È questo un punto che desidero chiarire, perché chi scrive di ebrei senza aver provato sulla propria pelle l'antisemitismo, spesso in perfetta buona fede dimentica la sua esistenza e la sua capacità di fraintendere: di falsare i concetti. Ma vorrei anche spiegare perché, fermo restando il diritto di ognuno a pensare come vuole, io non credo che Primo Levi mirasse a far gridare chicchessia. Lo farò con un esempio pratico, e mi scuserete se lo estraggo dal bagaglio delle mie esperienze personali. Io ho uno zio che durante la prima guerra mondiale fu fatto prigioniero. Quando venne rimpatriato, non ricordava più nulla di sé e solo a gran fatica riacquistò la memoria di quel che era stato prima della prigionia, per farne un ponte da agganciare a quel che era divenuto dopo. Ma era anche divenuto un individuo scisso, nei periodi di crisi estraniato dalla realtà presente e come risucchiato da una realtà più forte del presente. In quel periodo lui, che non conosceva il tedesco, parlava solo tedesco, il tedesco del campo di prigionia, delle guardi e che urlavano gli ordini. E allora urlava, con violenza agghiacciante, che agghiacciava me bambina e mi faceva a mia volta urlare. Che ha forse determinato in negativo alcune mie struttu"re mentali e certo influenzato in modo limitante il mio primo scritto autobiografico. Perché chi urla fa allibire chi lo ode, e chi allibisce e urla a sua volta difficilmente medita. L'urlo diventa così, e comunica, una sorta di pallore psichico - e in casi estremi fors'anche morale - la cui diagnosi bene trapela dalle parole di Primo Levi nelle righe secondo me più pregnanti dell'intervista di Camon. Per questo io non credo che Primo parlasse piano per far urlare chi lo ascoltava, sia pure d'orrore, sia pure di dolorosa partecipazione. Legittimamente e umanamente e comprensibilmente altri scampati all'orrore lo hanno fatto in modo più o meno consapevole, non lui. Avevanò la necessità di sgravarsi l'anima da quel fardello, il dovere di testimoniare, ibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE e hanno testimoniato come era stato reso possibile alle loro gole e alle loro penne fulminate dalla violenza. Per questo forse più di lui suscitano pietà, ma proprio in questo le loro strazianti testimonianze differiscono dalla sua. Primo Levi non urlava semplicemente perché urlare non era nella sua natura, e non intendeva far urlare perché aveva udito troppe urla e visto il loro effetto su chi da quelle urla rimaneva condizionato. Se avesse mirato a suscitare le urla altrui, non sarebbe riuscito a invitare in modo tanto suadente noi tutti a una profonda e continua analisi di noi stessi e di quel che ci circonda; di noi stessi in ogni nostro presente visto come tramite fra passato e futuro; del linguaggio che nei nostri vari presenti sentiamo usare, e quindi di quello che usiamo, in modo da farne un mezzo, l'unico ragionato, pacato e quindi indispensabile mezzo - e ripeto mezzo, non arma - atto a impedire che i diversi, i diseredati, i miti, i minacciati si lascino assordare dagli insulti e dai dissennati ordini che i prepotenti urlano loro, e scambiando per colpa quello che è invece l'universale diritto di ogni singolo individuo a vivere nella più piena dignità, offrano spontaneamente la testa ai boia, oppure li imitino per aver salva la vita. È questo l'insegnamento che ci viene, o almeno che a me è venuto, dal sommesso e civilissimo linguaggio di Primo Levi. E con tanta maggior ragione Primo Levi poteva impartirlo, in quanto sapeva fino a quale estrema profondità arrivi la ferita inferta dalle grida di chi aggredisce, come pure dall'urlo di chi viene aggredito. Terribile, torturante e contaminante anche per chi debba solo ascoltarlo. E tanto più in quanto, come lo stesso Primo Levi ha detto e scritto in varie occasioni, anche se riesce a decantare la sofferenza e l'offesa e a trasformarle, come lui ha fatto, in esperienza preziosa e in insegnamento comunicabile, chi è stato insultato rimane insultato, chi è stato ferito rimane ferito, chi è stato torturato rimane torturato, e chi ne muore va ad aggiungersi alla lista degli uccisi. 13
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