Linea d'ombra - anno VI - n. 23 - gennaio 1988

DISCUSSIONI &'AMBIGUA NOSTA&GIA DE&&ATOTALITA Francesco Ciafaloni L'individualismo proprietario di Pietro Barcellona, edito da Boringhieri, si aggiunge a una serie numerosa di contributi che lamentano l'alienazione universale, la crisi del mondo moderno, la fine del soggetto. Gli autori che Barcellona cita, di cui prosegue le argomentazioni, sono, ovviamente, Claudio Napoleoni, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Emanuele Severino. Gli autori fondanti, quelli citati nei libri più citati, risultano naturalmente Heidegger e Nietzsche, e, in funzione collaterale, Polanyi. Il campo specifico di approfondimento dell'argomentazione è soprattutto quello del diritto. La negatività dello stato di cose presente, o almeno la sua fondamentale, drammatica lacerazione, è per l'autore totale. È d'altra parte inutile ricordare che l'alienazione, la frattura, la perdita di identità di cui si parla sono assolute, totali. Non riguardano una classe di uomini di alcuni paesi, o un certo periodo, o alcuni aspetti della vita, per esempio l'attività produttiva, o un certo rapporto di produzione, per esempio il capitalismo, in un qualche senso definito, ma riguardano l'uomo nel mondo moderno, tutto il mondo, o, indifferentemente tutto il sistema concettuale usato per parlare del mondo, in un periodo che, per qualcuno degli autori citati (ovviamente Severino, ma anche, confusamente, alcuni degli altri) riguarda tutto il pensiero in cui il pensiero moderno si inserisce, cioè comincia almeno con i greci, forse prima. Per l'autore certo comincia, per gli aspetti che più lo interessano, con i fondatori della teoria dello stato moderno, dalla separazione tra economia e politica. A differenza dai pensatori deboli, Vattimo soprattutto, di cui condivide l'analisi, Barcellona non è contento della fine della metafisica, della trascendenza, della totalità. Anzi ogni possibile uscita dall'attuale miseria gli appare legata alla fine delle separatezze, in particolare di quella tra economia e politica, ma anche di quella tra discipline, tra individui. Barcellona quindi, per l'aspetto che riguarda più direttamente la sua professione, vede un elemento grave di crisi nella esistenza stessa del diritto come dimensione separata, nel giuspositivismo, nello stato di diritto in ogni senso. È di lì che viene la separazione tra diritto e giustizia; la fragilità del diritto e la sua separazione dalla politica o contrapposizione alla politica. Secondo Barcellona il diritto temerebbe l'autonomia da sé della dimensione politica, l'autonomia della politica. La democrazia, di per sé sarebbe incapace di decidere, presa com'è a fissare regole senza scopo e senza contenuto. L'autonomia del politico invece, l'autonomia di chi decide nell'emergenza, è di per se stessa un'autonomia al di fuori delle regole. L'universo di Kelsen non può che essere infranto da quello di Cari Schmitt. 6 Alcune delle affermazioni dell'autore sono diventate poco meno che il senso comune di una parte della sinistra. Come si vede infatti convergono nel volume alcuni dei filoni che sono stati portanti nel mondo della cultura marxista o di origine marxista. Oggi, nella crisi di queste impostazioni (da quella della "Rivista Trimestrale" a quella di "Laboratorio politico"), ciò che ieri si presentava come norma o proposta di norma oggi si presenta come dichiarazione di crisi e nostalgia. Anch'io, come l'autore, e come molti, non mi trovo a mio agio nello stato di cose presente. E non ci vogliono molti argomenti per dimostrare che c'è una crisi della giustizia in atto, almeno nel nostro paese, ma estesa, con caratteristiche diverse, anche a paesi di tradizione giuridica abbastanza lontana dalla nostra, come gli Stati Uniti d'America. Né si può negare l'evidenza della penosa rincorsa in cui tutti siamo coinvolti (tutti quelli che non sono ricchi abbastanza per poter esercitare con una qualche ampiezza la propria libertà di scelta) a produrre per poter consumare, a consumare per poter produrre. Soprattutto non si può negare la precarietà, la meschinità, dei consumi che la maggior parte di noi riesce a raggiungere; la corsa coatta alle forme accessibili di svago, fuori dalle città invivibili. Altrettanto vero mi sembra che la società di massa sbricioli l'individualismo proprietario; soprattutto di quelli che la proprietà non ce l'hanno. Sono passati i giorni delle grandi speranze. Non è facile, non è serio rallegrarsi del fatto che c'è un grande disordine sotto il sole; o del fatto che l'alienazione rompe i vincoli della vecchia società e prepara la società futura; o del fatto che la democrazia rappresentativa e l'uguaglianza formale non soddisfano né il nostro bisogno di uguaglianza sostanziale né il nostro bisogno di identità, perché tutto questo prepara il nuovo. Anche chi non ha avuto speranze irragionevoli e radiose in passato e ha sempre sospettato che il mondo è duro, soprattutto quando si muove, e urta e fa male, ma nondimeno pensava che è bene che cambi e che può cambiare per il meglio, ora comincia a temere che potrebbe persino cambiare per il peggio. Nondimeno dissento dalla maggior parte delle affermazioni specifiche di Pietro Barcellona, non condivido il quadro generale che traccia e soprattutto, cosa più imprecisa ma pù grave, temo le sue nostalgie e perciò, forse, le sue speranze. Nella opposizione al mondo moderno (preferisco chiamare così la dichiarazione di crisi pervasiva e universale e totale) colgo i segni, assai evidenti del resto, di una ambiguità. È esistito, e ha trionfato in Europa, un anticapitalismo di destra. Più precisamente è esistito e ha trionfato in Europa un movimento nazionalista, antidemocratico, antipositivista che lamentava nel mondo dell'inizio del secolo le frammentazioni, le crisi di cui parla Barcellona, che si è anche presentato come anticapitalistico. Non ne discende che tutti coloro che dichiarano l'esistenza di una crisi del mondo moderno debbano proporre le stesse soluzioni. E quindi non bisogna cadere in facili accostamenti, ma l'ambiguità esiste. Temo di appartenere al deprecabile genere di quelli che

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