Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

che sembra una variabile dipendente del "progresso", se è vero, ad esempio, che negli USA anche l'intimità fisica fra bambini è estremamente ridotta e sostanzialmente mal vista. E che gli zingari dovranno, prima o poi, rivedere le loro secolari modalità di approccio. Gli zingari fanno gruppo a sé. Questa mi sembra la differenza fondamentale dai neri, quanto meno dai neri romani. Che hanno certo luoghi loro, esclusivi, i loro locali e punti di incontro; delimitati però nel tempo e nello spazio: i pomeriggi festivi, l'area intorno alla Stazione. In altri spazi e altri momenti il nero è in genere solo, disponibile ad accettare le forme date di socialità, a entrare il più possibile nelle regole del gioco: ad assumere insomma quella doppia identità che da sempre è la difesa (e a volte la ricchezza) dell'emigrato. Non si tratta, lo sappiamo, di una garanzia totale dal divenire oggetto di intolleranza o razzismo: in determinate situazioni storiche e sociali l'identità prima e altra verrà enfatizzata a scapito di quella condivisa, l'ebreo sarà quello che va in sinagoga piuttosto che il simpatico compagno di lavoro, il giapponese un muso giallo e via dicendo. Ma in tempi normali è una garanzia sufficiente. Gli zingari invece non si mescolano e non socializzano, non si "inseriscono"; non scatta dunque - a loro favore - un primo (fondamentale) freno all'intolleranza: "ne conosco uno, sono amico di uno, ho giocato a carte con uno di loro: come posso essere contro tutti?" La domanda radicale che mi si poneva riflettendo ai fatti di Roma (e anche leggendone i commenti, spesso così facilmente moralistici) è questa: è possibile pensare a un radicale superamento dell'intolleranza (non, intendiamoci, delle sue forme agite o estreme; dell'intolleranza come categoria psicologica) se non a partire da questo meccanismo? O, simmetricamente, è realistico pensare a un mondo senza razzismi Zingari a ponte Marconi, Roma 1987 (foto di Massimo Sambucettl Assoclated Press). DISCUSSIONE finché esistono gruppi socialmente delimitati e chiusi? Vuol dire allora che solo una società appiattita e omologata può essere "tollerante"? Domande, lo so, certo non nuove; che mi sembra però non abbiano trovato risposte, per lo più aggirate da spiegazioni parziali e semplicistiche, o saltate a pie' pari da istanze etiche. Il movimento antirazzista francese si è dato uno slogan semplice e geniale: "Touche pas à mon pote", lascia in pace il mio amico, più o meno. Ma che succede se non è mio amico? Per dirla in altri termini: se la paura e il rifiuto per il diverso, pur nelle sue varie determinazioni storiche, si fondano sul meccanismo della proiezione, l'attribuzione al diverso di nostri aspetti rimossi e scissi, loro naturale antidoto è l'empatia; che ha certo anche una dimensione etica e filosofica, l'homo sum per intenderci, ma fragilissima; ben più solida quella concreta del mon pote. Se ben ricordo, è più o meno quello che sosteneva Sartre ne L'antisemitismo; ma non sappiamo ancora come si arrivi a dire, e a sentire, "noi siamo zingari". FAMEDI FAME Alessandro Triulzi Anche quest'anno Natale è stato preceduto dalla consueta massiccia campagna d'assalto di tutti su tutto: Natale come guerra, qui come altrove, nell'occidente nostrano. La campagna ha coinvolto massaie e pubblicitari, ministeriali freschi di tredicesima e patiti degli ultimi Bot, una classe operaia sempre più vicina a quel simulacro di paradiso che è la sua imitazione materiale in terra di consumi - l'unico paradiso d'altronde che (le) si concede - una sempre più corposa schiera di gaudenti, ben pensanti, Repubblica-dipendenti trenta e quarantenni all'assalto di ultime spiagge, isole misteriose, tropici sempre più tristi ma pur sempre invitanti. Per non parlare, ovviamente, di tortellini e panettoni, pasticci di fegato e galantine di pollo, struffoli e rococò. Per architettare questa complessa campagna acquisti si sono mobilitate le più attente, e pervasive, forze del paese, dagli intellettuali opinion-makers ai mass-media. La regia, se tale può essere definita quella straordinaria "mano invisibile" di smithiana memoria insita nella nostra pur rappezzata società dei consumi dove la domanda, come nei conti di Goria, si appaia sempre con l'offerta e, creato il bisogno, il gioco è fatto, ha potuto contare quest'anno su una serie di elementi non certo nuovi ma sempre puntualmente "rivisitati" e men che sommessamente proposti alla vigilia delle grandi occasioni o delle grandi campagne: la guerra, quella vera, e la fame, non di tortellini, ma quella nera. Già, perché quest'anno tortellini e spumante hanno avuto qoali costanti compagni, nei loro acquisti come nelle loro 5

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