Linea d'ombra - anno VI - n. 24 - febbraio 1988

FEBBRAIO 1988 - NUMERO 24 LIRE6.000 I mensile di storie, immagini, discussioni

Einaudi PierPaoloPasolini Letter1e955-1975 Conunacronologdieallavitaedelleopere Gli anni dell' «impegno», il successo letterario, il cinema, le grandi polemiche civili. A cura di Nico Naldini «Biblioteca dell'Orsa», pp. CLXXVII-803, L. 45 000 SonyLabouTansi Lesettesolitudini diLorsaLopez Il piu estroverso scrittore africano contemporaneo · esordisce in Italia col suo «romanzo tropicale». A cura di Egi Volterrani. «Supercoralli», pp. v-169, L. 20 ooo JoséMaria EçadeQueiroz Il Mandarino seguitdoa Labuonanima Due racconti misteriosi e un po' diabolici di uno dei maggiori scrittori dell'Ottocento. A curà di Paolo Collo. «Gli struzzi», pp. 125, L. 10 ooo OttieroOttieri Viamo I «racconti» poetici di Ottieri: padri e figli, Milano e Roma, il privato, il politico, la tenerezza ... «Collezione di poesia», pp. 69, L. 7000 FedoDr ostoevskij Lenottibianche Un «sognatore» a Pietroburgo. Nota introduttiva di Angelo Maria Ripellino. Traduzione di Vittoria de Gavardo. «Gli struzzi», pp. x1v-75, L. 8000 PaoloFossati La cc pitturma etafisica» De Chirico, Carrà, De Pisis e Savinio: la vicenda dell' «arte metafisica» in una ricostruzione minuziosamente documentata, che illumina un'intera stagione culturale. «Saggi», pp. xx1v-201 con 61 illustrazioni fuori testo, L. 3 2 ooo MichaBilachtin L'autoreel'eroe Teorilaetterareiascienzuemane L'autore e il suo personaggio, Dostoevskij, Goethe e il romanzo di formazione: alcuni temi fondamentali della letteratura europea nei saggi inediti di Bachtin. A cura di Clara Strada Janoviè':. «Paperbacks», pp. xv-429, L. 40 ooo AbdelfattaKhilito L'autoreeisuoidoppi L'autore, la scrittura, il genere: dalla cultura araba classica una «provocazione» con cui la letteratura occidentale è chiamata a m1surars1. Traduzione di Gianni Turchetta. «Nuovo Politecnico», pp. VI-136, L. IO 000 EmileBenveniste Il vocabolario delleistituzioni indoeuropee 1. Econompiaa,rentelseo,cietà 11. Potered,irittor,eligione Un «classico della linguistica», un magistrale lavoro di interpretazione, capace di ricostruire il quadro economico e sociale di cui la lingua è espressione. « PBE », 2 volumi di complessive pp. xxvrn-533, L. 34 ooo CristinLaastrego eFrancescToesta Dallatelevisionaellibro I bambini e l'informazione: come «leggere» la Tv, come «usare» i libri? Una guida alla scoperta del piacere della lettura attraverso la televisione. «Gli struzzi», pp. 198, L. 12 ooo AugusSttrindberg LacontessinJaulie Il capolavoro di Strindberg nella traduzione di Gerardo Guerrieri. Nota introduttiva di Carlo Repetti. «Collezione di teatro», pp. xxvrn-49, L. 7000

1968:DUE,TRE,MOLTIVIRNAM. Venrannifa, il '68. Oggicon il Manifestopoteterileggerei temie i momentidi unannoindimenticabile,insiemeai protagonistidi allora:dodiciinsertimensilimonograficidiventanounlibrodedicato a voi che voletecapire il passatopercambiareil presente. il manifesto Nelsecondonumero:l'offensiva deltethinVietnam,il mitodi Che Guevara,il terzomondismo,il cronogrammadelfebbraio1968, articoliesclusivi,documentioriginali.Inedicolail 24 febbraiocon il Manifesto,al prezzocomplessivodi 2000 lire.Nonperdetelo. ILQUOTIDIANOCHENONSIDIMENTICA.

Direi/ore Goffredo Fofi Direzione editoriale Lia Sacerdote Gruppo redazionale Adelina Aletti, GiancarloAscari, Mario Barenghi, Alessandro Baricco,Stefano Benni, Alfonso Berardinelli,Paolo Bertinetti,Gianfranco Bettin, Franco Brioschi,Marisa Caramella, Cesare Cases, SeverinoCesari, Grazia Cherchi, FrancescoCiafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, VincenzoConsolo, Stefano De Matteis, Bruno Falcetto, Fabio Gambaro, PiergiorgioGiacché, Giovanni Jervis, Filippo La Porta, Gad Lemer, Claudio Lolli, Marco Lombardo Radice, Maria Madema, Luigi Manconi, Danilo Manera, Edoarda Masi, Santina Mobiglia, Maria Nadotti, AntonelloNegri, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli,Bruno Pischedda, Roberto Rossi, Franco Serra, Marino Sinibaldi,Paola Splendore, Gianni Turchetta, EmanueleVinassade Regny, Gianni Volpi. Progello Grafico Andrea Rauch/Graphiti Ricerche iconografiche Fulvia Farassino, Nino Perrone Pubblicità sei/ore editoriale Emanuela Merli Via Giolitti, 40 - 10123Torino Tel. 011/832255 Hanno inoltre collaboratoa questo numero: Pasquale Alferi, Antonio Aliverti, Francesco Cavallone, Paola Costa, Luca Coppola, Vincenzo Cottinelli, Giorgio Ferrari, Regina Hayon Cohen, Pilin Hutter, Giuliano Macchi, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Paolo Mereghetti, Stefano Moretti, Grazia Neri, Giuseppe Pontremoli, Carla Rabuffetti, Emanuela Re, MicheleValdivia, Barbara Venturini, Terenzio Vergnano, l'Archivio fotografico de "L'Unità" di Milano, Storiestrisce,la Segreteria del Premio Calvino, la redazione di "Re/Search", le case editrici Einaudi, E/O, Garzanti, La Tartaruga, Publiprint di Trento, Ubulibri. I saggi e interventi di carattere scientifico vengono pubblicati con il concorso del "Progetto Cultura Montedison". Editore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124Milano Tel. 02/6690931-6691132 Fotocomposizione e montaggi multiCOMPOS snc Distribuzione nelle edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Telefono 02/8467545-8464950 Distribuzione nelle librerie PDE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (Ml) - Tel. 02/4473146 LINEA D'OMBRA mensile di storie, immagini, discussioni lscriua al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo III/70% Numero 24 - Lire 6.000 Abbonamenti Abbonamento annuale: ITALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscritti non vengono restituiti Si risponde a discrezione della redazione. Si pubblicano poesie solo su richiesta. LINEA D'OMBRA anno VI febbraio 1988 numero 24 Sommario EDITORIALI 4 Marco Lombardo Radice Siamo allegri zingarelli Fame di fame 5 Alessandro Triulzi 6 Alfonso Berardinelli Natale (con Adorno e con Ajello) a "La Repubblica" Le joli mai 9 Gad Lerner IO Ugo Volli Teatro d'emergenza 13 Cesare Garbo/i Come agisce Don Giovanni ILCONTESTO 16 Antologia (Tullio Vinay su Arabi e Israeliani); Incontri (con Bohumil Hrabal a cura di U. Stefani, con Gianni Celati a cura di M. Teatini, con Padre Alessandro Zanotelli sugli aiuti ali' Africa a cura di A. Del Giudice); Lettere (G. Bettin sul film di Wenders e Handke), Consigli/Sconsigli (G. Cherchi); Confronti (F. Gambaro sui romanzi di D. Chraibi, A. Djebar e T. Ben Jelloun, G. Turchetto su Gianni Celati, G. Fofi su Ex cattedra di D. Starnone); Musica (A. Baricco su Arturo Benedetti Michelangeli); Cinema (G. Volpi sui film di J. Huston e L. Malie); I numeri (G. Strehler scrive a Mozart, R: Gagliardi augura Buon Natale a Celentano); Dai lettori (P. Concetti su Rohmer, A. Panci su Ma/com di N. Tass). POESIA 39 Richard Wagner, Rolf Bossert, Werner S61/ner Nuova lirica dei tedeschi di Romania a cura di Roberto Cazzata e con una nota di Gerhard Mahlberg STORIE 33 37 43 52 63 56 45 58 69 76 79 Joiìo Guimariìes Rosa C. D. de Andrade Pia Fontana Copi Edith Wharton L'altra sponda del fiume Dizionario Love will tear us apart da La piramide Febbre romana NARRARELASCIENZA Gian-Carlo Rora INCONTRI J. G. Ballard SAGGI Filippo La Porta Mario Maffi Giuseppe Anceschi Heidegger Crash! a cura di Andrea Juno e Vale Alla larga dai filosofi Smalltown, America Leggere Tessa La copertina di questo numero è di Andrea Rauch, su un disegno di Rafael Lopez Castro e Felipe Garrido Gli autori di questo numero

DISCUSSIONE SIAMOALLEGRI ZINGARELLI Marco Lombardo Radice In uno dei giorni più caldi dei moti antizingari nelle periferie romane, in risposta alle accuse di "razzismo" che ormai si levavano da molte parti, un gruppo di dimostranti ha esibito a giornalisti e fotografi alcuni neri, perfettamente inseriti nella vita della borgata, amici di tutti ed ora lì, come gli altri, a presidiare i blocchi stradali eretti contro la minacciata calata delle carovane rom. Questo episodio, seppur marginale, mi sembra però contenere in nuce le difficoltà esistenti a una reale comprensione di episodi di intolleranza come quelli romani: se di fondo vi è una complessiva e, direi, storica difficoltà a inquadrare il fenomeno dell'intolleranza in sé, a farlo rientrare nelle coordinate interpretative per noi abituali, più a portata di mano appare una trasformazione, potremmo dire "modernizzazione'', del fenomeno che rende inattuali e inapplicabili i modelli classici. Qual è, insomma, la specificità dell'antizingarismo? Perché oggi si è contro gli zingari e non contro i neri? Eliminare le false risposte è più facile che fornire quelle buone. L'immagine tradizionale e consolidata dello zingaro non è un'immagine totalmente negativa o banalmente razzista: basta pensare all'abbondante produzione cinematografica sull'argomento. Violento, imprevedibile, ladro di bambini, sì; ma anche gioioso, musicale, libero; soprattutto misterioso, inquietante, depositario di saggezza e sapere profondi e fascinosi. Siamo insomma lontani dallo stereotipo dell'ebreo che si frega le mani o del negro che dice buana. Ancora: le comunità che si sono ribellate agli insediamenti zingari sono quanto di più lontano si possa immaginare da quelle tradizionalmente culla dell'avversione per il diverso, caratterizzate da un'identità culturale solida e chiusa, da una rigida strutturazione interna; Tor Bella Monaca è lontana quasi quanto Marte dalla Bassa Baviera. In quartieri nati dallo svuotamento delle baracche e delle borgate romane storiche, e dal rimescolamento delle loro popolazioni, incerta seppur possibile appare la designazione di un gruppo di appartenenza, comunque fragile, magmatico, in continuo interscambio con altri gruppi, diverse identità. In fine, poco credibile appare ogni interpretazione di tipo economicistico o infrastrutturale (a cui si sono rifatti, va notato, promotori e artefici dei moti romani, quanto meno nelle prese di posizione pubbliche): gli zingari non avrebbero certamente influito nel mercato del lavoro, né, credo, avrebbero significativamente sovraccaricato i servizi, già molto carenti: al contrario, avrebbero forse attirato su quelle aree l'attenzione e l'intervento pubblico. E comunque, perché allora i neri sì? E i polacchi? 4 Pensandoci sopra, e soprattutto ascoltando i commenti di molti ragazzini di quei quartieri (da cui proviene una larghissima fetta dell'utenza neuropsichiatrica infantile del mio lavoro), qualche possibile risposta mi si è presentata. Gli zingari rubano. Non ha importanza, naturalmente, che sia vero o no, o in che percentuale sia vero. Ciò che conta è che nelle aree dei previsti insediamenti vi è un'altissima incidenza di microdevianza, soprattutto, ma non solo, giovanile. È, al limite, il dato unificante di comunità per altro, come dicevo, così disomogenee. Praticamente ogni famiglia è interessata al fenomeno. Gli zingari offrono allora l'occasione per "proiettare all'esterno" un aspetto interno al gruppo, inquietante e irrisolvibile. Ma siamo ancora a uno dei meccanismi tipici di ogni forma di intolleranza. Gli zingari sono sporchi. Anche questo è - apparentemente - un classico del razzismo di sempre: il negro, Jaute de mieux, puzza. E invece no; a scavare un po' si trova una significativa differenza. La pulizia, diciamo cent'anni fa, aveva una connotazione di classe più e prima che razziale; a puzzare, prima del negro, è il povero. Fino a una rivalutazione, in chiave ugualitaria e progressista, della sporcizia: ricordate il muratorino sul divano buono? La fobia dello sporco esprimeva allora la paura di una contaminazione sociale, della perdita di riconoscibili stigmate di classe. Oggi non è più così: o meglio, quello della pulizia è uno dei valori "borghesi" di cui si sono appropriati i ceti inferiori, un valore ormai svuotato dei suoi contenuti originari, massificato e intensivamente commercializzato: l'invenzione e il massiccio lancio di deodoranti intimi per uomo e la totale cancellazione della secolare tradizione del buon auspicio nel pestare una cacca rappresentano due esempi limite di questo processo. Di fatto, credete a chi visita moltissimi bambini decisamente poveri, il sottoproletario zozza è ormai una rarità; magari con la maglietta bucata e la camicia lisa, ma pulito e profumato. Lo zingaro diviene allora il revenant di un passato ancora troppo vicino. Lo zingaro tocca. Questo appare, se si parla un po' con la gente, un punto centrale._La presa di contatto dello zingaro si fonda sulla creazione di un'illusoria momentanea intimità, di cui il contatto fisico costituisce irrinunciabile fondamento. Contatto fisico e intimità che vengono, oggi, sentiti come estremamente disturbanti. "Prendi la mia mano, zingara ... ", diceva la canzone, non poi molti anni fa; oggi appare impensabile questo offrirsi al contatto, una violenza il doverlo subire. La vera differenza dei polacchi, che affollano come lavavetri i semafori, non è tanto, a mio giudizio, nell'offrire una prestazione lavorativa per quanto simbolica in cambio di denaro - tributando un implicito omaggio alle forme produttive e ai modelli di scambio condivisi - quanto nei comportamenti minuti: rigorosamente a distanza dalla macchina, un cenno per offrire il servigio, la paziente attesa della mancia, una mano che raccoglie senza neanche sfiorarti ... Il significato profondo di questa nuova fobia di massa non mi è chiaro; posso solo aggiungere

che sembra una variabile dipendente del "progresso", se è vero, ad esempio, che negli USA anche l'intimità fisica fra bambini è estremamente ridotta e sostanzialmente mal vista. E che gli zingari dovranno, prima o poi, rivedere le loro secolari modalità di approccio. Gli zingari fanno gruppo a sé. Questa mi sembra la differenza fondamentale dai neri, quanto meno dai neri romani. Che hanno certo luoghi loro, esclusivi, i loro locali e punti di incontro; delimitati però nel tempo e nello spazio: i pomeriggi festivi, l'area intorno alla Stazione. In altri spazi e altri momenti il nero è in genere solo, disponibile ad accettare le forme date di socialità, a entrare il più possibile nelle regole del gioco: ad assumere insomma quella doppia identità che da sempre è la difesa (e a volte la ricchezza) dell'emigrato. Non si tratta, lo sappiamo, di una garanzia totale dal divenire oggetto di intolleranza o razzismo: in determinate situazioni storiche e sociali l'identità prima e altra verrà enfatizzata a scapito di quella condivisa, l'ebreo sarà quello che va in sinagoga piuttosto che il simpatico compagno di lavoro, il giapponese un muso giallo e via dicendo. Ma in tempi normali è una garanzia sufficiente. Gli zingari invece non si mescolano e non socializzano, non si "inseriscono"; non scatta dunque - a loro favore - un primo (fondamentale) freno all'intolleranza: "ne conosco uno, sono amico di uno, ho giocato a carte con uno di loro: come posso essere contro tutti?" La domanda radicale che mi si poneva riflettendo ai fatti di Roma (e anche leggendone i commenti, spesso così facilmente moralistici) è questa: è possibile pensare a un radicale superamento dell'intolleranza (non, intendiamoci, delle sue forme agite o estreme; dell'intolleranza come categoria psicologica) se non a partire da questo meccanismo? O, simmetricamente, è realistico pensare a un mondo senza razzismi Zingari a ponte Marconi, Roma 1987 (foto di Massimo Sambucettl Assoclated Press). DISCUSSIONE finché esistono gruppi socialmente delimitati e chiusi? Vuol dire allora che solo una società appiattita e omologata può essere "tollerante"? Domande, lo so, certo non nuove; che mi sembra però non abbiano trovato risposte, per lo più aggirate da spiegazioni parziali e semplicistiche, o saltate a pie' pari da istanze etiche. Il movimento antirazzista francese si è dato uno slogan semplice e geniale: "Touche pas à mon pote", lascia in pace il mio amico, più o meno. Ma che succede se non è mio amico? Per dirla in altri termini: se la paura e il rifiuto per il diverso, pur nelle sue varie determinazioni storiche, si fondano sul meccanismo della proiezione, l'attribuzione al diverso di nostri aspetti rimossi e scissi, loro naturale antidoto è l'empatia; che ha certo anche una dimensione etica e filosofica, l'homo sum per intenderci, ma fragilissima; ben più solida quella concreta del mon pote. Se ben ricordo, è più o meno quello che sosteneva Sartre ne L'antisemitismo; ma non sappiamo ancora come si arrivi a dire, e a sentire, "noi siamo zingari". FAMEDI FAME Alessandro Triulzi Anche quest'anno Natale è stato preceduto dalla consueta massiccia campagna d'assalto di tutti su tutto: Natale come guerra, qui come altrove, nell'occidente nostrano. La campagna ha coinvolto massaie e pubblicitari, ministeriali freschi di tredicesima e patiti degli ultimi Bot, una classe operaia sempre più vicina a quel simulacro di paradiso che è la sua imitazione materiale in terra di consumi - l'unico paradiso d'altronde che (le) si concede - una sempre più corposa schiera di gaudenti, ben pensanti, Repubblica-dipendenti trenta e quarantenni all'assalto di ultime spiagge, isole misteriose, tropici sempre più tristi ma pur sempre invitanti. Per non parlare, ovviamente, di tortellini e panettoni, pasticci di fegato e galantine di pollo, struffoli e rococò. Per architettare questa complessa campagna acquisti si sono mobilitate le più attente, e pervasive, forze del paese, dagli intellettuali opinion-makers ai mass-media. La regia, se tale può essere definita quella straordinaria "mano invisibile" di smithiana memoria insita nella nostra pur rappezzata società dei consumi dove la domanda, come nei conti di Goria, si appaia sempre con l'offerta e, creato il bisogno, il gioco è fatto, ha potuto contare quest'anno su una serie di elementi non certo nuovi ma sempre puntualmente "rivisitati" e men che sommessamente proposti alla vigilia delle grandi occasioni o delle grandi campagne: la guerra, quella vera, e la fame, non di tortellini, ma quella nera. Già, perché quest'anno tortellini e spumante hanno avuto qoali costanti compagni, nei loro acquisti come nelle loro 5

DISCUSSIONE Freetown, Sierra Leone (Foto Murray Lee/Unicef/ Associated Press 1987). libagioni, due straordinari aperitivi sociali quali la guerra nel Golfo Persico e la fame in Etiopia. E non è da poco, come ci hanno ricordato visivamente le pagine glassate e rassicuranti del (nostro) benes_seree dell'altrui miseria sui pre-natalizi "Venerdì" di "Repubblica" e "Sette Giorni" del "Corriere della Sera", esorcizzare la non troppo lontana Grande Fame degli italiani con una collettiva grande bouffe il cui immancabile, e cattolicissimo, rigurgito colpevolizzante veniva via via indotto e poi lenito da quelle pagine a colori similvere sui corpi ricoperti di sabbia di Shatt el-Arab, le torme di bambini scheletrici appesi a larve di madri del Tigré, le masse cenciose affamate ideologizzate di un destino terzomondista che ci era stato provvidenzialmente evitato e che occorreva allontanare sempre più. Così i messaggi solo apparentemente contraddittori della Grande Fame e della Grande Abbuffata venivano riproposti con particolare pervicacia da riviste e televisione, creatori d'opinione e presentatori televisivi in testa. La "irresistibile leggerezza del Natale", per dirla con Alberoni, proprio in questo consiste: lo "spendi e spandi" natalizio si coniuga con la Missione di Bontà di "Fantastico"; il ricordo o la riproposta della fame stimola e riconcilia la bouffe nostrana; il grande caldo seno prosperoso di Serena Grandi, cui sono simbolicamente appesi i pensieri erotico-mammisti del maschio italiano, può essere tranquillamente accostato a quello smunto rinsecchito della giovane-vecchia donna etiopica senza nome con in braccio un figlio scheletrico proprio perché entrambi lontani, entrambe immagini da sfogliare tra una redarne di preservativi e una foto di Amnesty, oleografie dell'inconscio collettivo in cerca di sensazioni "forti" su cui eccitarsi o commuoversi. È il "grande rito di riconciliazione" cui ci invita il sociologo del "Corriere" ma in un altro senso, direi opposto: non già quel suo "mi occupo di te, mi prendo cura di te, perdona se durante l'anno ti ho trascurato", che suona un tantino eccessivo anche .in periodo natalizio, né tantomeno - scherziamo? - quel "periodo in cui avviene la distinzione tra essenziale e non essenziale" ma il suo esatto opposto: così la Procter & Gamble alla ricerca di spazi commerciali e di un nuovo "look" si inventa la vecchia buona azione quotidiana e coniuga il fustino Dash con la "missione di bontà", aumentando in due mesi il lOOJodei profitti e inducendo un'indelebile immagine di generosità non sospetta e di celentaniana filantropia nel cuore degli italiani; così Dash non dà acqua e scuole agli africani di Kisangvani ma soprattutto surclassa Dixan e Festival di Canale 5 come immagine, così come Celentano surclassa Baudo non perché sia più bravo ma perché ci fa sentire più buoni. In questo modo il grande rito di riconciliazione ricongiunge il non ricongiungibile e provvidenzialmente riconcilia fame e profitto, bontà e trascuratezza, essenziale ed effimero. Su tutto sovrasta il grande immaginario, così rassicurato da immagini "forti" perché lontane, così rassicurante perché condito di opposti desideri e paure, entrambi innocui per6 ché esorcizzati, entrambi distanti perché così a portata di mano, e di vista, come il seno di Serena o lo spettro della fame etiopica. Per eccitarsi, appunto, o commuoversi, e tirar dritto verso il cenone di capodanno. NATALE (CONADORNOECONAIELLO} A ''LAREPUBBLICA'' Alfonso Berardinelli "Siamo tutti sulla stessa barca" (W. Wenders e P. Handke) In occasione del Santo Natale, un umore malinconico e riflessivo ha invaso chissà perché le pagine dell'inserto culturale di "Repubblica". Già il titolo dell'insieme induce a pensare: "Il passato che ci aspetta". Chissà che vorrà dire, se pure vuole dire qualcosa. Il progresso si ferma? Il futuro ci farà tornare indietro? Sembra di sentire la voce di Theodor Adorno, il filosofo tedesco, il profeta di sventure, il grande accusatore della cultura di massa, l'intellettuale sinceramente apocalittico che gli intellettuali di "Repubblica" non riescono a digerire. .Come lettori di questo giornale pensavamo tutti che il passato fosse passato e che nel futuro ci fosse solo il bel futuro di un'Italia sempre più moderna. Invece, dopo tante prediche contro i pessimisti e contro chiunque venga visitato di tanto in tanto dall'impressione che la cosiddetta cultura critica di sinistra sia diventata, en masse, una sinistra carica-

tura di se stessa - ecco che un discreto numero di predicatori laici (Nello Ajello, Arbasino, Placido, Enrico Filippini) si cimenta per lo spazio di un brillante pezzo di fine d'anno nientemeno che con il tema della Dialettica dell'Illuminismo. Con la tesi, cioè, secondo cui, a forza di illuminazione non si vede più niente, a forza di dibattere non si capisce di che cosa si parla, a forza di informazione non si sa più che cosa succede. Lo spettacolo non di un solo giornalista qualsiasi, ma di cinque o sei Giornalisti Intelligenti tutti in preda alla malinconia, è uno spettacolo disperante e commovente. Non si sa se ridere o piangere. Se prenderli in parola o fare finta di niente. Non si sa se buttare via tutto o se conservare in una teca questi articoli eccezionalmente rivelatori. Questi uomini così svegli e scaltriti, così informati sempre su tutto, così radicalmente e metodologicamente privi del più piccolo pregiudizio, hanno dunque anche loro il loro momento triste di confusione o di chiarezza. Una volta l'anno, hanno dei bizzarri soprassalti antiprogressisti (non parlo qui di Arbasino, che non fa altro che lamentarsi e chiedere aiuto, che affoga, e che invece tutti prendono per un tipo ameno, per uno divertente e superficiale. È davvero drammatico il caso: perché lui grida veramente "al lupo! al lupo!", ma nessuno gli crede, tutti ridono e lo prendono per un bugiardo ... ). Si accorgono che non sempre, con il passare del tempo, con l'irresistibile ascesa delle vendite del loro giornale, il mondo migliora. Forse il mondo, invece, o il mondo culturale, peggiora, sebbene tutta la classe dirigente legga "Repubblica". E le sacrosante e laiche Comunicazioni di Massa, con tutta la loro sacrosanta e laica massa di pubblicità, danno il loro attivo impulso al peggioramento. Queste libere e brillanti coscienze laiche, in occasione del Santo Natale, si mettono tutte insieme a contemplare la punta della penna con cui scrivono, si incantano davanti al foglio bianco, ai tasti fermi della macchina da scrivere, e trovano che... qualcosa di preoccupante avviene intorno a loro. Seriamente dubbioso (il più seriamente dubbioso fra tutti, mi pare), comincia Nello Ajello. Ed ecco il lavoro dei suoi dubbi. Che cosa pensare della "alluvione di concorsi, regali e supplementi nei mass media?" "È un'evoluzione fisiologica oppure un boom effimero?" Perché questa frenetica corsa al "di più"? Ajello pensa al temibilissimo Celentano e al suo show del sabato sera, o che l'ha con il "Venerdì" a colori del giornale su cui sta scrivendo? Tutto il gruppo degli Intelligenti di "Repubblica" è stato folgorato dal comportamento di Celentano. Già: la "Repubblica" credeva di avere molta audience, credeva di essere molto influente, finché non è arrivato Celentano. Pensa il Giornalista Intelligente: "Celentano è più ignorante e meno intelligente di me (di noi qui a "Repubblica", di noi qui ali' "Espresso"). Come mai, allora, è più influente di noi? Chi è il primo della classe in materia di Comunicazioni di Massa, Eugenio Scalfari o Adriano Celentano?" DISCUSSIONE Ajello vuole essere ironico e sarcastico, e accusa il cantante presentatore di essere "umanitarista, pacifista, ecologista, poco alfabeta, assai alternativo". Ma perché un giornalista moderno e intelligente come lui scherza con queste qualifiche? Perché le regala così al primo venuto, a un uomo per il quale non ha che antipatia e disistima? Che cos'ha contro l'amore per l'umanità, contro il pacifismo, contro l'ecologismo? O vuole accusare qualcuno di ipocrisia? È così ingenuo da credere che si debba essere sinceri e coerenti alla televisione, nello show del sabato sera abbinato alla lotteria di Capodanno, mentre si fa pubblicità a se stessi? È coerente e sincera la " Repubblica" quando fa pubblicità a se stessa? Crede forse Nello Ajello che la pubblicità debba essere coerente e sincera? Crede nel valore delle Virtù Tradizionali e dei Buoni Sentimenti? Niente di male, se così fosse. Ma lo dica! O crede che i mass media debbano essere più colti? Li ritiene forse strumenti dell'oscurantismo? Osa credere che siano stupidi o incoraggino la stupidità? Sogna una cultura élitaria? Vuole accanirsi a fare dell'opposizione puramente intellettuale? Vuole irrigidirsi in uno sterile negativismo critico? Nuota contro corrente? O sputa contro vento? Di che si meraviglia, Nello Ajello? Lui, una delle colonne portanti nella storia dell' "Espresso", il settimanale così spregiudicato e così anti-dogmatico da non riportare mai correttamente una sola frase di uno solo dei suoi intervistati. (E metà dei suoi articoli sono interviste). Esagerate e ingiuste insinuazioni, queste, nei confronti di Nello Ajello, che non le merita. È probabile però che la televisione finirà per rendere sempre più melanconici i giornalisti all'antica, che si vedono costretti a scrivere dei semplici articoli e non sono ancora titolari di una loro rubrica televisiva. I giornalisti più spregiudicati e più moderni, dopo aver preparato e propagandato l'avvento di una televisione più spregiudicata e più moderna, si vedono scavalcati e sorpassati dalla televisione, che è più spregiudicata e moderna di loro. Triste destino!, su cui qualche volta, a Natale, sono portati a versare qualche lacrima dai loro stessi occhi. Nello Ajello, però, dicevamo, non è uno sciocco, né un disonesto, né è affetto da quei tic e manierismi e birignao dei quali sono preda i suoi più vanitosi colleghi di giornale. Lui cerca, nei limiti imposti dalla realtà del suo mestiere di dire la verità o di dire semplicemente quello che pensa. Cerca di fare un po' di autocoscienza di professionista della Sfera Pubblica. Parla di ciò che conosce meglio: l' "Espresso". E arriva quasi a lamentarsi. No, non si lamenta: ma quasi. Gli sta venendo la nausea dei giornali, dei settimanali, dei supplementi illustrati, degli inserti a colori, delle edicole stracariche di lussuosa inutile cartaccia. (Non voglio offendere né insultare nessuno: ma la carta stampata che va a finire nella spazzatura ventiquattr'ore dopo essere stata pubblicata, è o non è, di fatto, cartaccia? È o non è effettiva spazzatura?). Dice Ajello: "Le edicole straripano come mai in passato. È il caso di 7

DIKUSSIONI lamentarsene? Vediamo. lo, per esempio, appartengo a una generazione che ha sempre giudicato umiliante il fatto che in Italia si vendessero pochi giornali: per quanto riguarda in particolare i quotidiani, per mezzo secolo e fino a cinque o sei anni fa, gli indici di lettura erano quasi da Terzo Mondo. Che i quotidiani cominciassero un giorno a scoppiare di salute, come oggi appare, è stato a lungo impensabile; che arrivassero a pesare mezzo chilo e si riuscisse a stento a maneggiarli - come accadeva e accade, la domenica, a certi loro illustri e invidiatissimi confratelli americani - non rientrava nel novero delle speranze realistiche o sensate. A non compiacersi per il 'nuovo corso' si rischia dunque di passare per incontentabili. Eppure ... " Ed ecco la tempesta del dubbio in un bicchiere d'acqua. La malinconia di capodanno, la lacrima natalizia, tutte cose che lasceranno ben presto il tempo che hanno trovato: "Eppure, quando in cinquanta giorni si avvera ciò che si aspettava da cinquant'anni, certe perplessità sono spiegabili. Si affaccia il timore, o soltanto l'ipotesi, che non si tratti di un'evoluzione fisiologica, ma di un boom con tutto l'effimero che il termine comporta. La contemporaneità con la febbre dell'audience televisiva può far pensare che anche per i giornali ci si avvicini a quel confine oltre il quale la concorrenza non esalta la qualità dei prodotti. Si scrutano i casi in cui un supplemento fa concorrenza allo stesso quotidiano che lo offre: gli argomenti non sono inesauribili, replicarli all'infinito può produrre nel lettore una reazione di sazietà, frastornarlo, nuocere al suo istinto selettivo. E può inoltre predisporlo alla nausea l'invadenza frenetica delle pubblicità, inevitabile e crescente per alimentare il boom ... L'eccesso di pubblicità sminuzza gli articoli, qualche volta ne rende faticosa la lettura. Non ci si sogna qui di mettere in dubbio il ruolo della pubblicità nella vita dei giornali. Sarebbe insensato, donchisciottesco. Va tuttavia registrato che il 'troppo' rischia di offendere". Espressioni notevoli ce ne sono in questo pezzo. Per esempio: "È il caso di lamentarsene?": l'autore qui evidentemente capisce che sta lamentandosi (o rischia di lamentarsi), ma non può ammetterlo. Non si rende conto che, se Ribellarsi è difficile, almeno Lamentarsi sarebbe giusto. Ma l'interrogativo, se sia o non sia, infine, il caso di lamentarsi davvero, rimane un interrogativo senza risposta. Il lettore che volesse sapere da Ajello se può lamentarsi di "Repubblica", dei suoi inserti e supplementi, con l'autorizzazione di "Repubblica", rimane deluso, perché non lo saprà mai. "Si rischia di passare per incontentabili": ma rischi pure, Ajello. Corra questo rischio. Si faccia accusare ingiustamente dai suoi amici e colleghi. Pianga, non si vergogni. Anche un virile giornalista laico e progressista può piangere, una volta. È evidente che Lei lo desidera sinceramente. E allora non inibisca, non reprima i suoi umori. Tanto con i maligni non c'è niente da fare. Se qualcuno vorrà accusarlo di Terzomon8 dismo e di Pauperismo perché si augura, per un mese solo, dei giornali più poveri e più spogli, pazienza! Certo, è un rischio. Ma bisogna rischiare. "Eppure, quando in cinquanta giorni si aveva... ": Proprio così. Si tratta di quelle che Truman Capote avrebbe definito "preghiere esaudite". Non c'è niente che chiarisce meglio le idee ai sognatori che la realizzazione dei propri sogni. Gli "invidiatissimi" (da chi? da Ajello? da Scalfari?) giornali americani che pesano un chilo, li abbiamo anche in Italia, finalmente. Ajello pensa che solo per questo non si possa più deplorare il Terzo Mondo e sognare l'America? Per così poco vorrebbe ad un tratto cambiare mentalità e vita? Vuole diventare Perplesso e meno Democratico? "Si affaccia il timore, o soltanto l'ipotesi ... ": insomma, il timore o l'ipotesi? O un'ipotesi che fa timore? Bisogna avere il coraggio dei propri timori, non Le pare? " ... un boom con tutto l'Effimero che il termine comporta". Si teme un boom? Si diffida dell'Effimero? È o non è, Nello Ajello, uno dei protagonisti dell' "Espresso", il più criticamente effimero dei settimanali italiani, sempre intrepido, in fatto di pubblicità, di mode, ecc. "La febbre dell'audience televisiva": ma questa febbre non è solo televisiva. I giornali, primo fra tutti quello sul quale scriveAjello, questa febbre della loro audience ce l'hanno sempre avuta alta. La "Repubblica" non fa che pubblicare pubblicità nella quale si compiace dell'aumento della propria audience, cifre alla mano. " .. .quel confine oltre il quale la concorrenza non esalta la qualità dei prodotti": è il cuore teorico e copernicano di tutto il testo. Niente da aggiungere, è proprio così. La concorrenza peggiora i prodotti, e il confine o la soglia in cui questo avviene è già stata superata, almeno nel mondo della televisione e dei giornali. Basta confrontare fra loro il "Venerdì" di Repubblica e l' "Espresso". Si fanno concorrenza in famiglia e non smettono di peggiorare. "L'eccesso di pubblicità sminuzza gli articoli, qualche volta ne rende faticosa la lettura": ed è vero. Tutti lo sapevano, lo dicevano, lo ritenevano insopportabile: anche perché non avviene "qualche volta", ma sempre o quasi sempre. Sfogliare " L'Espresso" è un'esperienza demenziale. "Non ci si sogna qui di mettere in dubbio il ruolo della pubblicità nella vita dei giornali. Sarebbe insensato, donchisciottesco" e poi direttore e colleghi, se Lei, Ajello, si sognasse di mettere in dubbio una cosa simile, gliela farebbero vedere! Ma allora, però, di che cosa abbiamo parlato finora? E il "troppo" offende davvero, "stroppia" (come si direbbe, ma Lei non dice), o "rischia" solo di offendere? Ajello ha rischiato di sfiorare un argomento interessante. Stava per correre il rischio di sognarsi di mettere in dubbio insensatamente e donchisciottescamente il ruolo della pubblicità nella vita dei giornali. Ma poi niente. È rimasto solo Perplesso, non si sa più di fronte a che cosa. Quante storie! Come non detto. Era solo un articolo di giornale, dopo tutto! Meno di niente.

LEJOLIMAI Gad Lerner Le celebrazioni del Sessantotto, di cui francamente già a gennaio si comincia a non poterne più, rappresentano un tipo d'anniversario del tutto particolare. Si tratta infatti solo di un ventennale (non di un centenario o di un cinquantenario), che per giunta riguarda un evento decisivo nella formazione culturale e nell'immaginario di decine di migliaia di persone quarantenni che di quell'evento, a torto o a ragione, si considerano protagoniste. Non posso ricordare se un analogo coinvolgimento emozionale si fosse verificato fra le decine di migliaia di ex-partigiani quarantenni nel 1965, cioè nel ventennale della Liberazione. Ma ne dubito, se non altro perché allora non poteva esistere un analogo, ridondante effetto di richiamo promosso dai mass media. Tra le prime conseguenze di cotanto business, è possibile indicare due sindromi. La sindrome raduno degli alpini. Cioé lo spasmodico sogno cameratesco di ritrovarsi insieme a ricordare il bel tempo che fu, manifestatosi non solo nel pur legittimo desiderio degli occupanti di Palazzo Campana a Torino e di Sociologia a Trento di ritrovarsi negli stessi luoghi vent'anni dopo. Tale spasmodico bisogno si è manifestato anche in forme più private, talvolta patetiche: feste corredate di torta con venti candeline, telefonate a "Radio popolare" affinché l'emittente milanese convocassei reduci di notte in largo Gemelli, di fronte alla Cattolica, "ciascuno con una bottiglia di vino in mano" (sic). La sindrome di esclusione. Ogni rievocazione giornalistica ha citato dei nomi di protagonisti ma, ovviamente, ne ha omesso parecchi altri. Ebbene, posso testimoniare che ne sono derivati autentici casi di sofferenza, quasi che la mancata citazione scritta cagionasse una sorta di deprivazione, di torto subìto. Inevitabile che queste sindromi si manifestassero, nell'ambito di una celebrazione _essenzialmentedi tipo emozionale e spettacolare. Ciò che di per se stesso rende opportuno rinviare a dopo, in anni non contaminati dal culto dell'anniversario, qualsiasi riflessione critica sul Sessantotto e soprattutto sui percorsi generazionali che da lì si dipartirono. Si ripropone semmai il non nuovo interrogativo sul perché ancora nessuno in Italia abbia prodotto un'analisi, una storia, quanto meno una cronaca attendibile e documentata su di un periodo cruciale come quello che dal Sessantotto conduce, con continuità e rotture al suo interno, sino alla fine degli anni Settanta. Per capirci qualcosa, forse vale la pena di citare un buon esempio straniero. Un bel libro francese. Anzi, due libroni pubblicati da Hervé Hamon e Patrick Rotman presso la casa editrice Seui! sotto l'unico titolo di Génération, e con i due sottotitoli di Les années de réve (Gli anni di sogno) e Les années de poudre (Gli anni di polvere), di cui DISCUSSIONE già si comincia a intuire l'intenzione indicando il numero complessivo di pagine, milletrecento, corredate di cronologia e di biografia dei protagonisti. Le tesi di Hamon e Rotman possono piacere o non piacere (qualcuno vi potrà rintracciare la peraltro diffusa distinzione fra un Sessantotto buono e gli anni Settanta cattivi). Lo stile narrativo, così tipicamente francese, potrà forse essere giudicato frivolo (è un fatto però che le milletrecento pagine si lasciano leggere assai più in fretta di certi più smilzi libretti nostrani sul medesimo argomento). Eppure non ci si può che levare il cappello di fronte alla mole e all'interesse del materiale documentario raccolto, e soprattutto di fronte alla scelta giusta di seguire il percorso generazionale dei protagonisti del Maggio fin dalla loro prima formazione politicoculturale risalente alla fine degli anni Cinquanta. Incontriamo così, per esempio, un Alain Krivine adolescente comunista alle prese con il crollo di Stalin nel 1957, ne seguiamo l'impegno clandestino fra i porteurs de valises (cioè i militanti che in disobbedienza alle direttive del Pcf offrivano supporto logistico alla lotta del Fnl algerino), per poi convertirsi rocambolescamente al trotzkismo praticando l'entrismo nel partito e successivamente, espulso nel 1966, fondare la Jcr aderente alla IV internazionale. Seguiamo la battaglia di Pierre Kahn e degli altri giovani comunisti soprannominati /es italiens contro la direzione stalinista di Maurice Thorez e dei suoi successori al vertice del Pcf, fino alla crisi dell'Unione degli studenti comunisti. E poi ancora il contributo di giovanissimi come Serge July, innamorati della cultura yè yè, alla nouvelle vague dell'intellettualità parigina; la deludente esperienza di Tiennot Grumbach e altri studenti stabilitisi ad Algeri nei primi anni dopo la liberazione; gli altri loro compagni volati nel'64 fino ali' Avana per fare la conoscenza diretta di Fide! Castro e di Ernesto "Che" Guevara; Robert Linhart e i primi seguaci del marxismo critico di Louis Althusser. .. Potrei continuare a lungo, ma qui mi preme solo sottolineare ancora l'altra componente che nella narrazione di Génération assume un peso rilevante: l'afflusso a Parigi di numerosi ebrei, perseguitati nell'Europa orientale, i cui figli - sradicati e scossi dall'esperienza familiare - figureranno numerosi nel gruppo dirigente della rivolta. Due nomi per tutti: il polacco Pierre Goldman, impulsivo e disperato, che lascerà le barricate del Maggio per la guerriglia in America Latina e, prima di finire ucciso nel settembre 1979, farà anche il rapinatore, e Michèle Firk, accorsa subito nel 1968nelle file della guerriglia in Guatemala, e morta suicida per sfuggire alla cattura da parte dei militari. Senza dimenticare gli altri fuggiaschi, Tony e Benny Levi, ebrei apolidi emigrati dall'Egitto, che daranno vita alla strana esperienza maoista spontaneista della "Gauche Proletarienne", il secondo dei quali, Benny, con lo pseudonimo di Pierre Victor, sarà poi fra i più stretti collaboratori di Jean Paul Sartre e fra i fondatori di "Libération". Questa mia disordinata e largamente incompleta elenca9

DISCUSSIONE Maggio '68 a Parigi. zione di nomi e di percorsi che fecero del Quartiere Latino un terr~torio pron~o a ~splodere(insiemeal sindacato studen~ tesco d1 Jean-Loms Peninoue MareKravetz, e a quello degh insegnanti di Alain Geismar)è utile non solo a evidenziare l'ampiezza del campo di ricerca ma a sottolineare anche una differenza genetica fra il Sessa;totto francese e quello italiano. Ne emerg7 infatti u?a Parigi al tempo stes_so_capitaleeuropea, crocevia della cnsi definitivadel colomahsmo e dello svil~ppo del terzomondismo, luogo di preci~itazione traumatica della cultura comunista e di sinistra m genere. Ragion per cui coloro che diventerannoi dirigenti del movimento del Sessantotto, risultano esserepersone dalle biografie ricche e a~venturose,. portatrici di esperienze e consapevo_lezze senza nscontro nei loro coetanei italiani. Posso sbagliarmi, ma non mi risulta che alcun dirigente del Sessantotto italiano abbia un analogo pedigree. Non si tratta di elaborare assurde classifichenazionali su chi abbia "vissuto" più o meno all'interno della medesima generazione, ma di sfatare semmai un luogo comune assai diffuso nella sinistra del nostro paese, e riproposto con assurda enfasi campanilistica da Mario Capanna in questi giorni: il Sessantotto francese sarebbe stato solo una fiammata esauritasi nel corso del mese di maggio, mentreil Sessantotto italiano avrebbe costituito l'avvio di un'onda lunga, grazie soprattutto al "contagio" esercitato nelle grandi fabbriche. No davvero. Il Sessantotto francese aveva già posto le sue basi, e soprattutto aveva minato alle radici la cultura tradizionale e ossificata della sinistra, ben prima del biennio 1967-1968. Come giustamente sottolineano nelleloro conclusioniHamon e Rotman, piaccia o non piaccia questa generazione del Sessantotto è stata l'artefice della crisi definitiva del Pcf (mentre il P~i no~ostante t~tto trarrà vantaggipolit!ci, elettorali e istituz10nah dalla spmta del movimento italiano). Qualcuno forse resterà scandalizzato del fatto che tanti leader del Maggio, da Henri Weber a Serge July, da Roland <:;astro _a Jean_-Paul Besset, per non parlare di Régis Debray, siano d1venut1consulenti di FrançoisMitterand o comunque alti funzionari dell'establishment di governo socialista. Ma pure questo è avvenuto perché il nuovo Ps di Mitterand assomiglia ormai piutt?sto un apparato tecn~cratico rifor~!- sta che non a un partito socialista essendosidavvero defm1t\vamente consum_at~,in Francia, ~eglianni Settanta, la preesistente cultura d1 smistra. Qui da noi è avvenuto il contrario, i vecchi valori e soprattutt? i vecchi modi di far politica si sono riconfermati egemoni, lo stesso processo di cooptazione nelle stanze del potere di leader del Sessantotto è stato assai più limitato. In Italia il quotidiano "Lotta continua" è morto in un tempo in cui "Repubblica" veniva considerata un giornale di sinistra. In Francia un giornale similea queitempi a "Lotta con-· tinua"_, e semmai ancor più malandato, "Libération", ha avuto 11successo che sappiamo E rton esiste nessuna "Repubblica". · Le ragioni per cui questo nostro ventennalenon è onorato 10 da alcuno sforzo di ricerca paragonabile a quello che stadietro a Génération, sono certo varie e complesse 1 non ultimo il fatto che i nostri anni Settanta sono stati insanguinati dal terrorismo. Ma il vuoto resta, e anche un po' d'invidia. TEATROD'EMERGENZA Ugo Volli Si può parlare oggi di emergenza per il teatro italiano? Certo che si può, probabilmente anzi si deve, per parecchie ragioni. In un primo senso, che forse può riuscire un po' troppo generico e tranquillizzante, ma va citato in ogni caso perché è un "segreto" importante di per sé, l'emergenza è uno degli ingredienti fondamentali per un'arte tanto economicamente e socialmente improbabile come il teatro, per un'attività che cioè ha sempre bisogno di ritrovare in se stessa le proprie ragioni di vita per non sparire. Da sempre (ma proprio da sempre, cioè da secoli, dall'inizio del teatro professionistico in Europa) più o meno tutte le compagnie teatrali si formano e si reggono in emergenza, senza garanzia economica di continuità, in uno stato civile ambiguo ed emarginato. La pratica disinvolta dell'emergenza, cioè l'arte di arrangiarsi e di andare avanti trovando un rimedio ai problemi via via che si presentano, improvvisando in scena come nell'econom_iae nella politica, è la base di quell'atteggiamento diffusissimo che Sergio Tofano ha chiamato "guitteria" nel suo libro sul "teatro all'antica italiana". Bisogna notare però che questo modo di produrre e di sopravvivere non è legato a un'improbabile essenza del teatro, ma al modo storico concreto di sviluppo del teatro italiano, cioè alla compagnia di giro, priva di stabilità geografica, economica, giuridica. In questo sistema è quasi sempre di emergenza, in particolare, il processo di costruzione degli spettacoli teatrali, cioè quel sistema di prove ancora molto piu artigianale, e molto meno programmabile delle riprese di un film, dove il tempo di lavoro appare quasi per definizione insufficiente e in qualsiasi fase l'approfondimento pare allo stesso tempo necessario e impossibile, dando luogo a infinite utopie laboratoriali, quasi mai perseguite sul serio. Una storia interna del lavoro teatrale - poco nota per il presente e pressoché dimenticata per il passato - mostra poi come spesso gli ingredienti di

questo processo (prove, tempi, emozioni, ripetizioni, rapporti personali, gruppo) sono sistemate - consapevolmente o meno - proprio in maniera da provocare l'emergenza come leva creativa. "La stanchezza è utile, anzi necessaria perché qualche cosa nasca", ha detto una volta Jerzy Grotowski, e questo è un "trucco" cui ricorrono spesso tutti i teatranti, senza pregiudizi estetici o teorici. Una bella messinscena razionale e programmata, senza emergenze e crisi, non funziona neppure per i musical piu commerciali. Emergenza, in questo senso, è dunque una parola che indica bene la situazione creativa del teatro, grazie alla sua connaturata ambiguità: perché "emerga" qualche cosa di reale, si deve raggiungere un punto di non ritorno, un momento di eccezione o di crisi, che richiama tutte le energie disponibili, anche quelle che non lo sembravano più o che non si sapeva ci fossero. Questo senso dell'emergenza, fra l'altro, spiega certe confluenze, altrimenti inspiegabili, fra un'arte altamente convenzionalizzata della finzione e bisogni di ''verità" psicologici, politici, o addirittura religiosi, uno dei temi fondamentali della storia del teatro non solo recente. Ma il senso dello slogan "teatro d'emergenza", com'è stato proposto al convegno organizzato a Bologna da Leo de Berardinis nel dicembre '87 sotto questo titolo, e come intendo usarlo io qui di seguito, è molto più banale e concreto. Alla lettera, il punto è che c'è oggi in Italia un teatro che fa molta fatica a sopravvivere decentemente, e di cui una serie di mali traumatici e cronici rischiano di provocare se non la distruzione, almeno un grave degrado. Intervenire, denunciare la situazione, indicarne i responsabili fa parte oggi del compito di ogni intellettuale vicino al teatro, e di ogni teatrante che vuole assumersi le sue responsabilità generali. Che ci sia una malattia, che i sintomi patologici si stiano moltiplicando, sono tutti d'accordo, anche gli inguaribili ottimisti e coloro che hanno gestito fin qui il piccolo potere che regola questo settore. Perfino Giorgio Strehler, da sempre direttore del teatro piu potente e finanziato d'Italia, ha pubblicato un appello in questo senso. Il paziente, dunque, per giudizio generale non è solo il "nuovo teatro" ma tutto il sistema teatrale nel suo complesso. Più difficile mettersi d'accordo sulle cause e sui rimedi della malattia. Che cosa c'è infatti che non funziona, nella situazione attuale del teatro? I sintomi più esteriori sono facilissimi da vedere. Un certo smarrimento, una certa evidente perdita di senso. La presenza del pubblico non diminuita ma sempre più burocratica. Una mancanza di progettualità autentica, una relativa omologazione di tecniche e poetiche. Una certa rarefazione del nuovo, l'impressione generale del già visto. Una confusione delle diverse identità, la frantumazione degli schieramenti che fino a qualche anno fa esistevano, in una selva confusa di rapporti personali, di affinità elettive, ma soprattutto di interessi comuni. Una caduta evidente di interesse rispetto al teatro come mezzo di espressione, come luogo dove si dice o si mostra o si fa qualche cosa di vero, rispetto alla logica "oggettiva" della "impresa". Una prevalenza delle DISCUSSIONE ragioni del commercio su quelle dell'espressione artistica. L'incapacità di concepire strategie generali, di darsi compiti nuovi, di proporre punti di vista magari duramente contrapposti ma innovativi. In una parola, la stagnazione, la noia. Bisogna naturalmente andare un po' più in là di questi sintomi e chiedersene la ragione. O piuttosto le cause, al plurale, perché sono certo più d'una. Un primo punto è il ricambio generazionale non avvenuto e anzi fortemente ostacolato dalla struttura del sistema teatrale. I registi, gli attori, i direttori di teatri importanti hanno quasi tutti più di sessant'anni, e appaiono ben decisi a non lasciar campo a nessun altro fino a che ne hanno la forza. Un secondo, connesso a questo, è la scarsa o minima comunicazione di energie, temi, quadri fra teatro "ufficiale" e nuovo teatro: una rottura che ha perso buona parte dei suoi valori ideologici ma continua quasi per partito preso. Il fatto è che fino a qualche anno fa tale chiusura corrispondeva a una polemica vera, a un'inimicizia fondata su valori e su progetti; mentre oggi è solo una stanca eredità del passato, che pochi si sforzano finalmente di far saltare. Fondamentale, in questa costellazione di cause, è stato il modo in cui ha agito l'intervento pubblico. Dai tempi della fondazione del Piccolo Teatro, quarant'anni fa, le fonti principali di finanziamento pubblico del teatro, cioè l'intervento statale e quello degli enti locali e in particolare dei comuni, sono diventate assai più ricche per quantità e hanno coperto gradualmente tutti i settori teatrali. Centotrenta miliardi sono venuti al teatro nell'ultima stagione dal Ministero del turismo e dello spettacolo, che è una somma nettamente minore di quella dedicata per esempio all'opera lirica, ma certamente notevole; e una quantità di denaro difficilissima da determinare esattamente ma probabilmente dello stesso ordine di grandezza è stata spesa per la prosa da parte degli enti locali. Il finanziamento si è esteso gradualmente a tutti i tipi di teatro, in un'orgia classificatoria che ha dell'incredibile; teatri "a gestione pubblica", "metropolitani", "regionali", "d'Europa", "teatri stabili privati", "cooperative", "neoprofessionisti", "centri di promozione teatrale", teatro privato itinerante e di "esercizio", circuiti, Ente Teatrale Italiano, Istituto per il Dramma Italiano, festival, riviste, associazione critici, eccetera eccetera, per un totale di quasi ottocento soggetti di sovvenzioni durante lo scorso anno. Tutto ciò è frutto del meccanicismo perverso per cui le sovvenzioni pensate più o meno ad personam, per un teatro o un piccolo gruppo di teatri (e naturalmente sarebbe giusto chiedersi cosa c'è dietro, come si giustificano davvero queste scelte "personali"), vengono tradotte nelle circolari ministeriali che reggono il teatro in assenza di una legislazione specifica, secondo "criteri oggettivi" come giornate di lavoro, capienza delle sale, percentuali di riempimento; ma questi requisiti vengono presto raggiunti e simulati da altre compagnie escluse dal finanziamento, e allora vengono ancora moltiplicati, raffinati, complicati, fino alla biblioteca di Babele. C'è stato un lungo periodo in cui funzionava una media11

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