più veicolo di fuga, ma è autoriconoscimento della propria condizione. I personaggi che i reclusi interpretano parlano tra loro, parlano agli spettatori dello spettacolo, carcerieri e prigionieri, e parlano a noi spettatori. Qualsiasi testo teatrale assume comunque un altro significato in carcere; ancor di più, quindi, nel caso di un'opera nata lì dentro e piena di echi che ci rimandano ad altre opere. Per quel senso di attesa, Andata eritorno potrebbe far venire in mente Aspettando Godot - senza però trasmettere quell'idea già un po' consumata di un Beckett dietro le sbarre, proprio doye, cioè, Aspettando Godot ha avuto una lunga storia. Viene subito fatto di pensare a Rick Cluchey, l'ex-forzato già condannato a vita che ritrovò, attraverso l'opera di Beckett, la sua libertà interiore, prima ancora che gli fosse concessa quella fisica. E ci si ricorda soprattutto della sua interpretazione di L'ultimo nastro di Krapp, in cui realizzava, per via esistenziale, una fase stilistica tipica dell'attore beckettiano, esemplificandola con l'evidenza della sua memoria personale. (Oppure affiorano altri paragoni: lo scorso settembre anche a Roma per la prima volta un gruppo di detenuti è uscito dalla casa di reclusione per portare all'esterno l'esito del proprio lavoro; sempre quest'autunno, nello "Spazio aperto" del Festival Cinema Giovani di Torino, l'oggetto più singolare era stato Ripresi, un montaggio di storie private ideate e realizzate in carcere da un gruppo di detenuti). A Lodi gli ospiti della Casa circondariale hanno usato il teatro come conoscenza e coscienza del percorso fatto; hanno compiuto il loro tragitto a ritroso, individuandone il punto di partenza e ricordando la strada percorsa. Andata e ritorno: per questo Santagata e Morganti (che hanno sempre tratto spettacoli stimolanti visualizzando, dall'interno, situazioni coercitive) hanno scelto questo titolo, per questo viaggio in treno fantasticato - per i protagonisti, viaggio tout court tra visi noti (quelli dei compagni, a cui lo spettacolo è dedicato e destinato) e sentimenti, più che confusi, contrastanti. È un avvenimento che rafforza l'idea che esista la possibilità di ricongiungere i due mondi; anche se ci si sono messi di mezzo permessi complicatissimi (anche per le foto, come per tutto quanto riguarda le immagini dei carcerati). Il progetto di Santagata e Morganti è comunque un passo avanti per costruire un ponte che colleghi il carcere con il mondo esterno; e va quindi continuato. Permessi permettendo. ibliotecaGino Bianco I NUMERI Riccardo Chiaberge SUQUELLIDEL'68 (dal "Corriere della Sera", 1 dicembre 1987) Ebbene sì, lo confesso: c'ero anch'io, venerdì scorso (27 novembre) a Palazzo Campana, alla festa del Sessantotto. Ci sono andato come si va alla cena dei vecchi compagni di liceo, sull'onda di una deplorevole voglia di tenerezza, rispondendo al richiamo delle canzoni dei "Nomadi": "Ma noi non ci saremo ... ". Mi sono tuffato nelle barbe brizzolate dei Che Guevara di allora, oggi rispettabili professionisti e padri di famiglia. E ho mangiato anch'io una fetta della torta con venti candeline (confezionata, manco a dirlo, da un ristorante cinese) per il compleanno dell'occupazione. Ma la mia fetta era usurpata. Non la meritavo. Perché vent'anni fa non ero dei loro, stavo dall'altra parte della barricata. Ero un giovane per bene, che voleva studiare e laurearsi, e che ai comizi di Bobbio junior, leader della contestazione, preferiva le lezioni di Bobbio senior sul Leviatano di Hobbes. Detestavo il pigia-pigia delle assemblee, il rombo dei cortei, il fumo dei lacrimogeni. Mi disturbava l'autoritarismo di certi professori, ma le avanguardie studentesche non mi sembravano meno autoritarie. Eppure, l'altra sera, una fetta di torta è toccata anche a me, e ad altri infiltrati come me. Nessun picchetto mi ha fermato sulla porta, nessuno mi ha chiesto di esibire distintivi o medaglie di ex-combattente. I sovversivi di vent'anni fa mi hanno accolto a braccia aperte. Mi·hanno laureato occupante ad honorem. Non so se debbo vantarmi dell'onorefiIL CONTESTO cenza, ma confesso che mi ha fatto piacere. È segno che gli steccati ideologici sono davvero caduti, che non ci sono più maoisti e fascisti, rivoluzionari e moderati, compagni . e non, ma soltanto ex allievi. Quanto c'è voluto per arrivare a questo, quanta strada abbiamo dovuto fare per tornare a mangiare insieme la stessa torta. Abbiamo dovuto guadare il riflusso della prima ondata, poi i'al. luvione della seconda ondata, quella che ha tradotto le.parole in pallottole. Abbiamo dovuto sopportare le opposte vergogne del partito armato e del pentitismo. L'altra sera distribuivano un volumetto di testimonianze sui giorni della contestazione. Lo apro a caso, e l'occhio mi cade su un passo di Luigi Bobbio: "Far parte del movimento significa agire in prima persona, impegnarsi direttamente per cambiare le cose: non viene riconosciuto nessun diritto di parola a chi non è presente, agli apatici, ai disimpegnati". E poi, poco più sotto: "Alla democrazia basata sulla delega, viene contrapposta una democrazia basata sulla partecipazione ... Il luogo in cui si realizza tale forma di democrazia è, all'interno del movimento, quello dell'assemblea generale, dove i partecipanti non si limitano a depositare la scheda in un'urna, ma discutono tra loro, vagliano le proposte alternative, scelgono insieme". Confesso che nel leggere queste righe la fetta di torta mi è andata di traverso. Dunque, per qualcuno le barricate sono rimaste in piedi. A qualcuno, questi vent'anni non hanno insegnato nulla. Possiamo brindare, abbracciarci, cantare insieme. Ma buon per noi, buon per tutti se quelle idee non sono andate al potere. 17
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