darietà di tipo "ideologico", segnate appena da qualche traccia di lottizzazione, negli ultimi anni il panorama si è frastagliato moltissimo. Alla lottizzazione politica si è sovrapposta quella campanilistica, per generazioni, per tendenze, soprattutto per cordate. Un doppio processo di aggregazione (perché nessuno vuole restare solo nella tempesta) e di frammentazione (perché gli schieramenti come si è detto non reggono più) solo apparentemente contraddittorio, ha prodotto "schegge impazzite", strutture di tipo microcorporativo o piuttosto mafioso. Invece di valutare e far crescere l'esistente, la normativa ministeriale ha incominciato a produrlo, le pressioni più diverse si sono scontrate intorno alle due o tre date annuali in cui si spartisce la torta dei finanziamenti pubblici. Spesso la lottizzazione si è invertita, rispetto al funzionamento tradizionale: non i partiti hanno occupato i teatri, ma i teatri si sono impadroniti di insegne di partito per prevalere nella strugg/e f or /ife. In definitiva è venuta alla luce una struttura di puro potere, senza travestimenti estetici o politici, con una grande carica di corruzione, che si può paragonare senza esagerazione alcuna al potere mafioso. Non è questo il luogo per esaminare nei particolari la macchina di tale potere. Ma basta indicare il settore della critica teatrale, molto delicato perché in un mercato abbastanza artificiale dove tutti i valori hanno corso forzoso come le monete in certi paesi economicamente deboli la critica dovrebbe sevire da pietra di paragone. Non è più affatto isolato, anzi è assolutamente di regola il caso del critico traduttore, autore, direttore di festival, consulente, presidente di premi, editore, produttore, riduttore, direttore artistico, insomma inserito in un commercio intenso e confuso di danaro e di altre opportunità con quel mondo produttivo teatrale di cui dovrebbe essere testimone imparziale se non oggettivo. Altri fenomeni sono dello stesso segno, e ancora più gravi: storie di deficit, di scambi fra teatri, di giungla delle città. Il punto fondamentale non è però tanto il modo in cui vengono spartiti dei soldi o un potere che tutto sommato è ben piccola cosa; quanto il fatto che il teatro, tutta o quasi la realtà produttiva del teatro italiano, è subordinato per contenuti, modi e forme a queste logiche. L'emergenza teatrale oggi a me sembra debba essere pensata come questione morale; ma non perché siano importanti i vizi privati di questo o quel responsabile, amministratore pubblico, teatrante, giornalista inserito in questo sistema; al contrario perché le pubbliche virtù del teatro sono in via di estinzione. Solo se non prevarrà l'idea miserabile secondo cui l'indignazione è un capitale prezioso, da spendere con cautela, solo se il degrado della situazione produrrà una reazione della sua stessa dimensione, solo allora quest'emergenza attuale potrà avere il senso di quella che da sempre è un'arma del teatro: una sfida creativa. Questo scritto è la rielaborazionedi un intervento tenuto al convegno "Teatro d'Emergenza", organizzato a Bologna il 10-12dicembre 1987 da Leo De Berardinis. DISCUSSIONE COMEAGISCEDONGIOVANNI Cesare Garbo/i Ci si può intrattenere su Don Giovanni senza cadere nei soliti luoghi comuni? Il mio sospetto è che il grande burlador sia un personaggio, culturalmente, inquinato; e bisognerebbe restaurarlo, ripulirlo dall'inconscio e dalla psicologia. Bisognerebbe ritrovare sotto il raschietto un'antica figura senza significati, un signorotto poco romantico che ama i travestimenti, non crede nell'anima e non teme la morte. Così godereccio da passare per ateo, e da diventarlo. Ma senza esagerare col satanismo, senza farne un "personaggio" secondo la terminologia moderna e borghese. Don Giovanni è piuttosto un archetipo, o, meglio ancora, un ordigno, uno strumento, una funzione teatrale, come i flauti e gli archi che lo accompagnano nella sua fuga. Al contrario, tutti gli studiosi e i registi moderni non hanno fatto altro che spalmare su questo grande strumento teatrale, razionalista in Molière e freneticamente dionisiaco in Mozart, uno strato d'innumerevoli e oleose ipotesi drammaturgiche, come se Don Giovanni fosse un personaggio "da interpretare". Così la modernità si è dimenticata che la psicologia e l'inconscio cominciano a esistere quando una persona o un personaggio si scollano dalle loro radici sociali. In quel vuoto, in quel piccolo spazio s'insinua la risonanza della psicologia, la "vita interiore". E che cosa c'è in Don Giovanni, nel suo intimo? Un lettore di Machiavelli? Un futuro omosessuale? Un pazzo? Un ragazzo viziato? Un nazista ante litteram? Tutte ipotesi da cui guardarsi. Non bisogna chiedersi chi è Don Giovanni, non lo sapremo mai. Bisogna chiedersi che cosa/a, che cosa fa in teatro. Come agisce, come recita. Quali sono, in palcoscenico, le sue "azioni". Bisogna immaginarcelo come lo recitavano gli attori di Molière, o lo cantava, a ventidue anni, il baritono Luigi Bassi (il "focoso italiano", diceva Beethoven), il quale ne creò il ruolo prima della Rivoluzione (il Don Giovanni andò in scena due anni prima dell'Ottantanove): un bel giovanotto impennacchiato, svelto di spada e preciso nelle parole, altezzoso, vano, spiccio, allegro, spensierato, crudele. Se lo osserviamo sotto questo punto di vista, non psicologico o esistenziale, ma teatrale, c'è caso che il grande seduttore ci regali qualche novità. La prima è che Don Giovanni si comporta in modi diversi a seconda dei connotati sociali dei suoi interlocutori: se questi sono aristocratici e appartengono alla nobiltà, Don Giovanni non recita, ma li sta a guardare e agisce da spettatore; se questi personaggi sono servili, Don Giovanni non solo recita (e, in Mozart, canta), ma si traveste e fa spudoratamente l'attore, cioè simula, fa l'ipocrita, usa la recitazione come strumento di violenza e di frode. Fermiamoci a riflettere. Frode e violenza. I due metodi, e i due meccanismi, del potere. Quando recita o (come in Mozart) quando canta, Don 13
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==