Linea d'ombra - anno VI - n. 23 - gennaio 1988

IL CONTESTO MUSICA QUANDOSARO'RE DISPAGNA Alessandro Baricco Jessye Norman alla Scala. Entra in scena che sembra una decorazione natalizia. Ma chissà in quale angolo d'America vive e lavora lo stilista capace di un vestito così. Chissà che faccia ha e cosa fa la sera. Chissà. Entra, Jessye Norman, e bastano le prime note e già uno si è dimenticato la decorazione natalizia; e capisce: che, è chiaro, non c'è niente oggi come oggi che equivalga l'emozione di ascoltare quella voce, niente di musicale, voglio dire, giacché ovviamente al di fuori delle sale da concerto qualcosa ancora esiste di decente, mentre invece musicalmente parlando è diverso, tanto che davvero si può dire che niente ci sia di così emozionante come quella voce, che è la voce di Jessye Norman. Uno sente una voce così (ma non è solo voce: è tecnica strabiliante, e intelligenza, e stile, e buon gusto), uno sente una voce così e capisce la follia di Filippo V, re di Spagna, che pagò una montagna di denaro per avere la piu grande voce del suo tempo affinché vegliasse lo schifo delle sue notti. Cioè, a raccontarne per intero: marciva, lui, il re di Spagna, nel suo letto di vecchio costretto a restare re e nel contempo divorato dal mal sottile della pena, vale a dire di un terrore che gli scompigliava la mente e rubava il senno: tanto che nessuno lasciava che gli si avvicinasse, e neppure per le piu necessarie necessità: marciva, insomma, in tutti i sensi, nella sporcizia e nella paura. Marciva da re. E poiché per tutta la vita l'unica cura contro quel male maledetto che per tutta la vita l'aveva accompagnato, prima in forma di lampi di depressione e poi alla fine con quella sistematicità che appunto lo fece marcire, dentro e fuori - e poiché l'unica cura era sempre e solo stata il ritrovarsi tra le cosce di una donna, una delle tante che un re può avere in quanto re, non può non saltare all'occhio il problema: a lui delle donne non glienefregava più niente. Dunque non c'era più cura per lui che, vecchio, non aveva più un desiderio, e in particolare quello che un uomo può avere in quanto uomo. Era proprio la fine, insomma. Fu lì che chiamarono il Farinelli. li Farinelli era il più grande cantante del tempo e, si dice, di tutti i tempi. La sua voce era la più bella voce tra tutte le voci di castrati mai esistite, le quali a loro volta erano le più belle voci che esistessero, in quanto, appunto, voci di castrati: una scabrosa bliotecaGino Bianco In alto: Jessye Norman (dal disco Philips Les chemins de l'amour); in basso: Sting (dal disco A&M ... Nothing like the sun). bellezza che ancora Rossini non avrà in vergogna di rimpiangere. Non so come lo si sa, ma si sa che la sua voce (sua di Farinelli) aveva un'estensione di tre ottave e una dolcezza di timbro da non crederci. E in più era capace di qualsiasi virtuosismo, e quando si parla di virtuosismo qui si parla di qualcosa che noi neppure ci possiamo immaginare. E in più, dicono coloro che lo videro in scena, sulla scena recitava: qualcosa cioè di prodigioso in un'epoca in cui i cantanti, sulla scena, quando non mangiavano o chiacchieravano con gli amici delle prime file, se ne stavano impietriti come statue, e nient'altro immaginavano di dover fare che non fosse starsene impietriti come statue: e lui, invece, recitava. Insomma era il più grande, e le folle, le piccole folle del tempo, impazzivano per lui. Così, è naturale: fu lui che la corona di Spagna chiamò, al putrido capezzale del suo re. Lo chiamò mentre se ne stava a Londra a mietere trionfi e denaro. Dicono che fosse in grado di guadagnare, là, a Londra, in un anno, in un solo anno, una cifra enorme, ma davvero enorme. La corona di Spagnà gli offrì, con burocratica esattezza, il doppio. E lui disse: va bene. E si lasciò scivolare giuda Londra fino al caldo della Spagna perché un re voleva marcire al suono della sua voce. Così lui scese in Spagna, e aveva 32 anni: ci rimase per più di venti. E questa, si badi bene, non è leggenda ma vera verità: misero un cembalo nella stanza vicina a quella del re affogato nel proprio terrore, e dissero al Farinelli di cantare, e il Farinelli cantò, fino a che la sua voce non raggiunse quel cesso di letto regale, perché certo un cesso regale era ormai divenuto quel letto con tutto quello che ci marciva dentro, lo raggiunse e successe quel che successe: che il re sollevò la testa dal suo schifo e si senti salvato. Così: salvato. Iniziò lì la storia di quei due, che ha del pazzesco: giacché ogni notte, a un'ora qualunque della notte, il re chiama- , a dal suo letto il Farinelli, ogni sacrosanta notte, perché ripetesse il miracolo: e lui, sempre, lo ripeteva. E questo ancora non sarebbe nulla, perché quello che davvero fa rimanere secchi in questa storia, quello che come se non bastasse tutto il resto ne fa una storia assurda che quasi impaurisce, e sgomenta - è questo: che per tutto quel tempo, in ognuna di quelle sacrosante notti, Farinelli cantò sempre e solo, lo si sa per certo, sempre e solo le stesse quattro arie, sempre quelle, giacché il re non voleva che quelle, e lui aveva lasciato tutto il resto del mondo per cantare per quel re e per lui solo, quindi è naturale, ogni notte ricanta-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==