Linea d'ombra - anno VI - n. 23 - gennaio 1988

IL CONTESTO CONSIGL/SICONSIGLI foto di Fulvia Farassino "BASTA,BASTAM, ERCUZIO, TUPARLIDINULLA." Grazia Cherchi Che impresa arrivare alla fine di Ne muoiono più di crepacuore (Mondadori), l'ultimo romanzo di Saul Bellow! Quasi tutti quelli che conosco si sono arresi lungo il percorso; io l'ho ultimato solo per caparbia osti~ nazione e devo dire che il frenetico cicaleccio misto a piagnisteo di cui sono intrise le sue 344 pagine ha continuato a infastidirmi per un bel po'. Non c'è cosa che stia in piedi in questo romanzo: non il plot, che non c'è, né i personaggi, sempre spiegati e commentati dettagliatamente a priori e quindi impossibilitati a vivere di vita propria, né le innumerevoli divagazioni e digressioni cui si abbandona un Bellow che sembra non aver più niente da dire e non saper più neanche come dirlo. Per riempire le sue pagine-ragnatela pare sempre sul punto di raccontarci una barzelletta: a tal punto la situazione è disperata. L'attrazione sessuale e la sessualità sono un mistero insondabile: ecco la tesi di fondo del libro, tesi non peregrina, per la verità. Ma ben più misteriosa ci riesce l'ammirazione sconfinata che il trentacinquenne protagonista narrante nutre per lo zio Benn, ammirazione che tenta in tutti i modi di trasmettere al lettore. Invano: lo zio Benn sarà un grande botanico, ma nelle vicende personali è un imbecille irrecuperabile. Dulcis in fundo, il nipote, appena l'ammira1bliotecaGino Bianco zione gli dà tregua, passa ad elencare compiaciutÒ i propri personali difetti, gaffes e fallimenti: se li gode, quasi li deliba uno ad uno, a differenza del lettore che è scocciatissimo da lui e dai tanti antieroi piagnoni, giulivi di esserlo e assai ciarlieri nel comunicarlo che ci affliggono da tutte le letterature. Un Bellow insomma, totalmente privo di quell'intelligente ironia che lo ha fatto amare per tanto tempo da tanti: qui è quasi la ca;iéatura di se stesso: "Quello là dietro, ad esempio,/uno scultore che crede di esseré Brancusi,/ non lo si crederebbe, probabilmente è Brancusi" (H.M. Enzensberger). Che sia giunto il momento di contestare la leadership degli scrittori ebrei-americani? Philip Roth, ad esempio, è illeggibile da tanti libri, ma continua ad essere recensito con guardingo rispetto. Perché si deve parlare solo e sempre bene degli scrittori ebrei, americani e non? Se questo non è razzismo alla rovescia ... Cattive notizie anche dall'Austria, e più precisamente da Peter Handke, da qualche libro ormai irriconoscibile rispetto all'autore di Breve lei/era per un lungo addio e Infelicità senza desideri. È dello scorso anno Pomeriggio di uno scrittore, ora tradotto da Guancia. Anche qui la noia artiglia il lettore, non mollandolo un istante, mentre quest'austriaco di teutonica pignoleria racconta nei più minuti dettagli un suo pomeriggio di fine autunno. Accade pochino prima che calino le sospirate tenebre, ma quel poco con quanta religiosa attenzione è annotato! Quasi Handke dovesse renderne conto davanti a un magistrato. E con che sussiego! Le 84 paginette sono lì a dirci quanto possa essere uggiosa la brevità. Giorgio Zampa conclude la recensione di questa frigida operina osservando che Handke "è forse solo uno scrittore in panne". Conclusione che è la stessa mia, enunciata però con ben altra eleganza. N.B. Dato che il 1987 ci ha lasciato, ricordo i due libri - tra narrativa e saggistica - cui dò il primato: Yasilij Grossman, Tullo scorre... (Adelphi) e Julian Barnes, li pappagallo di Flaubert (Rizzoli). AVVENTURA ROMANZOGIALLO CONAVVOCATO Andrea Aloi Implacabile nella scalata ai vertici delle classifiche americane dopo la benedizione dell' ABA, la potente associazione dei librai statunitensi, Presunto innocente, thrilling giudiziario di un avvocato di Chicago di 38 anni, Scott Turow, si è presto piazzato anche· da noi tra i più venduti in assoluto. La Mondadori per reclamizzarlo non ha lesinato al solito le iperboli e la prima tiratura di assaggio piuttosto alta (si è parlato di 40.000 copie) spiega da sola quanto la divisione libri della casa editrice di Segrate abbia puntato su questa fortunata opera prima. Successo insomma c'è stato, un successo ampiamente previsto e debitamente programmato anche se forse inferiore alle attese (la caccia di tutti contro tutti al best-seller assoluto sta facendo le prime vittime?). Facciamo subito a meno di un equivoco. li "New York Times", recensendo Presunto innocente, ne ha elogiato "l'eleganza dello stile" unita alla capacità di esprimere una "filosofia della vita" (sic!). Entrambe le asserzioni sono agevolmente falsificabili. Lo stile viaggia sul colloquiale da serial tv alla Starsky e Hutch, il tono è basso non per scelta ma per conclamata penuria di altri registri espressivi. Quanto alla "filosofia", capitombola su ovvietà tipo "solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante", oppure "viviamo molto più vicini al male di quanto vogliamo credere". Il "caso" da un punto di vista "letterario" semplicemente non esiste. Turow, che ha una lunga esperienza di prosecutor, di · pubblico ministero, alle spalle e ora lavora insieme a una guarnigione di colleghi per una corporation del patrocinio legale, parlerebbe di "non luogo a procedere". Qui non si dà romanzo. Ma crime story, uno specifico prodotto di genere che sfodera un meccanismo perfetto in quanto prevedibile - e viceversa - coups de théatre intermedi e finali compresi. Turow ci ha messo di suo una robusta cultura giuridica, esibita a ogni pié sospinto secondo la regola aurea che vuole la fiction anglosassone documentata in modo ineccepibile si tratti di mercato dei diamanti (Wilbur Smith), saghe plurisecolari (Edward Rutherfurd) o sporchi giochi di spie (Tom Clancy). Oltre che una certa destrezza nel manipolare e spendere nell'economia della storia passioni, sentimenti e flashbacks: la frequentazione a Stanford della letteratura inglese si è dimostrata alla fine per

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