IL CONTESTO Si parla ogni tanto del vuoto o del nulla, che sono due parole come le altre, in fondo non dovremmo prenderle molto più seriamente delle altre parole. Però è anche chiaro che si parla del nulla e di dove è andato Dio, come nell'ultimo racconto, Scomparsa d'un uomo lodevole. In realtà io non credo che queste due cose non ci riguardino, anche se siamo uomini moderni e siamo diventati così furbi. Il nulla è semplicemente il fatto che noi siamo qui ed è un caso che siamo qui. Se non ci fossimo, al posto nostro ci sarebbe il nulla, non vuol dire una cosa tanto più stratosferica. Quindi indica la nostra casualità dell'essere al mondo. Come scrittore che cosa ti interessadi più della realtà e quali personaggi attirano la tua attenzione in particolare? Io credo che i personaggi che prediligo sono quei personaggi che sono schiacciati sotto le categorie sociologiche e quindi sono di solito personaggi che una volta si dicevano "alienati": non credo affatto all'alienazione in questo senso. Ma per esempio fra questi personaggi sono compresi i giovani. Io credo che dovremmo vergognarci tutti di usare questa parola perché è una tale generalizzazione che offende un'infinità di persone, mettendole in un calderone indeterminato di tipo sociologico, e quindi una parola altamente offensiva. Tutte le volte che si parla di giovani si sta offendendo qualcuno, come quando si parla di belle donne si offende tanta altra gente. Si tratta insomma di liberare i nostri pensieri da tutti quegli schemi molto rigidi e spesso automatici. Come si svolge allora l'attività della scrittura? In fondo io mi ritrovo molto bene a parlare e a pensare a lato, diciamo dalla parte di questo genere di figure che sono continuamente offese dai mezzi di comunicazione di massa, e sono le modelle, i giovani, i vecchi. .. Il problema è che noi viviamo sotto delle cappe sociologiche, che sono continuamente dei fatti statistici e altamente offensivi per tutti; quindi credo che anche la cultura sia un'offesa, una violenza che si fa a tutti in tutti i momenti. Perci9 mi interessa soprattutto questo genere di persone, che sono gli offesi del nostro tempo e che possiamo dire delle nullità. Come dice il personaggio nell'ultimo racconto, noi siamo delle sigle del mondo, di cui i nostri amministratori fanni l'uso che vogliono. * * * 26 CONFRONTI CELATINELLEAPPARENZE Gianni Turchetto Se "noi riusciamo stranamente a capire quello che succede all'esterno", scriveva Gianni Celati in un articolo di poco più di tre anni fa (Finzioni a cui credere, in "Alfabeta", dicembre 1984), questo accade "perché il nostro pensare", e dunque anche le nostre parole, e i nostri racconti, "è già all'esterno, già parte del mondo e dell'esistente". Non sarebbe più possibile perciò la costruzione, o meglio la finzione, di "un'interiorità che immagina il mondo come una cosa tutta diversa da sé" e la letteratura, liberata da questa zavorra, potrebbe "permetterci finalmente di apprezzare le apparenze", delicatamente raccolte e raccontate senza le costrizioni di "un'interpretazione complessiva del mondo". Sono affermazioni significative, che ci possono far capire meglio come, alla radice dell'ultimo libro di Celati, Quattro novelle sulle apparenze (Feltrinelli, pp.127, L. 15.000), non stia soltanto il dubbio, il sospetto di una identità senza residui tra apparenza e realtà, ma anche un'affermazione, anzi una polemica, che nega validità a ogni metafisica che contrapponga interno ed esterno, e più esattamente interiorità ed esteriorità, subordinando il mondo alla violenza presuntuosa di un soggetto che crede di conoscere. Questa polemica trova un equivalente, sul piano della poetica e della pratica letteraria, nel rifiuto di una letteratura che ostenti la propria superiorità rispetto ai discorsi comuni, che esibisca cioè arrogantemente la propria letterarietà. Di qui la scelta stilistica di una prosa non dimessa né quotidiana ma certo sobria, raccolta, tutta impegnata a occultare la propria indubbia sapienza formale; e anche, sul piano dei temi narrativi, l'ostilità verso lo straordinario: non tanto perché manchino situazioni fuori del comune (come il rimanere "senza pensieri" di Baratto, protagonista dell'omonima prima novella), quanto perché accuratamente Celati le riassorbe in un'intonazione che le maschera da eventi normali, elidendone spietatamente ogni tentazione al sublime. L'arroganza della cultura è del resto anche un tema costante del libro, che non ne risparmia nessun livello: dallo snobismo della critica alla coercizione istituzionalizzata dell'insegnamento, dalla tronfia vanità del sapere accademico alle virtù oppiacee della lettura di romanzi. Certo che viene anche da chiedersi se, in tanta violenza di polemica culturale, non ci sia anche e proprio un po' di presunzione da intellettuale, il vizio consueto cioè di assegnare a certi aspetti del mondo maggiori colpe, e dunque maggiore importanza di quanto realmente abbiano. Bisogna però riconoscere che in Celati non c'è solo la critica culturale del soggetto gnoseologico e letterario, ma anche, per quanto programmaticamente depoliticizzata, la protesta contro le condizioni di vita del mondo tardo-industriale, emblematicamente e spesso efficacemente rappresentate nella degradazione dell'universo insieme ostinatamente contadino e aggressivamente industriale del bacino del Po. Nel precedente volume di racconti, Narratori delle pianure (Feltrinelli, 1985), proprio la polemica contro l'arroganza del soggetto s'era pressoché integralmente trasformata in densità di rappresentazione attraverso l'uso sistematico del discorso riportato, della narrazione altrui, ch'era un modo di lasciar parlare gli altri, e, attraverso la loro parola, di lasciare che le cose, le apparenze entrassero nello spazio della scrittura dolcemente, e come per virtù propria. Anche nelle Novelle sulle apparenze in effetti Celati tende a ridurre a piccoli se non a minimi termini la presenza intimidatoria dell'autore, ma lo fa con molto minore coerenza. Egli sembra cioè lasciare la parola agli altri, centrando ogni storia su un protagonista che filtra attraverso la sua prospettiva tutto o quasi tutto quello che avviene nella storia. Contemporaneamente però la marcata intenzione filosofica, manifesta fin dal titolo del libro, tende a ritrasformare i personaggi in porta-parola dell'autore, in suoi alter-ego, elidendone l'alterità, e quasi comprimendone la vicenda nelle poche proposizioni astratte che la sintetizzano e interpretano. Tanto più che, di questi personaggi, sono rappresentati soprattutto i processi mentali, i pensieri, su un piano però quasi del tutto estraneo all'analisi o alla mimesi psicologica, dove la meditazione esistenziale regolarmente si fa riflessione filosofica, anzi: metafisica. In questo modo però sembra (ho detto "sembra": ma Celati c'insegna a prestare molta fede alle apparenze) ch'egli faccia costantemente proprio il gesto che intendeva programmaticamente esorcizzare: quello cioè di sovrapporre alla realtà, e sia pure a una realtà di apparenze, uno schema conoscitivo rigido, e per di più sistematicamente esplicitato. Lo schema, appena appena smussato da un resto d'intonazione dubitativa, è quello appunto dell'apparenza come unica dimensione dell'essere. Ma un'apparenza che vuole dimostrarsi, o anche solo mostrarsi essenziale, pretendendosi insieme
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