Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

In alto: una scena di The dead di J. Huston. Sotto: Arrivederci ragazzi di L. Malle. controllato. Con protagonisti bambini non sarebbe spiaciuta più libertà, più immediatezza di set, di emozioni e reazioni. E, non a caso, le cose migliori le ritroviamo su un altro versante, più intellettuale e distaccato, nella capacità che è di Malie (e del suo fotografo, lo svizzero Renato Berta) di rendere un "clima", freddo, livido, senza luce, e nell'intuizione del carattere duro, "darwiniano" del mondo dell'infanzia. Ciò che invece non prende vera consistenza è, come spesso in Malie, proprio il nucleo tematico: il crescere di un'amicizia fragile, scontrosa, eccezionale, tra due ragazzi che si "riconoscono", e per uno di loro è anche il riconoscimento della diversità. E è un difetto distile, cioè di sguardo, non di rigore e eleganza formale, è una mancanza di analisi non di autenticità. Come per ritrosia ad andare sino in fondo a un'esperienza, a tradurla in memoria storica, in non generica riflessione morale. E un'ulteriore spia è anche il rifiuto a assumere la propria parte maledetta, il.grande rimosso della borghesia francese, il collaborazionismo, il cui orrore viene ancora una volta scaricato sulla bassa forza, sul reietto che sfoga la propria impotenza sociale e esistenziale. Joseph, il delatore, è il servo zoppo, è stato licenziato, non ha nemmeno un letto dove dormire, è costretto a scambi da piccolo mercato nero in cui è irrimediabilmente perdente, è rifiutato dalle ragazze. Un altro Lacombe Lucien più poveraccio. Da Malie a Huston. In comune non hanno quasi nulla, se non forse una concezione "professionale" del cinema che ne fa autori discontinui nella loro varietà di approcci, e un esibito individualismo, di partenza aristocratica in Malie, di pretese avventurose e "anarchiche" in Huston. Ma anche lui, per il suo ultimo film è tornato alle proprie radici. Non reali, ma elettive: quelle che lo legano all'Irlanda dove ha risieduto a lungo negli ultimi trent'anni della sua vita. The Dead, dallo stupendo racconto dublinese di Joyce, è un film perfetto, di quelli che con la loro "pienezza" sfidano l'esegesi. Ogni problema di fedeltà a un testo letterario alto è d'acchito messo da parte con una scrittura che esprime consonanza profonda è nello stesso tempo del tutto personale. È una regia davvero classica, essenziale ma composta e mobile nei movimenti di macchina, negli attacchi di montaggio, e una regia di attori (una compagnia sodale dell'irlandese Abbey Theatre), di volti prima che di parole, quella che perlustra la lunga festa natalizia delle signorine Morkan, a inizio secolo. Una regia che ha i tempi del respiro. Una festa che è un concertato finissimo, ma articolato e persino contrastato, di caratteri e soffocati drammi esistenziali, di usi e riti, di interessi (musicali) e conflitti (irredentisti), di chiacchiere e di dilettantistiche esibizioni (ma con l'unghiata della poesia gaelica di Lady Gregory), di buffonerie e commozioni. Huston lavora sul testo di Joyce per piccoli ma significativi spostamenti interni. La storia del cavallo bianco da macina è spostata dalla cena al ritorno in albergo in carrozza di Gabriel e della moglie, acuisce, dopo la "rottura" provocata dal canto dell'ultimo minuto del tenore, il senso di inquietudine del protagonista che invece, nel racconto, vive un momento pieno di felicità. Introduce alla riflessione sui vivi e sui IL CONTESTO morti, una morte "naturale" che ha percorso l'intero film come ricordo e prefigurazione, ne ha segnato il tempo, quello del ricordo, dell'evocazione continua. Tuttavia il tema dello scacco che è presente in tutta l'opera di Huston non è qui quello dello scacco di fronte alla morte di cui sentiva forse vicino il respiro, ma approdà a una morale stoica, virile ma questa volta non eroica. Il grande pathos del monologo finale, che dà vita a una bellissima sequenza di libertà lirica, è quello di uno scacco esistenziale, come condizione comune ma anche come ansia irrinunciabile e ambigua di un momento assoluto di amore, di senso. È l'ultima lezione, una.delle sue più alte e vissute, che Huston ci ha lasciato. 29

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