IL CONTESTO suonare lui non suona perché il pubblico ha il diritto di ascoltare il meglio, la perfezione. E se lui non la può dare, non suona. Logico. In tutto ciò riconosco la prima cosa che lo accomuna con l'altro vero genio della tastiera che sia vissuto nel dopoguerra: e cioè Glenn Gould. Anche Gould coltivava la sublime ingenuità di credere nella perfezione. Anche lui sapeva che il concerto pubblico era uno strumento imperfetto, in balìa di troppe variabili incontrollabili. A trèntadue anni, con una certa coerenza, smise completamente di dare concerti: e si dedicò soltanto alle incisioni discografiche: l'utopia del laboratorio come luogo della perfezione. Bisogna avere una presunzione infinita, infantile, per pensare certe cose. Lui l'aveva. Anche Benedetti Michelangeli ce l'ha; è anche più scettico, lui: non crede neanche nel disco: incide con sospetto e poi magari, come è successo con i concerti beethoveniani, fa di tutto per non fare uscire i dischi. Strana gente. Così l'ho visto, per la prima volta, alla televisione. La prima cosa che colpisce, naturalmente, è la compostezza. Di solito si dice "l'ascetica compostezza". Devo dire, però, che io non ci ho trovato niente d'ascetico: mi è parsa piuttosto l'eleganza affettata di un dandy annoiato. Il frac, il baffetto sottile, il volto imperturbabile, i gesti esageratamente controllati: tutto ricorda la seducente autodisciplina psicofisica di un maìtre d'albergo: fa venire in mente il Romolo Valli di Morte a Venezia. Oppure: quelli che suonano sui transatlantici che vanno in America. Non ne ho mai visto uno, ovviamente, ma me li immagino proprio così: divinamente eleganti e distaccati. Tutti exnobili decaduti, probabilmente. Finiti lì per un disguido: una raccomandata arrivata in ritardo, una rivoluzione, cose così. Suona dunque, il Benedetti Michelangeli, come una statua. Giusto, ogni tanto, si concede di portare indietro il piede sinistro, quello del pedale del piano, così che, con geometrica rispondenza, il busto si sporge in avanti a pesare sulle braccia quel tanto che basta a dare alle mani qualcosa in più di·forza e di secchezza, alla ricerca di una luminosità o di un accento di quelli che cerca lui, sempre trovandoli, peraltro. Il resto è stupefacente immobilità. Non le manca, invero, qualcosa di sottilmente ridicolo. L'impressione, voglio dire, è quella che a Benedetti Michelangeli il pianoforte stia un po' stretto. Un paio di misure in meno. Con tutto il rispetto, lui sta alla tastiera come i bambini troppo cresciuti stanno nelle automobiline a pedali. Lui tramuta in eleganza l'im28 barazzo: ma la sostanza è poi quella. Sì che nel vederlo ha qualcosa di innaturale, che lascia perplessi. Il gomito quasi più in basso della tastiera, il seggiolino distante dallo strumento, le mani lasciate sole, lontane, sui tasti, e guardate da lontano con imperturbabile incuranza. Ogni tanto sembra che suonino da sole. Suonano, comunque, come quelle di nessun altro cristiano. Questo è risaputo. Se ne sono scritte tante, su come suonano, che passa la voglia di continuare. Però una cosa l'annoto: quel suo celeberrimo vezzo di sfalsare impercettibilmente mano sinistra e mano destra, per tirare via il canto dall'armonia, la melodia dal basso. Un mezzuccio deteriore, hanno scritto: un trucchetto da salotto, retorica vecchia e stantia. Ed è magari anche vero: ma non è tutto lì. C'entra anche, e di nuovo, quella ingenua ambizione alla perfezione: Michelangeli sfalsa note che dovrebbero essere suonate contemporaneamente per correggere l'imperfezione dell'udito, che non saprebbe percepirle insieme eppur distinte: lui concede un istante di ritardo alla nota che sta per essere ingoiata dall'armonia: e la salva. Perché niente di ciò che è scritto vada perduto. Per portare in superficie anche tutte le trame orizzontali della musica e non solo i suoi pilastri verticali: è una specie di microscopio che riscatta le miopie dell'udito. Anche qui, mica per caso, viene in mente Gould. Lui era anche più radicale: arpeggiava, ad esempio, accordi che erano scritti per essere suonati secchi, come veri e propri accordi: li sgranava perché ogni nota invece che sparire nell'eufonia dell'accordo vivesse il proprio istante e filasse la sua tela. Una bestemmia stilistica: ma era il suo modo di denunciare la trama orizzontale della musica, che è appunto quella più invisibile, e sotterranea. C'è qualcosa di cartesiano in tutto ciò: in Michelangeli come in Gould: l'ambizione a srotolare il reale nella sua totalità chiara e distinta, cioè nella sua perfezione. In Gould era un'ambizione provocatoria, in qualche modo eversiva, imposta in modo sfacciato e scandaloso. In Michelangeli si traveste elegantemente da retorica tardoromantica, con salottiero decorò e cortese educazione. Così suonano, d'altronde, sui transatlantici che sfilano via verso l'America, credo. CINEMA I RAGAZZEI THEDEAD Gianni Volpi C'è, da parte della critica più cinéphile, una non strana diffidenza verso Louis Malie, un outsider altero e davvero borghese in un cinema come quello francese di stampo spiccatamente piccolo-borghese nelle sue varianti formaliste, metalinguistiche, "eversive", come in quelle populiste, e per di più cineasta "americano" che gira in modo classico e spesso in inglese (al pari di un Tavernier di cqi condivide un po' la sorte critica), e di un eclettismo disponibile a esperienze disparate, sempre in bilico tra lucidità per quanto fredda e eleganza di mero mestiere. Ora, con Arrivederci ragazzi è tornato in Francia dopo dieci anni di lavoro e di soggiorno negli Stati Uniti, è tornato alle sue radici, a una cultura e a esperienze vissute che già gli avevano permesso i suoi film più interessanti, Fuoco fatuo e Lacombe Lucien. Anzi, siamo all'autobiografia, quella di un'infanzia in un convitto religioso a Fontainebleau nell'inverno 1944. Dunque motivate erano le attese (in parte, andate deluse nonostante l'ondata di "emozione" da cui tanti quotidianisti si sono detti scossi) di un'esperienza unica, irripetibile, personalissima dentro un filone, il racconto di collegio, il racconto di adolescenza borghese e cattolica, che da Vigo in poi vanta infiniti esempi illustri. Il registro di Malie è quello di una grande precisione analitica, i suoi modi sono da cronaca, di un realismo minuzioso che procede per tocchi sicuri, per accostamenti di dettagli, di singole "immagini". Le letture "proibite" delle Mille e una notte, giochi da parrocchia, anzi da scout, la curiosità morbosa di fronte a un "segreto", la lezione d'algebra nel rifugio, il boogie-woogie, i discorsi su Pétain e Lavalle che riecheggiano discorsi familiari, i piccoli commerci neri e le truffe, ché buon sangue affarista non mente: Malie integra vita di collegio e ritratto d'epoca; a tratti lavora di risonanze e allusioni, come nella proiezione cinematografica, di Charlot naturalmente, ma lo Charlot emigrante che i piccoli esclusi, qui nella sala, l'ebreo, il "negus", sentono così vicino, loro simile, o sfiora temi più sottili come quello dei padri assenti, diversamente assenti, chi impegnato a difendere le proprietà, chi in campo di concentramento. Tutto è ben esposto, ma anche troppo
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