaronesche ma anche delittuose di questa Italia in realtà soltanto "renovada in dito vacch" (cfr., La poesia della Olga, v. 66), il segno distintivo della colossale abbuffata dei molti scalcagnati parvenus che il regime raccoglie e foraggia viene non a caso mutuato dal portiano Brindes de Meneghin a l'ostaria e si esprime nei seguenti termini: "Trinche vein, presto, allon,/trinche vein! cià on peston/in onor del patron/e di sò ganasson!/Quest l'è me, quest l'è to,/no! ... che l'è me ancamò!/ciappa ti, ciappa mi, /dà chi! Viva l'ltalia!/viva el cuu della sdora Amalia!/viva nun e el segurin/del fascio! viva el re/de baston! (cià del vin!)/viva el Papa de Des/quella tappa d'on Papa/tapon-compaa bosin,/viva la Terra alfin/la Terra 77

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