STORII/DAZ.AI Il giovane tenente è sceso dalla pedana, si è tolto gli occhiali è camminando, ha lasciato che le lacrime gli scorressero sul viso. Quando si parla di solennità, ci si riferisce forse a questa sensazione. Ero rimasto fermo, in piedi, mentre all'intorno tutto diventava buio e un vento gelido cominciava a soffiare da una direzione imprecisata; avevo l'impressione che il mio corpo sprofondasse verso il fondo della terra. Pensai di morire. Era la cosa giusta da fare. Il bosco di fronte a noi era stranamente silenzioso, nero come lacca; dalle sue cime si levò senza rumore uno stormo di uccelli, simile a un pugno di semi di sesamo lanciati nel cielo. Fu proprio in quel momento. Dalle baracche che stavano alle mie spalle si udì fievole il suono di un martello che qualcuno batteva su un chiodo. Subito dopo fu come se mi cadesse una benda dagli occhi; forse è così che si dice per esprimere quello che provai in quel momento: in un attimo, la solennità, la tragedia si dileguarono ed io mi sentii vuoto, come liberato da un'ossessione demoniaca. Con la più totale indifferenza girai lo sguardo all'intorno, sullo spiazzo sabbioso nel pomeriggio estivo, senza che rimanesse in me traccia di emozione. Poi riempii lo zaino di una quantità di cose e tornai al mio paese. Q uel flebile suono di martello che si udiva da lontano; aveva singolarmente strappato da me ogni illusione sul militarismo. Da quel momento, non sarei più stato intossicato dall'incubo che mi era parso tragico e solenne, ma quel piccolo suono ha continuato a farsi sentire come se fosse penetrato fino a colpire il centro del mio cervello ed io sono diventato simile ad una persona soggetta a strane, malefiche crisi epilettiche. Non si tratta però di accessi di violenza. Al contrario. Ogni volta che qualcosa mi emoziona e sta per coinvolgermi, da una direzione non ben definita si fanno sentire, flebili, i colpi del martello e subito io mi sento vuoto, il paesaggio davanti a me si trasforma, e provo la sensazione vacua e inconsistente di restare a fissare uno schermo bianco, dove le immagini si sono interrotte bruscamente. Quando sono venuto all'ufficio postale, ho pensto che da quel momento avrei potuto liberamente studiare quello che volevo. Avrei prima di tutto provato a scrivere un romanzo e lo avrei spedito a Lei, perché si degnasse di leggerlo. Nei momenti liberi, ho cominciato a scrivere i ricordi della mia vita nell'esercito e con grande impegno sono arrivato a riempire quasi cento pagine; ormai, entro pochi giorni avrei concluso. In ·un crepuscolo d'autunno, dopo aver terminato il lavoro in ufficio, sono andato al bagno pubblico e, mentre mi riscaldavo immerso nell'acqua calda, pensavo all'ultimo capitolo che avrei scritto quella stessa sera. Avrei dovuto scegliere una conclusione di smagliante tristezza, come l'ultimo capitolo dell'Onegin, oppure un finale disperato, simile a quello di Come litigarono Ivan Ivanovic e Ivan Nikijorovic di Gogol? Pieno di esaltazione, ho alzato lo sguardo verso la blioteca Gino Bianco Tatsuya Nakadai nel film Nlngen no Joken di M. Kobayashl (1959) lampadina che pendeva dall'alto soffitto della stanza e allora, ho sentito, lontano, il rumore del martello. Subito, l'onda di emozione si è ritirata ed io mi sono ritrovato ad essere solamente un uomo nudo che, in un angolo della vasca, nella semioscurità si muoveva spruzzando acqua all'intorno. Contrariato, sono uscito dalla vasca e mentre mi pulivo le piante dei piedi ho prestato orecchio ai discorsi delle altre persone che facevano il bagno attorno a me. Parlavano del razionamento. Puskin e Gogol mi sembravano ormai privi di significato, come i nomi di qualche spazzolino da denti di fabbricazione straniera. Sono uscito dal bagno, ho attraversato il ponte e sono ritornato a casa; ho cenato in silenzio, mi sono ritirato nella mia stanza e ho provato a sfogliare il manoscritto di quasi cento pagine che era sulla scrivania. La mia stupidità mi ha sorpreso, mi ha nauseato; non ho avuto neppure voglia di distruggerlo e da quel momento, ho utilizzato le pagine come fazzoletti da naso. In seguito non ho più scritto una riga di qualcosa che potesse assomigliare a un romanzo. Nella casa di mio zio c'è una piccola biblioteca e in qualche occasione ho preso in prestito i capolavori della narrativa di epoca Meiji e Taisho, che talvolta mi sono piaciuti e altre volte non ho apprezzato; ma era un atteggiamento di totale disimpegno, come rinchiudersi in casa e andare a letto presto quando fuori c'è tempesta. Conducevo una vita che non era per nulla "spirituale". In quel periodo, guardando le raccolte di libri d'arte, non ho provato n!!ssuna emozione per i quadri dçgli Impressionisti francesi che un tempo mi erano stati tanto cari, ma, viceversa, ho concentrato la mia attenzione su due artisti giapponesi di era Genroku, Ogata Korin e Ogata Kenzan. Le azalee di Korin mi sono parse assai più belle di ogni altro dipinto di Cézanne, Manet, di Gauguin. Poco per volta, la mia vita spirituale ha ripreso fiato, ma naturalmente non potevo nutrire l'irragionevole ambizione çli diventare un maestro come Korin o Kenzan. Ero un dilettante di provincia e l'attività a cui potevo dedicarmi con tutto l'impegno era al massimo quella di stare seduto dalla mattina alla sera dietro uno sportello dell'ufficio postale a contare le banconote degli altri. Per una persona come me, priva di talento e di istruzione, una simile vita non rappresentava necessariamente una forma di decadenza. Esiste forse un diadema anche per la modestia. Forse, la più sofisticata vita spirituale consiste nell'impegnarsi con diligenza nella routine quotidiana di un impegno banale. Così, poco per volta, ho cominciato a sentirmi orgoglioso della mia esistenza quotidiana. Proprio a quel tempo, è stata decisa la conversione dello yen e anche un ufficio post1Heprovinciale di terza categoria come il nostro, per quanto piccolo e a corto di personale, è stato travolto dagli impegni. Fin dal mattino presto eravamo occupati a registrare i movimenti dei conti correnti e a bollare i vecchi yen; per quanto sta: nchi, non ci potevamo permettere un attimo di riposo ed io, in particolare, dovevo dimostare la mia riconoscenza allo zio che aveva accettato di mantenermi. Lavoravo al punto che le mani diventavano pesanti come fossero state infilate
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