STORIE/BERRINI mi insegue con cento scellini per restituirmeli. L'autobus sta accelerando, rinuncerei ai miei scellini ma lei mi ferma con un ordine secco. · L'aspetto in mezzo al piazzale e guardo l'autobus che se ne va. lei mi raggiunge, mi spiega, dispiaciuta, che se voglio lasciare i cinquanta in sovrappiù va bene, ma per i cento devo firmare una ricevuta che attesta che ho pagato una multa. Per questo ho perso l'autobus, e tornati indietro scopriremo che non ci sono piu ricevute da firmare. I centocinquanta scellini sono su un tavolino e non si sa più che farne. Devo aspettare tre giorni il prossimo autobus. Io e i doganieri ci guardiamo già con l'aria di chi sta aspettando che i tre giorni passino. Ma i bianchi risolvono sempre tutto: arriva una jeep con degli olandesi, il doganiere chiede un passaggio per me, la donna mi sorride. Quando salgo sulla jeep mi mostra i centocinquanta scellini spiegandomi che li terranno loro: è il compenso per avermi procurato un passaggio. Mentre la jeep riprende la strada ci salutiamo a lungo agitando il braccio, felici tutti e tre. Il tragitto in jeep è breve, anche se basta a farmi spiegare dai cooperanti ola_ndesicome questa regione sia quasi affrancata dal potere centrale. Dovrebbe essere amministrata da una guarnigione militare che non c'è, così loro, che gestiscono uno stabilimento di lavorazione del caffè, fanno praticamente ciò che vogliono, e determinano la vita economica di tutta la regione. In alcuni casi hanno fatto anche da autorità legale, dirimendo diatribe e comminando multe. Sono così potenti, questi olandesi, che perfino l'autista del bus quando sente la jeep che suona dietro di lui si ferma e mi carica: li saluto e mi indicano la fabbrica laggiù, come fosse il loro castello. La Kagera, vista dall'autobus, appare una regione ricca: caffè, grano, la terra è tutta coltivata. È una regione fertile, bene irrigata, è anche ricca nel sottosuolo, e per questo le autorità di Tanzania, Uganda e Ruanda, i tre paesi interessati dal corso del fiume, hanno creato una agenzia interstatale per lo sfruttamento delle acque: soprattutto per la costruzione di una diga e di una centrale elettrica. Ma pare sia difficile legare fra loro regioni separate da confini di stato: non c'è nemmeno commercio, attraverso le frontiere, e questa che sto percorrendo, che è l'unica pista di collegamento tra Tanzania e Uganda, è una pista malmessa, mano a mano che avanziamo è sempre piu precaria, poco piu che una traccia. Sul bus infatti siamo rimasti in pochi, e tutti scendono all'ultimo villaggio. Dopo aver posteggiato il mezzo sotto il solito grande mango, l'autista si volta verso di me: "L'Uganda è là," mi annuncia, ribadendo così la sua autorità su questa terra di confine. Mi saluta stringendomi la mano e dice: "Torna in Tanzania quando vuoi." Davanti a me si stende una pianura che stacca col paesaggio precedente: è completamente incolta, sembra anche abbastanza arida, terra e radi cespugli. Sono otto chilometri di terra di nessuno prima del prossimo villaggio, già in UganB~ liotecaGino Bianco da. In fondo a una discesa c'è una casetta dove mi chiedono ancora una volta di aprire lo zaino. Le ultime formalità di frontiera sono però poca cosa, il problema sono ora gli otto chilometri di terra di nessuno. E so già come li passerò: taxi - bycicle. Fuori della casetta dei doganieri ci sono un paio di ragazzi con delle bici. Non mi degnano di uno sguardo. Sono io che ho bisogno di loro e non c'è niente da fare: pago il prezzo che mi chiedono, e pago in dollari. Poi partiamo in fretta perché il sole è già basso, il ragazzo pedala sulla traccia di pista sabbiosa, io sto seduto dietro, sul portapacchi, scomodo. Per otto chilometri non incontriamo nessuno. Immagino la guerra: i soldati ugandesi che attraversano questa piana isolata e arrivano alla casupola dei doganieri tanzani allibili, immagino gli abitanti del villaggio in fuga. Chissà l'autista dél bus. Ogni tanto ci fermiamo, il portapacchi mi taglia le gambe, dopo un po' penso che preferirei andare a piedi, l'aria è fresca, se solo lui portasse il mio zaino sulla bicicletta. Ma vuole sempre ripartire, il mio tassista: e come posso dirgli che non ce la faccio più, mentre pedala nella sabbia per smuovere il mio peso? Ha fretta, sta venendo buio e deve fare un altro viaggio prima di sera. Ma chi attraverserà mai questa piana, non incontriamo nessuno sulla nostra strada. Davanti a noi non vedo nulla, né villaggi né case isolate, niente di niente. Fermandoci in continuazione - lui è scontento, e mi dice sempre, andiamo, e se gli chiedo quanto manca dice che manca poco, ma io vedo solo cespugli, davanti - ci mettiamo piu di un'ora ad arrivare a una gobba del terreno dietro la quale appare il villaggio. È quasi una cittadina, ci sono tre o quattro strade perpendicolari alla nostra pista tracciate da file di case in terra e negozi di ogni tipo, con grandi insegne. C'è un bar con una scritta illuminata da lampadine rosse e gialle e blu. Mi accorgerò dopo che la maggioranza dei negozi è chiusa, ma quei pochi aperti hanno gli scaffali pieni di mercanzia, roba che in Tanzania sarebbe difficile da trovare anche a Dar es Salaam. Il tassista - si dice così? - mi scarica davanti a una sbarra bianca e rossa. Intorno a un tavolino quattro persone, tre uomini e una donna, giocano a carte. Sono i doganieri. Saluto e non ricevo risposta, la donna mi getta una lunga occhiata squadrando i miei vestiti, lo zaino. Poi guarda gli altri ridacchiando. Altra tempra dai doganierei tanzani, solo alla fine della mano raccolgono le carte, e uno si rivolge finalmente a me con l'aria di chiedermi come mi permetto di disturbare la sua partita. L'ispezione del mio zaino sarà lunga e-accurata, allietata solo dal registratore: ascoltiamo tutte le mie cassette, un brano per una. Mi impongono di comprare da loro valuta ugandese a un cambio pazzesco: eseguo. C'è un ostello lì vicino, me lo consigliano anche perché è gestito dal fratello di uno dei doganieri. Li accetto tutti, i loro consigli. Posso andare. Sono in Unganda, la Tanzania è là in fondo.
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