Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

IL CONTESTO Patrick Suskind (foto di K.R. Muller). un piccione sulla porta di casa. Lo sguardo fisso del volatile e i suoi escrementi sparsi per il pianerottolo bastano a precipitare Jonathan nel terrore: per una giornata egli sarà ossessionato da un'impressione di infinito, irreparabile sfacelo. Fra i suoi tumultuosi pensieri spicca il ricordo di un quasi coetaneo c/ochard, verso il quale egli aveva in un primo tempo provato ammirazione e invidia: poi, vistolo defecare vergognosamente sul bordo del marciapiede, aveva concepito per lui e per il suo modo di vivere un'esecrazione inorridita (" Jonathan aveva avuto la rivelazione che la sostanza dell'umana libertà consisteva nel possesso di un gabinetto"). Il finale del racconto è, come si suol dire, aperto. Quando la sera, vincendo la paura e il ribrezzo Jonathan fa ritorno a casa, del piccione non trova più traccia. Quale traccia ne rimarrà nella fragile e turbata psiche del personaggio, è un quesito che spetta al lettore porsi; sempre che, beninteso, egli giudichi che ne valga la pena. Il guaio è che un racconto giocato tutto su un avvenimento puramente simbolico dovrebbe essere sorretto da una tensione visionaria che la pagina di Siiskind non possiede; né la figura del protagonista, evanescente teoreta, riesce da sola a infondere vita a un'invenzione narrativa troppo povera. Ne deriva un'impressione complessiva di fredda estenuazione, un'atmosfera languente da attardata Trummelliteratur, che nella sua sostanziale gratuità non riesce ad attingere ad alcun plausibile sovrasenso. Certo, chi lo volesse, potrebbe analizzare li piccione con strumenti di tipo psicoanalitico, e raccoglierebbe una ricca messe di dati, tale da configurare con ogni probabilità un quadro ne24 vrotico di pregevole coerenza. Tuttavia dal punto di vista estetico questo non ha importanza, visto che dopo Il piccione non possiamo ragionevolmente aspettarci più molto da Patrick Siiskind. Può essere invece ·opportuna qualche considerazione più generale. Ai giorni nostri, dopo quasi novant'anni di un secolo caratterizzato sul piano artistico da una crisi così cronica da costituire già da parecchio tempo l'espediente consolatorio più poderoso e frequentato, non c'è cosa più ardua che scrivere racconti poveri o privi di eventi. Il grigiore della quotidianità non si presta facilmente - non l'ha mai fatto, del resto - a scatti, e riscatti, d'ordine simbolico; più spesso, anzi quasi sempre, si avvilisce in un'inutile approssimazione al1'accaduto, destituita di pregio e d'interesse. Le avventure dell'animo di personaggi banali o mediocri, gli elettrocardiogrammi e le cronache di vite al cinque per cento non hanno piu nulla di attraente o di originale: sono, narrativamente parlando, terra sfruttata, isterilita, erosa, che forse nemmeno il talento di uno scrittore di qualità può far germinare di nuovo. D'altro canto, il dramma o la follia che più o meno segretamente covano sotto parvenze di normalità esigono_ un trattamento quanto mai rigoroso. Non basta descrivere qualche particolare insignificante con ossessiva minuzia: occorre una scrittura esatta in ogni parte, senza sbavature, tutta polso e nervi; e occorre altresì che l'irrequietudine coinvolga il rapporto fra la storia (o la situazione) narrata e il personaggio che la narra, perché solo in tal modo si può trasmettere efficacemente al lettore. Nulla di tutto questo si trova in Siiskind. Ma neanche, poniamo, in Leavitt, o in tanti suoi colleghi oggi (chissà perché) tanto osannati e letti, i cui volumi affollano gli scaffali delle nostre librerie, floridi e sterili come certi frutti che si comprano, opulenti in apparenza, ma senza sapore e senza semi. Sarebbe davvero curioso, del resto, che tanti nuovi scrittori grandeggiassero su un terreno, quello della narrativa intimistica, che forse più di ogni altro richiede una strenua tensione, e tenuta, di stile. Chi manca del fiato necessario - quasi tutti, cioè - è meglio si abbandoni al gusto del romanzesco tradizionalmente inteso: ammesso almeno che l'abbia. Chissà che non riesca a fare dell'onesta letteratura d'intrattenimento, in grado di sostenere la concorrenza dei videogiochi e dei film per la TV. INCONTRI DELEGATI ALLARAPPRESENTAZIONE IncontroconGianniCelati a cura di Manuela Teatini Quattro novelle sull'apparenza mi sembra che riprenda il modello di Narratori delle pianure. È così? Questi racconti li ho cominciati molto prima dei Narratori delle pianure, precisamente nell'Ottanta, ma erano esercizi privati e poi nel tempo sono diventati racconti. Quello che collega questi racconti a Narratori delle pianure è un tentativo di scrivere senza usare le forme di intimidazione della letteratura. Nel senso che la letteratura fui sembra tutta una intimidazione, perché sembra sempre che ti debba dire qualcosa di importantissimo: in qualche modo ti prende sempre per il bavero. Questo riguarda sia la costruzione dei grandi romanzi, che sembra sempre che debbano dire chissà cosa, sia proprio l'uso delle frasi, delle parole. Anche questi romanzi che vengono fatti adesso io li trovo tutti intimidatori perché intimidiscono con l'idea del nuovo. Allora nuovi narratori, nuovo romanzo, qualcosa di nuovo che viene detto ... Che cos'è quindi l'idea di nuovo, in questa prospettiva? Io non credo al nuovo. Penso che il nuovo sia la ripetizione dell'esistente tale quale, che noi non capiamo perché ci viene proposto in forma terrorizzante. Il nuovo è quella cosa che fa sì che tu debba sempre mettere l'immaginazione al servizio di un progetto. Ecco questa è la letteratura e io mi trovo a disagio in questo contesto. Come si può evitare il contesto letterario, continuando a fare lo scrittore? Un modo possibile di andare avanti è quello di vedere che cosa succede alla nostra lingua; scoprire in che modo la lingua può trovare una sua calma, una sua semplicità. Non perché sia una lingua di tutti, ma perché non sia più una lingua di qualcuno che crede di essere diverso dagli altri. Ecco questo è il punto. In questo senso Narratori delle pianure e queste quattro novelle rappresentano lo stesso sforzo. Non so il risultato, ma insomma lo sforzo era un po' quello. Raccontare le apparenze significa allora descrivere le similarità, la ripetitività dell'esistenza e dell'esteriorità? Credo che nessun'altra epoca del mondo

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