Linea d'ombra - anno VI - n. 23 - gennaio 1988

LACONDICIONUMANA Ju/io Paz La condici6n humana è il titolo di una serie di opere esposte per la prima volta da Julio Paz nell'estate del 1976 alla Art Gallery lnternational di Buenos Aires, pochi mesi dopo il colpo di stato che il 24 marzo aveva interrotto la vita democratica in Argentina. In ottobre incominciò l'esilio dell'artista che si stabili a Milano, dove tutt'ora disegna, incide e dipinge. Nei suoi lavori Paz mette in scena minime avventure e storie comuni per raccontare una condizione esistenziale contemporanea i cui aspetti deprimenti si intrecciano con margini di piacere, di ricordi meravigliati, anche di libertà. Sono scene traboccanti di personaggi, di oggetti, di vicende e di sogni dove c'è qualche cattivo - quelli che vogliono mascherarsi per non farsi vedere o che non vogliono vedere le cose che succedono - e ci sono molti buoni: gli emarginati, gli sprovveduti, i diversi, gli artisti dei baracconi della periferia e dei luna-park, in cui Paz ogni tanto si identifica, forse, riconoscendo in sé come in loro i "trioni atori effimeri in un mondo di sconfitti". La condici6n humana è poi diventato anche il titolo di un 'autobiografia breve dell'artista. L'idea di partenza coincideva con la convinzione che non ci potesse essere nulla di più gratificante che scrivere una biografia inventata, magari piena di eroismi, avvenimenti drammatici, viaggistravaganti. C'è stato un periodo in cui la mente di Paz era attraversata da falsi, ricordi di una vita meravigliosa e avventurosa nel cuore dell'Africa nera. Ma quei ricordi, un po' alla volta, hanno incominciato a scolorirsi, non lasciandoglipiù mettere afuoco con precisione le tonalità cromatiche dei fiori tropicali e facendo progressivamente sfumare i rumori notturni della foresta e il gorgoglio del fiume che prima sentiva con massima precisione. La realtà era diventata troppo forte. E Paz finì per scrivere un 'autobiografia piena di immaginazione, ma non immaginaria. Antonello Negri Nell'epoca di Pav6n e Mitre io non conoscevo ancora Rembrandt né Goya né tantomeno Hogarth. A casa giungevano le storie del Cebollero, guappo a cavallo, che un giorno quasi devastò la taverna dei miei nonni a scudisciate; ricordo la rissa durante la quale mio padre un pomeriggio lo tirò giù da cavallo, e nella lotta comparvero lucenti coltelli come biglietti da visita, e l'epilogo, felice per me, in cui il guappo tornava a casa sua gettato di traverso sulla sella e la settimana dopo veniva a pagare i danni, chiedeva scusa e tendeva la mano senza rancori. Era l'epoca di Ruggerito e Barcelò, che non ho mai visto; so degli scagnozzi che vennero a minacciare mio padre con una splendida Colt 38, cromata, con la quale poi giocai fino ai quattordici anni, quando fummo costretti a impegnarla. Ai furfanti andò male e persero la Colt nello scontro. Noi, però ce ne dovemmo andare da Avellaneda. Dopo, per un po' vivemmo a Banfield, e nemmeno lì sentii parlare di Velàzquez né di Longhi. Lì conobbi Nardi, che liotecaGino Bianco

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