GENNAIO 1988 - NUMERO 23 LIRE6.000 ' mensile di storie, immagini, discussioni
Einaudi ManuelPuig Stelledelfirmamento I sogni che modellano la vita di tutti i giorni nel teatro d'un maestro della narrativa sudamericana. A cura di Angelo Morino. «Supercoralli», pp. v-165, L. 18 ooo AlbertoSavinio Hermaphrodito L'enigma metafisico, il tema del vuoto, l'impegno surreale nel primo libro di Savinio. Con una nota di Gian Carlo Roscioni. «Nuovi Coralli», pp. 258, L. 14 ooo CarlosDrummond deAndrade Sentimentodelmondo La voce piu alta della poesia brasiliana in trentasette poesie scelte e tradotte da Antonio Tabucchi. «Collezione di poesia», pp. x-134, L. 9000 GianfrancoC ntini Ultimiesercizi edelzeviri Gli scritti 1968-1987: l'espressionismo letterario, Gadda, gli elzeviri, le varianti, gli epicedi. pp. rx-408, L. 55 ooo DonataLevi Cavalcaselle Ilpionieredellaconservazione dell'arteitaliana All'indomani dell'Unità d'Italia, un grande conoscitore affronta i problemi della conservazione e dello studio della pittura italiana. «Saggi», pp. L-450 con 81 illustrazioni fuori testo, L. 50 ooo JeromeKagan Lanaturadelbambino La biologia dello sviluppo, il ruolo dell'ambiente: una serrata revisione critica di molti miti sul bambino. Traduzione di Igor Legati. «Saggi», pp. XVII-300, L. 30 ooo PeterBrown Lasocietàeilsacro nellatardaantichità I santi, gli asceti, i veggenti, l'arte e.la letteratura, gli uomini e i luoghi in cui l'invisibile e il visibile s'incontrano sulla terra. Traduzione di Liliana Zelia. «Paperbacks», pp. vn-284, L. 34 ooo Teatro Le sorelle,ovveroCasanovaa Spa di Arthur Schnitzler esce nella versione di Claudio Magris per la collana« Scrittori tradotti da scrittori» (pp. X-II7, L. 9000). Nella «Collezione di teatro» La scuoladellemogli di Molière, a cura di Cesare Garboli (pp. IX-88, L. 7500) e Amadeus di Peter Shaffer, nella traduzione di Masolino d'Amico (pp. VI-112, L. 8500). FilosofidelNovecento acuradiEckhardNordholen Wittgenstein, Popper, Lévi-Strauss, Heidegger, Jaspers, Arendt, Bloch, Horkheimer, Adorno: in nove ritratti la vita, il carattere, il pensiero dei maggiori filosofi del nostro secolo. Traduzione di Anna Maria Marietti. «Pbe», pp. xII-199, L. 14 ooo H.Bente N.I.Bucharin Inefficienzaeconomica organizzata L'economia burocratizzata nellaGermaniadiWeimar Per la prima volta in italiano la stesura integrale del testo di Bucharin in cui, sulla traccia del saggiodi Bente, si critica la centralizzazione burocratica di Stalin. A cura di Alfredo Salsano. «Nuovo Politecnico», pp. XXVII-265, L. 15 000 DanielNelson Taylor elarivoluzione manageriale Lanascitadello,scientilic management, La biografia del banditore dell'impresa moderna, alfiere dell'organizzazione e della cultura tecnica nell'industria americana. Traduzione di Guido Pelosi. « Biblioteca di cultura storica», pp. xm-262, L. 28 ooo Letteratura it liana direttadaAlbertoAsorRosa Storiaegeografia 1. L'etàmedievale La genesi e la formazione della letteratura volgare: i centri, i flussi, e le intersezioni. pp. xvr-624 con 40 illustrazioni, fuori testo, L. 75 ooo
From Canby to Costa-Gavras, from Fonda to Fassbinder, from Sarris to Semprun ~-------- CS\)ec\a\O\\et Save 20% with this coupon LakeView Press . P.O. Box 578279 Chicago, IL 60657 The Cineaste Jnterviews are among the best source documents I know of in film. Pithy information direct from the filmmakers. lnvaluable. -James Monaco Author, American Film Now Cineaste has advanced the art and the politics of the interview beyond any film journal. These interviews form an essential record of the art and the politics of filmmaking in our time. - Robert Sklar Author, Movie Made America ISBN 0-941702-02·2 (Hard) Lisi $25.00 0-941702-03-0 (Soft) Lisi $11.95 Please send me____ Hardcover copies at $20.00 _____ Softcover copies at $9.50 (Payment in U.S. dollars on a U.S. Bank) Name _______________ _ Address ______________ _ City/Postal Code ____________ _
Direi/ore Goffredo Fofi Direzioneediloriale Lia Sacerdote Gruppo redazionale Adelina Aleni, Giancarlo Ascari, Mario ·Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Alfonso Berardinelli, Paolo Benineni, Gianfranco Benin, Franco Brioschi, Marisa Caramella, Cesare Cases, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Stefano De Maneis, Bruno Falceno, Fabio Gambaro, Piergiorgio Giacché, Giovanni Jervis, Filippo La Porta, Gad Lerner, Claudio Lolli, Marco Lombardo Radice, Maria Maderna, Luigi Manconi, Danilo Manera, Edoarda Masi, Santina Mobiglia, Maria Nadoni, Antonello Negri, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli, Bruno Pischedda, Roberto Rossi, Franco Serra, Marino Sinibaldi, Paola Splendore, Gianni Turchena, Emanude Vinassa de Regny, Gianni Volpi. Progello Grafico Andrea Rauch/Graphiti Ricercheiconografiche Fulvia Farassino, Nino Perrone Pubblicilàseuore edi1oriale Emanuela Merli Via Giolini, 40 - 10123 Torino Tel. 011/832255 Hanno inol1recollaboraloa queslo numero: Pasquale Alferi, Antonio Aliverti, Francesco Cavallone, Paola Costa, Vincenzo Coninelli, Fulvio Ferrari, Giorgio Ferrari, Oriena e Gianni Guaita, Pilin Hut1er, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Paolo Mereghe11i, Stefano Morelli, Grazia Neri, Oreste Pivella, Luca Rastello, Emanuela Re, Michele Valdivia, Barbara Venturini, Terenzio Vergnano, Luca Zevi, gli Eredi Carpentier, l'Archivio fotografico de "L'Unità", la casa editrice E/0, le librerie Feltrinelli di via Manzoni, Milano Libri e La nuova corsia di Milano. I saggi e intervenlidi caraueresciemijico vengonopubblicali con il concorso del "Progello CulturaMontedison". Editore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Tel. 02/6690931-6691132 Fo1oco111posi~ione e monlaggi multiCOMPOS snc Distribu~ionenelle edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Telefono 02/8467545-8464950 Distribuzionenelle librerie POE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (Ml) - Tel. 02/4473146 LINEA D'OMBRA mensile di storie, immagini,discussioni lscrina al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direnore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo 111/700/o Numero 23 - Lire 6.000 Abbona111e111i Abbonamento annuale: 1TALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscrilli non vengono restituiti Si risponde a discre::.ionedella redazione. Si pubblicano poesie solo su richiesta. N.B. - Dei testi di O. Dazai e P. lagerkl'ist pubblirnti in ques10numero ci è swto i111po.t1-ibile rintracciare i detentori dei dirilli. Ce ne scusiamo dichiarandoci pronti ad ottemperare ai nostri obblighi. UNEA D'OMBRA anno VI gennaio 1988 numero 23 Sommario EDITORIALI 4 Cesare Pianciola 6 Francesco Ciafaloni 8 Goffredo Fofì 11 Giacoma Limentani IL CONTESTO li "principio di minoranza" L'ambigua nostalgia della totalità Le lettere di Panzieri Primo Levi e il rifiuto dell'urlo 14 Riviste (M. Cuminetti), Cinema (P. Bertinetti), Teatro (M. Maderna), I numeri (R. Chiaberge), Consigli/Sconsigli (G. Cherchi), Avventure (A. Alai), Musica (A. Baricco, M. lorrai), Lettere (C. Samonà), Antologia(/. Calvino, A. Guglie/mi), Dai lettori (M. Sola), Di lato (M. Onorati). POESIA 37 59 Jon Juaristi Fernando Pessoa STORIE 32 39 45 66 73 75 Julio Paz Osamu Dazai Pdr lagerkvist Giovanni Giudici lstvàn Orkény Andrea Berrini Poesie Poesie La condici6n humana li suono del martello Tre racconti Racconti sportivi Racconti Frontiere. Due racconti NARRARELASCIENZA 60 Gernot Bdhme INCONTRI 54 Art Spiegelman SAGGI 25 48 56 Alejo Carpentier Christoph Tiircke Giovanna Tomassucci La finalizzazione della scienza a cura di Silvano Custoza Topi, galli, maiali a cura di Franco Serra Sul real meraviglioso americano Su questo tacciono tutti. Tabù e antinomia nel nuovo dibattito sul Terzo Reich Sansone a Varsavia La copertina di questo numero è di Julio Paz 0~'f.:. AL~~ 79 80 Pro memoria Gli autori di questo numero '? «'a O BIBLIOTECA h1 3 GINOBIANCO~ Y", ~ *
DISCUSSIONE IL 11 PRINCIPIO DI MINORANZA'' Cesare Pianciola Vorrei svolgere qualche riflessione di carattere generale a partire dalla situazione particolare in cui mi trovo coinvolto, e cioè dalla scuola. Come tutti sanno, due sono le questioni che hanno maggiormente agitato le acque stagnanti dell'istituzione: i paradossi connessi all'insegnamento della religione cattolica (IRC) e l'esplosione del malessere degli insegnanti in aperta ribellione contro le centrali sindacali "maggiormente rappresentative". Apparentemente non c'è un nesso tra i due fatti. Le demarcazioni che si sono prodotte nei due casi sono diverse: i sindacati si sono divisi sull'JRC (per esempio la CISL si è schierata a sostegno del personale che insegna religione, la CGIL ha appoggiato attivamente i Comitati per la laicità della scuola); si sono compattati invece tra di loro e anche con lo Snals contro i comitati di base. I Cobas, sostanzialmente salarialisti, non si sono occupati in quanto tali dell'IRC. Eppure un filo che lega i due eventi c'è: nell'un caso e nell'altro si tratta di far valere il diritto al dissenso e come anche si potrebbe chiamare "il principio di minoranza" contro pretese totalizzanti di diversa natura. Non sarà inutile ricordare tre punti. Il primo è che se la democrazia si basa sul "principio di maggioranza", il rispetto delle minoranze e il diritto a comportamenti difformi da quelli della maggioranza nelle materie attinenti alla sfera delle libertà è storicamente la premessa stessa dello sviluppo della democrazia ed è permanentemente aspetto essenziale del suo esercizio reale (e non solo "formale"). In secondo luogo, ciò diventa tanto più urgente nell'attuale costituzione materiale delle democrazie di massa, con la caratteristica tendenza di forze di parte (partiti, sindacati) ad assumere consociativamente un ruolo totalizzante di apparati di Stato per l'assicurazione del consenso e per l'appropriazione dei vantaggi del sistema attraverso la loro spartizione negoziata (in modo palese e sotterraneo). Terzo: è tanto più rilevante poi in un paese come l'Italia nel quale storicamente la tradizione libertaria e garantista è stata estremamente esile rispetto a ben più corpose presenze di organicismi e integralismi di varia matrice politica e ideologica. La vicenda dei referendum è a questo proposito significativa. Mentre si fa un gran parlare di pluralismo politico e di complessità sociale, la possibilità di essere minoranza (implicita nelle regole elementari del gioco democratico) suscita nelle forze politiche democratiche un tale orrore da spingerle ad aggregarsi e a scoraggiare con ciò stesso la formazione di espressioni differenziate nell'opinione pubblica. Il sistema dei partiti sembra da lungo tempo impegnato soprattutto a evitare che si delineino alternative definite nella società civile. Nessuna forza politica tra quelle che contano vuole rischiare di essere effettivamente minoranza, reale forza di 4 opposizione. Nei ruoli stabiliti dalla democrazia consociativa, vogliono essere tutte, come "maggioranza" e come "opposizione", forze di governo. Ma torniamo alle questioni scolastiche e in particolare al1'insegnamento della religione cattolica. C'è il Concordato del 1984, fiore ali' occhiello socialista, ma approvato da tutti i partiti che contano, sempre in nome del non creare "pericolose" divisioni nel tessuto della società civile, dell'essere tutti, ciascuno a suo modo, forze di governo (del sociale). Con il nuovo Concordato la religione cattolica non è più religione di Stato; ma lo stato "tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano" (da intendersi probabilmente in senso giobertiano) assicura l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado (compresa la materna, dove vengono introdotte due ore di religione che prima non c'erano). C'è però anche il diritto di avvalersi o non avvalersi di tale insegnamento senza che la "scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione". È sempre stato chiaro al comune intelletto che l'unico modo di non effettuare discriminazioni è che l'IRC sia al di fuori. del normale orario scolastico, insegnamento facoltativo per chi ne ha fatto richiesta, e non dentro il normale orario scolastico come insegnamento opzionale, con connesso obbligo di altro insegnamento (le cosiddette attività alternative) per chi non segue le lezioni di religione cattolica. Questa è anche la sostanza della sentenza del TAR del Lazio del 17 luglio in seguito a un ricorso sostenuto dalla Tavola valdese (in tutta la questione i valdesi si dimostrano bravissimi: la legge 449/ I984 che regola i rapporti tra lo stato e le chiese rappresentate dalla Tavola valdese è un monumento di spirito laico). Nel senso delineato dalla sentenza del TAR del Lazio si profila nel settembre un accordo parlamentare che Galloni traduce in una bozza presentata alla Commissione istruzione della Camera. La tragicomica sequenza degli eventi è ben nota: intervento pesantissimo della Conferenza episcopale italiana, urlo di dolore del papa, passo diplomatico della Santa Sede, .rapida marcia indietro del governo Goria, Craxi che si.candida a mediatore e interlocutore privilegiato del Vaticano, bizze senza costrutto dei laici minori, capitolazione vergognosa con dichiarazione conclusiva di un arruffato dibattito parlamentare che evita accuratamente l'aggettivo "facoltativo". Si farà una legge per disciplinare le attività alternative (a quanto pare, per colmo di ironia, saranno suggeriti i "diritti umani" come religione sostitutiva per eretici e non credenti). L'unico punto su cui probabilmente ci sarà una modifica dell'Intesa Falcucci-Poletti attuativa del Concordato riguarderà un assetto meno rigido dell'IRC nella scuola materna, magari come merce di scambio per l'assunzion_e degli insegnanti di religione in pianta stabile. Come ha fatto rilevare più volte Filippo Gentiloni, di fronte all'alternativa di essere riconosciuta quale realmente è, minoranza in un contesto ampiamente secolarizzato, la Chiesa cattolica non vuole rinunciare a essere fittiziamente mag-
gioranza, grazie alla rendita di posizione che le garantiscono lo stato italiano e le forze politiche cui fa gota il voto cattolico. D'altra parte cos'altro ci si può aspettare da Woytila che viaggia in jet per ogni dove, indossa tutti i costumi folkloristici del mondo, si associa ai culti più svariati, compare a tutte le televisioni, e si propone come leader planetario della rinascita del sacro? La Chiesa cattolica, come si evince anche dai nuovi programmi di religione tempestivamente approntati e dal loro commento ufficiale, si propone ai genitori credenti e non credenti come risposta al vuoto di valori paventato nei giovani, come depositaria del senso nel deserto che cresce, "come collante sociale, morale e culturale per tutti gli italiani" (F. Gentiloni). È la religione del 92,6%, indipendentemente dalle convinzioni personali dei componenti una così vasta e presumibilmente eterogenea maggioranza. Siamo ancora e sempre al buon Gioberti, per il quale la Chiesa è la "sin_tesisuprema" e il "comignolo dialettico" dell'edificio moderno: "che cos'è infatti la civiltà, se non la disciplina cosmopolitica del cristianesimo in ordine alla vita terrestre e alla temporale felicità degli uomini?" (si rileggano le belle pagine sull'argomento in Lo Curto e Themelly, Gli scrittori cattolici dalla Restaurazione all'Unità, Letteratura italiana Laterza, Bari 1976). Va però sottolineato che il giobertismo cattolico trova forza e alimento nel quadro deteriorato della democrazia consociativa, con la sua caratteristica ostilità al "principio di minoranza". Di fronte alla BibliotecaGino Bianco Assemblea nazionale dei Cobas della scuola a Roma, il 15 novembre 1987 (foto Ansa). DISCUSSIONE pretesa di mettere a tacere le minoranze e di forzare al consenso in nome del "principio di maggioranza" occorre tenere ben vivo il senso dei suoi limiti. "Tutte le costituzioni liberali", ha scritto Norberto Bobbio, "sono caratterizzate dall'affermazione di diritti dell'uomo e del cittadino che vengono detti 'inviolabili': ora l'inviolabilità consiste proprio in questo, che essi non possono essere limitati e tanto meno soppressi da una decisione collettiva anche presa a maggioranza ... La vasta sfera dei diritti di libertà può essere interpretata come una specie di territorio di frontiera, di fronte a cui si arresta la potenza del principio di maggioranza" (La regola di maggioranza: limiti e aporie, in "Fenomenologia e società", 1981, n. 13-14, dedicato interamente al tema "La democrazia e il principio di maggioranza"). E visto che stiamo citando concludiamo con un classico: "Abbiamo, adunque, con la Chiesa e coi preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi" (Machiavelli, Discorsi, I, 12). Non ho mai spiegato in classe Machiavelli con tanto gusto come quest'anno. 5
DISCUSSIONI &'AMBIGUA NOSTA&GIA DE&&ATOTALITA Francesco Ciafaloni L'individualismo proprietario di Pietro Barcellona, edito da Boringhieri, si aggiunge a una serie numerosa di contributi che lamentano l'alienazione universale, la crisi del mondo moderno, la fine del soggetto. Gli autori che Barcellona cita, di cui prosegue le argomentazioni, sono, ovviamente, Claudio Napoleoni, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Emanuele Severino. Gli autori fondanti, quelli citati nei libri più citati, risultano naturalmente Heidegger e Nietzsche, e, in funzione collaterale, Polanyi. Il campo specifico di approfondimento dell'argomentazione è soprattutto quello del diritto. La negatività dello stato di cose presente, o almeno la sua fondamentale, drammatica lacerazione, è per l'autore totale. È d'altra parte inutile ricordare che l'alienazione, la frattura, la perdita di identità di cui si parla sono assolute, totali. Non riguardano una classe di uomini di alcuni paesi, o un certo periodo, o alcuni aspetti della vita, per esempio l'attività produttiva, o un certo rapporto di produzione, per esempio il capitalismo, in un qualche senso definito, ma riguardano l'uomo nel mondo moderno, tutto il mondo, o, indifferentemente tutto il sistema concettuale usato per parlare del mondo, in un periodo che, per qualcuno degli autori citati (ovviamente Severino, ma anche, confusamente, alcuni degli altri) riguarda tutto il pensiero in cui il pensiero moderno si inserisce, cioè comincia almeno con i greci, forse prima. Per l'autore certo comincia, per gli aspetti che più lo interessano, con i fondatori della teoria dello stato moderno, dalla separazione tra economia e politica. A differenza dai pensatori deboli, Vattimo soprattutto, di cui condivide l'analisi, Barcellona non è contento della fine della metafisica, della trascendenza, della totalità. Anzi ogni possibile uscita dall'attuale miseria gli appare legata alla fine delle separatezze, in particolare di quella tra economia e politica, ma anche di quella tra discipline, tra individui. Barcellona quindi, per l'aspetto che riguarda più direttamente la sua professione, vede un elemento grave di crisi nella esistenza stessa del diritto come dimensione separata, nel giuspositivismo, nello stato di diritto in ogni senso. È di lì che viene la separazione tra diritto e giustizia; la fragilità del diritto e la sua separazione dalla politica o contrapposizione alla politica. Secondo Barcellona il diritto temerebbe l'autonomia da sé della dimensione politica, l'autonomia della politica. La democrazia, di per sé sarebbe incapace di decidere, presa com'è a fissare regole senza scopo e senza contenuto. L'autonomia del politico invece, l'autonomia di chi decide nell'emergenza, è di per se stessa un'autonomia al di fuori delle regole. L'universo di Kelsen non può che essere infranto da quello di Cari Schmitt. 6 Alcune delle affermazioni dell'autore sono diventate poco meno che il senso comune di una parte della sinistra. Come si vede infatti convergono nel volume alcuni dei filoni che sono stati portanti nel mondo della cultura marxista o di origine marxista. Oggi, nella crisi di queste impostazioni (da quella della "Rivista Trimestrale" a quella di "Laboratorio politico"), ciò che ieri si presentava come norma o proposta di norma oggi si presenta come dichiarazione di crisi e nostalgia. Anch'io, come l'autore, e come molti, non mi trovo a mio agio nello stato di cose presente. E non ci vogliono molti argomenti per dimostrare che c'è una crisi della giustizia in atto, almeno nel nostro paese, ma estesa, con caratteristiche diverse, anche a paesi di tradizione giuridica abbastanza lontana dalla nostra, come gli Stati Uniti d'America. Né si può negare l'evidenza della penosa rincorsa in cui tutti siamo coinvolti (tutti quelli che non sono ricchi abbastanza per poter esercitare con una qualche ampiezza la propria libertà di scelta) a produrre per poter consumare, a consumare per poter produrre. Soprattutto non si può negare la precarietà, la meschinità, dei consumi che la maggior parte di noi riesce a raggiungere; la corsa coatta alle forme accessibili di svago, fuori dalle città invivibili. Altrettanto vero mi sembra che la società di massa sbricioli l'individualismo proprietario; soprattutto di quelli che la proprietà non ce l'hanno. Sono passati i giorni delle grandi speranze. Non è facile, non è serio rallegrarsi del fatto che c'è un grande disordine sotto il sole; o del fatto che l'alienazione rompe i vincoli della vecchia società e prepara la società futura; o del fatto che la democrazia rappresentativa e l'uguaglianza formale non soddisfano né il nostro bisogno di uguaglianza sostanziale né il nostro bisogno di identità, perché tutto questo prepara il nuovo. Anche chi non ha avuto speranze irragionevoli e radiose in passato e ha sempre sospettato che il mondo è duro, soprattutto quando si muove, e urta e fa male, ma nondimeno pensava che è bene che cambi e che può cambiare per il meglio, ora comincia a temere che potrebbe persino cambiare per il peggio. Nondimeno dissento dalla maggior parte delle affermazioni specifiche di Pietro Barcellona, non condivido il quadro generale che traccia e soprattutto, cosa più imprecisa ma pù grave, temo le sue nostalgie e perciò, forse, le sue speranze. Nella opposizione al mondo moderno (preferisco chiamare così la dichiarazione di crisi pervasiva e universale e totale) colgo i segni, assai evidenti del resto, di una ambiguità. È esistito, e ha trionfato in Europa, un anticapitalismo di destra. Più precisamente è esistito e ha trionfato in Europa un movimento nazionalista, antidemocratico, antipositivista che lamentava nel mondo dell'inizio del secolo le frammentazioni, le crisi di cui parla Barcellona, che si è anche presentato come anticapitalistico. Non ne discende che tutti coloro che dichiarano l'esistenza di una crisi del mondo moderno debbano proporre le stesse soluzioni. E quindi non bisogna cadere in facili accostamenti, ma l'ambiguità esiste. Temo di appartenere al deprecabile genere di quelli che
DISCUSSIONE "Non è esistita nel passato un'età dell'oro della totalità, della comunità, della fede. È esistito invece, ed è stato dominante nella cultura del novecento, il totalitarismo." hanno bisogno di date e luoghi per dare senso ad affermazioni sulla società. Mi riesce difficile rimpiangere le possibilità mitopoietiche insite nella irraggiungibilità geografica dei luoghi presi a esempio e guida (Cina, Russia, Vietnam, Cuba; p. 89) che del resto erano visitabili facilmente anche venti anni fa. Sono di quelli che distinguono i fatti sociali dalle teorie sulla società e hanno un definito interesse alla diffusione geografica delle teorie e delle culture. Sono quasi totalmente diverso dall'autore. Qui farò un breve elenco dei dissensi maggiori. Dissento dalla costruzione artefatta di un passato di libertà, di piena individualità e comunità rispetto a cui si manifesterebbe la crisi attuale (e recente, perché la maggior parte degli esempi non sarebbe valida per l'Italia degli anni cinquanta e sessanta). " ... è scomparso il soggetto dell'esperienza ... , essendo ormai l'esperienza fatalmente racchiusa nel cerchio delle molteplici possibilità che sono date all'interno delle strategie di1 azione messe a disposizione dal sistema sociale e giuridico", sostiene l'autore. lo fatico a immaginarmi un'epoca o un luogo in cui questa affermazione non sia stata vera, salvo l'ovvia minore ampiezza delle "molteplici possibilità" che per alcune classi sociali ed epoche poteva restringersi alla possibilità di morire di guerra o di fame. Come del resto accade ancora oggi in buona parte del mondo, in cui sarebbe difficile sostenere che il valore d'uso si sia dissolto in valore di scambio come l'autore sostiene per varie pagine soprattutto nel terzo capitolo, sulla scia di Gianni Vattimo. "Nell'epoca nella quale la critica più corrosiva ad ogni principio di autorità ne ha svelato la mancanza di ogni fondamento metafisico e di ogni legittimità trascendente, è inevitabile che anche l'ordine sociale appaia contingente e artificiale, privo di qualsiasi riferimento a un ordine naturale iscritto una volta per tutte nell'armonia del cosmo". Certo, ma è una scoperta un po' antica, con cui gli uomini sono abituati a convivere da vari secoli. Senza scomodare addirittura Socrate ·e Antigone, anche Ibn Kaldoun e Machiavelli lo avevano capito. E non necessariamente l'averlo capito porta al caos; alle belve umane o alle belve bionde. Le etiche universalistiche, storiche e kantiane, sono un prodotto di uomini che sanno che "ogni comando è per sua natura arbitrario" e che perciò hanno inventato i sistemi politici rappresentativi, e le autorità delegate e gli equilibri dei poteri. L'alternativa che si apre agli uomini è un po' più complicata di quella tra il principio del capo o la religiosità astratta dello stato o la società segmentale e il caos della guerra di tutti contro tutti. " ... l'autonomia dell'economico su cui si regge la modernità non è un fatto naturale (come ce l'hanno rappresentata i primi pensatori) ma il prodotto di una decisione politica, della scelta politica di dar vita a una società nuova". Certo, l'autonomia dell'economico non è un fatto naturale. Ma se "i primi pensatori" sono l' Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali e della Ricchezza delle nazioni e colleghi circonvicini, non hanno provato affatto a raccontarci la favola Biblioteca Gino Bianco della separatezza, del resto sempre solo parzialmente vera, anche nel pieno trionfo dello "individualismo proprietario", ma hanno cercato di ritagliare una sfera concettuale che consentisse una qualche oggettività e quindi una qualche uguaglianza e simmetria. Può esserci molta oppressione, c'è stata molta oppressione e molta morte in nome degli stati etici e delle comunità. Come ce ne sono state in nome del profitto, del resto; da cui un secolo e mezzo di movimenti socialisti, che qualcosa hanno pur prodotto. L'esistenza di una sfera di diritti, la possibilità di nop regolare i rapporti solo sulla parentela e sulla forza sono una faticosa costruzione. Occorrerebbe rispettarne i fondamenti. Lo stesso Polanyi, citato dall'autore quasi come unica fonte sulla necessità di riimmettere la politica nell'economia in forme più flessibili del dominio totale dello stato pianificatore, è stato un calcolista. Ha proposto forme di contabilità del socialismo gildista (la libertà in una società complessa) ed è stato alla fin fine battuto sul suo terreno da altri che teorizzavano il rinnovato dominio della politica con valori e principi opposti ai suoi. Giovanni Gentile, Alfredo Rocco e Ugo Spirito hanno scritto qualcosa in materia. Il trattato di Ugo Spirito, allora direttore della scuola di economia corporativa a Pisa, sul suo specifico soggetto comincia con una irridente e polemica presa di distanza rispetto all'artefatto della separazione dell'economia dalla politica e dallo stato. Odon Por, che di Polanyi era parente e sodale, prima di approdare in Inghilterra, ha scritto articoli finiti in qualche antologia del pensiero fascista. "In casi estremi della nascita e della morte, che prima sembravano avvenimenti del tutto privati, nel senso dell'individualità e dell'intimità, oggi sono oggettivati e regolati sin nei dettagli" ci spiega l'autore. Ariès (Storia della morte in occidente) non la pensa proprio così e presenta la privatizzazione della morte come un fatto eminentemente moderno. Né la pensava diversamente l'Ernesto de Martino di Morte e pianto rituale nel mondo antico. Del resto nell'Abruzzo dove sono nato la ritualità pubblica della morte ha retto ben dentro gli anni cinquanta, forse anche negli anni sessanta e settanta. Potrei dire che, per via della natura profonda di queste cose, che difficilmente si lasciano rivedere per letture e studi, qualcosa di quella concezione arcaica del morire ce la devo avere anch'io in testa e, per quanto mi riguarda, forse durerà fino a che anch'io finirò in polvere. Un ultimo dissenso, in certo modo minore, ma tuttavia fondamentale. Fin dalla prima pagina dell'introduzione l'autore ci avverte: "Non c'è più storia, non c'è motore, il processo è ormai - come si afferma anche in campo marxista - un processo senza soggetto né fine". Per la verità se il processo è oggi senza motore, per l'autore citato, Althusser, lo era anche ieri. Né ad Althusser né a Barcellona dovrebbe essere consentito di passare così disinvoltamente dai concetti alle cose, dalla teoria dei processi ai processi. Se "la democrazia nega la possibilità di una volontà collettiva che assoggetti i singoli e che sia diversa dalla loro volontà", come sosteneva Kelsen, citato a p. 62, è vero perché ha la data 7
DISCUSSIONE di inizio in quella del suffragio universale, perché con il suffragio comincia la democrazia e non perché Kelsen lo ha detto allora. E se Barcellona pensa che "l'affermazione del principio democratico" apre così l'epoca della "dismisura", in quanto eliminazione di ogni soggetto in senso forte (eroico, prometeico ecc.) titolare di un potere normativo, di un sapere ordinante di una misura "universale" generale può avere torto, anche sulle date. Perché non necessariamente deve essere un soggetto il titolare della norma; la norma può esistere, o essere posta, o concordata al di fuori di lui, o di loro; e perché non necessariamentee i soggetti in senso forte sono_ eroici, prometeici. I cafoni che scappavano davanti agli armigeri di Bonifacio di Canossa, poco dopo il mille, dubito che lo facessero per via del suo essere eroico e prometeico, e così anche tutti gli infiniti cafoni che si sono piegati agli eserciti e agli armigeri dei re e ai bracci secolari degli inquisitori. Quella dell'individuo prometeico che produce la norma è una teoria, non un fatto e, in quanto a questo, è, nella forma citata, una teoria recente. Per concludere. Non è esistita nel passato un'età dell'oro della totalità, della comunità, della fede. Anche nelle epoche in cui erano più diffusi i valori tradizionali, lo erano sempre in classi, aree e periodi assai frammentati. Si ricordi il Peasants intrJFrenchmen di Eugen Weber, e l'interà opera di Puesch. È esistito invece, ed è stato dominante_ nella cultura del novecento, il totalitarismo. Ogni nostalgia della totalità rischia perciò di presentarsi come nostalgia del totalitarismo, e richiede una esplicita considerazione degli autori che ne furono i profeti e qualche volta i ministri. Si legga una recente (ultima, per ora, in italiano) raccolta di scritti di Cari Schmitt, che anche nella prefazione illustra bene il facile passaggio tra totalità e totalitarismo. Non ci sembra quella la strada d'uscita dai problemi dello stato di cose presenti. Ma allora come si comincia? Per esempio studiando e accettando la pluralità senza rinunciare a cambiarla, anche se non come soggetti assoluti. È stato pubblicato di recente da Comunità un libro di Luciano Gallino che raccoglie sotto il titolo Della ingovernabilità numerosi saggi su questi problemi pubblicati negli ultimi anni o inediti. Il quadro di riferimento usato, che ha certo un impianto di base funzionalista, ospita però ampiamente la disfunzione e il conflitto, la molteplicità degli schemi di riferimento usati dai vari gruppi o individui o dagli stessi gruppi e individui in differenti occasioni, la possibilità di un'azione razionale, ovviamente limitata dalla materialità del mondo e dalle eredità culturali, ma non evanescente. In sostanza il volume prosegue, certo con minori ambizioni di unità e forza interpretativa, il lavoro dei Kelsen o dei Keynes o dei Myrdal. Non è un libro ottimistico, anzi, a volte, sembra un libro disperato, se l'aggettivo non suona troppo drammatico per un autore così dotato, forse troppo dotato, di senso della misura. Ma al lettore serve per orientarsi un po' meglio. B lioteca Gino Bianco Penso che, se si vuole mutare lo stato di cose presente, non si possa che procedere così, senza correre troppo rapidamente a sintesi o denunce assolute; senza aspettarsi illuminazioni o soluzioni assolute. Non siamo disperati solo per le parol~, che usiamo per parlare de_llasocietà e_~el m?ndo; e non c e parola che possa toglierci dalla cond1Z1one m cm siamo. Meno che mai la totalità. LE LETTERE DI PANZIERI Goffredo Fofi L'importanza della figura e dell'opera di Raniero Panzieri nella storia della sinistra italiana e nella nascita della nuova sinistra, tra gli anni della guerra e i primi anni Sessanta, non è piu da dimostrare; ma sembra ormai riguardare soltanto gli stocici, e i ricordi e le opinioni di intellettuali militanti, o ex tali, di certe generazioni. Gente d'età. Il lavoro di Stefano Merli, curatore prima presso Einaudi e poi presso Marsilio delle opere di Panzieri, e ora, in collaborazione con Lucia Dotti, dell'epistolario (Lettere 1940-1964, Marsilio, pp. 430, L. 55.000), giunge a rinverdire i ricordi, forse anche le polemiche, e a gettare nuova luce sulla personalità e sulle opinioni di uno dei piu appassionati e acuti protagonisti "minoritari" della nostra storia politica. · Tessitore di ricerche e di gruppi, fondatore e direttore dei "Quaderni Rossi" e nel suo lavoro editoriale (documentato da Luca Baranelli ~roprio su "Linea d'ombra") propositore di molte, moltissime cose nuove e importanti della cultura internazionale filosofica ed economica, sociologica e politica degli anni di grandi trasformazioni (fine della guerra fredda, "neocapitalismo") - Panzieri ha scritto bensi relativamente poco e non amava in particolare scrivere lettere. Per questo è ;isultato difficile spiegare, negli anni dei movimenti, le ragioni della sua importanza a chi non avesse avuto la ventura di conoscerlo. Queste Lettere sono una buona occasione per accostarsi a Panzieri, e permettono oltre a ciò di capire forse meglio conflitti e dilemmi di una lunga stagione. Si tratta di una consistente parte di storia della sinistra: il PSI quando era ancora partito del proletariato; poi l'incubazione e vita dei Quaderni rossi, e la fine di questo gruppo-rivista diviso nei due tronconi detti allora dei "sociologi" (rivendicanti la conoscenza della classe e delle sue trasformazioni nell'intervento e nella lunga scadenza) e degli alleati, almeno provvisoriamente divisi in "settari" e "politici". Non mi pare che la generazione dei Quaderni abbia resistito efficacemente alla prova del tempo. I destini dei membri del gruppo non sono forse esemplari, e hanno finito per assomigliare a quelli di molti altri intellettuali, tra università e centri del potere politico, sindacale o partitico ma comunque molto "istituzionale". Piu in ombra e smortini i "sociologi"; mentre sono diventati leader sciaguratamente fa-
mosi come Toni Negri i "settari", iperorganizzativisti, "avanguardia" della classe, giu giu fino a deformare nel modo piu grottesco la parola e il concetto dell'autonomia operaia; e ben insediati nel CC del PCI o nel CC di "Repubblica" altri come Tronti e Asor Rosa, tornati presto agli ovili e convinti della loro funzione di possibili consiglieri dei principi, in realtà di scarsa influenza, se non come (il secondo) predicatori da quei pulpiti elevati e sorretti per ben precisi Ìnteressi proprio da quel capitale che tanti anni fa intendevano vigorosissimamente contribuire a distruggere, loro e la "Classe". Ci si è chiesti spesso, tra coloro che Panzieri hanno conosciuto e frequentato, che cosa avrebbe fatto Panzieri, che ne sarebbe stato di lui - per esempio nei cruciali '68 e '69 - se non fosse morto cosi giovane, a 43 anni, nel 1964. Stefano Merli avanza nella prefazione alle Lettere una risposta che ci sembra la meno convincente di tutte: quella di un suo ritorno .;1llatradizione con la quale i Quaderni avevano, grazie a lui, cosi radicalmente rotto, della sinistra (anche socialista) istituzionale. Che Panzieri fosse troppo intelligente per considerare chiuso ogni dialogo con la sinistra istituzionale e col sindacato, non c'è motivo di dubitarne; ma che potesse rientrarvi, come nelle ipotesi di Merli e nelle convinzioni di Merli e Libertini, beh, ci permettiamo davvero di dubitarne. È piu probabile che egli avrebbe continuato a svolgere in altri modi, forse con altre persone ancora, la sua funzione di "Socrate socialista", come lo chiama Merli, in un certo BibliotecaGino Bianco Raniero e Pucci Panzieri a Roma, negli anni '50. DISCUSSIONE difficile equilibrio tra le molte trappole che hanno fatto degli eredi dei Quaderni qualcosa di variamente mediocre, quando non sconcertante. Ma non è qui il punto, anche se ricostruire una vicenda storica che appare oggi lontanissima ai suoi stessi sopravvissuti è certo importante per capire meglio da dove veniamo, chi eravamo e che cosa siamo diventati. Tra i destinatari di queste lettere figurano, oltre i citati, Ernesto De Martino, Fortini, Bobbio, Nenni, Montaldi, Guiducci, Giovanni Pirelli, gli einaudiani "merluzzi lessi in frigorifero", eccetera, oltre ad alcuni membri dei Quaderni, in sostanza i non torinesi perchè con i torinesi non c'era bisogno di scriversi. Quel che appare in verità ormai lontanissimo è proprio il discorso politico di fondo; e solo l'insistenza panzieriana sull'inchiesta, il suo privilegiamento della componente "sociologica" del marxismo su quella politica dei suoi cultori di allora, idealistica o "terzina", fideistica e ovviamente "scientifica", può far pensare a una presenza agente di Panzieri oltre quegli anni, qualora egli non fosse morto. Ma resta il fatto che troppe cose sono cambiate perché queste dispute possano sembrare attuali. Il proletariato di fabbrica, la "classe", ha avuto dure batoste ed è, nelle sue forme piu "classiche", marginalizzato; ma soprattutto, ha lottato per il benessere, e non per il socialismo; la società vede oggi composizioni corporative cui rispondono interessi diversi mediati dalla politica e dai sindacati; la prepotenza dei mezzi di comunicazione di massa ha inverato molte previsioni orwelliane, anche se non nei termini di 1984; e ancora ricordiamo, alla rinfusa, ché c'è solo da scegliere, la distanza tra primi e terzi mondi; la massima internazionalizzazione di un capitale sempre piu finaziario; le nuove tecnologie e la rivoluzione elettronica e computeristica; il fallimento dei movimenti o il loro recupero, e il recupero in primis di quelli giovanili, degli stessi giovani (mai come oggi cosi vecchi e beati); il fallimento perfino di quei leader "terzini" che dei movimenti hanno in vario modo tentato il recupero e la egemonizzazione, nonostante successi piccoli e provvisori sulle loro "avanguardie"; i nostri sventurati anni Settanta; la progressiva distruzione della natura e, sì, l'insieme di cose definibile come "l'atomica'' (l'ipotesi concretissima di "fine del mondo"). Sono tutti elementi di una trasformazione rapida e allora, nei primi Sessanta, imprevedibile. O forse, piu che imprevedibile, di una incomprensibilità e oscurità determinata oltre che da vivaci dati di fatto "positivi" splendidamente analizzati da certo Panzieri, da altri piu sotterranei sui quali non si era capaci di approfondire lo sguardo proprio per il peso della tradizione marxista e partitica, dell'idealismo su "capitale" e ''operai''. Vediamo, per esempio, la tipicissima reazione di Panzieri ad Anders documentata da una lettera a Tronti del 18 dicembre 1962. In essa si riferisce di un incontro-scontro dei Quaderni Rossi con Giinther Anders al centro Go betti di Torino, dopo la pubblicazione di Essere o non essere di Einaudi, incontro organizzato da Renato Solmi. Anders è per Panzieri "quello che sostiene che ormai siamo tutti alienati, 9
DISCUSSIONE non dal capitale ma dalla bomba atomica. Come vorrei descriverti la scena di questa riunione dei QR con quest'ultima incarnazione, quasi suprema, dell'ideologia borghese! E le facce di Romolo e di Monica e la cattiveria di Rieser ("Mi hanno riferito che in Giappone la lotta contro la bomba la fanno perchè è una lotta antiimperialistica e anticapitalistica")". Quel tanto di "settario" che il gruppo aveva in sé, e che diventerà esplosivo in alcuni suoi membri scissionisti; quel tanto di "logica m-1" che portò un altro membro del gruppo a intitolare la prima raccolta di scritti di Panzieri dopo la sua morte col titolo alquanto tronfio di La ripresa del marxismoleninismo in Italia, sembra essere in questo caso dello stesso Panzie.ri. Va ricordato peraltro che la lettera in questione è tutta difensiva: Panzieri ha subito le critiche aggressivissime della parte trontiana alla sua linea, e cerca di tenere insieme il gruppo, prima di convincersi che non c'è piu nulla da fare assistendo alla compenetrazione delle posizioni estremistiche alla "gatto selvaggio" con quelle del!' "entrismo di massa" trontiano, e di prendere atto di una inconciliabilità ormai totale tra chi sostiene il metodo dell'inchiesta, e cioè il rapporto con la realtà vera della classe e non con i suoi idoli, e i feticisti dell'organizzazione col loro vecchio vezzo (falsa coscienza lenin-stalinista) di considerarsi essi stessi avanguardia della classe tout court. La reazione ad Anders è il segno di qualcosa di piu profondo, che ha naturalmente le sue giustificazioni (il pensiero di Anders può certo avere i suoi limiti) ma che rivela anche tutto il ritardo, in generale della sinistra, nella valutazione dello stato delle cose successivo alla seconda guerra mondiale, dei grandi cambiamenti che erano intervenuti e stavano intervenendo nell'economia e nella società. Nel nome di Marx si sono compiuti è noto, misfatti terribili, per esempio quelli staliniani; ma nonostante la destabilizzazione e il rapporto Kruscev, per i militanti della nostra sinistra non è stato facile liberarsi del mito sovietico e bolscevico e della logica della Terza Internazionale, sempre con la paura di "buttar via il bambino con l'acqua sporca". Marx era "la scienza", e se Panzieri è meritoriamente tra coloro che piu hanno cercato di disideologizzare e "debolscevizzare" il pensiero marxiano puntando sulla parte che ne considerava piu duratura e proficua, pure anche lui pensava e viveva l'idea assai chiesastica di un "noi" (marxisti) diversi dagli altri e portatori della verità, nonostante lotte e faide che ben conosceva nell'interpretazione di quella verità e nella sua messa in atto. Non posso ricordare cosa dicesse Anders quella famosa sera, ma c'è il libro a disposizione, e altri scritti di Anders di allora per immaginarlo; e credo oggi che Anders fosse piu vicino alla verità, col suo pensiero critico e antifideistico, di quanto non lo fossimo noi. E rimpiango, personalmente, il molto tempo perduto da chi, come me, non veniva dalla "scienza" o dalla sinistra istituzionale, non il tempo, tutt'altro che perduto, per rendersi noto e accettabile quella sorta di super-io barbuto, ma quello per prendere sul serio la scienza di classe dichiarata dai suoi seguagi, dei cui discorsi la IO mia esperienza del sociale in altri campi che quello della fabbrica, ma anche negli immediati dintorni della fabbrica, mi faceva modestamente e empiricamente pensare che non fossero del tuttò nel vero, e che la loro settaria rigidità finisse per tradire, oltre che verità d'altra larghezza e ambito, forse anche (questo lo penso oggi) la stessa "sostanza" di Marx. Sottoposta ai fuochi di fila di cui dietro, la visione fideistica del marxismo si è squagliata come neve al sole (ultime a resistere e difenderla, a parole almeno, furono proprio le piu sfrenatamente soggettive delle "avanguardie di classe": i "maoisti" degli infimi gruppetti da un lato, e gli autonomi dall'altro), cosi come si è squagliata la "Classe", peraltro tradita da piu parti, e tradita a volte perché mal valutata. Mentre che "l'ideologia borghese" di Anders appare piu attuale che mai, e molto poco "borghese". Prendendo a cardine del suo pensiero Auschwitz e Hiroshima, Anders ha colto una realtà oggi ineluttabile, che riguarda tutti e tutto, perché riguarda il futuro stesso dell'uomo e della natura. Solo a partire da questa considerazione si possono reinvestire di significato parole come "lotta antiimperialistica e anticapitalistica", di cui non vedo la contraddizione con l'analisi e il progetto di intervento che possono dipartirsi da Auschwitz (punto estremo, se mai ve ne furono, della "razionalità capitalistica") e con Hiroshima (punto estremo, se mai ve ne furono della logica imperialista). Il Marx della nostra gioventu era ancora per gran parte fatto di Terza Internazionale (dunque di Lenin), però per fortuna anche di "sociologia" e filosofia di ricchissime implicazioni, di immensa utilità conoscitiva, ma era un perno troppo centrale e dominante, e soprattutto troppo fatto di "leggi", per poter servire, ieri come oggi, a interpretare tutto, e tantomeno a darci indicazioni d'azione e di lotta definite. Ci serve e ci servirà ancora moltissimo; ma ci servono anche altri pensatori, altre scuole, altre esperienze; e soprattutto ci serve un radicalismo (alla Anders, perché no?) di cui i suoi sostenitori, ufficiali e non, avevano perduto ogni sentore cosi come oggi si sentono di rinunciare pressoché tutti alla stessa qualifica di "marxisti". Il molto che abbiamo appreso da Panzieri fa parte di una storia nel bene e nel male chiusa, si direbbe definitivamente. Bisogna ripartire da altre storie, da altre lezioni, probabilmente per una lunga fase di incertezza e sincretismo retta bensi dalla coscienza di certi irrinunciabili valori e, panzierianamente, da un "metodo" - quello della con ricerca e inchiesta, quello della verifica in una "base" che non è piu classe ma che, in modi nuovi e complessi, pure continua ad essere anche classe. E che si trova molto piu altrove che non nel mondo sviluppato del capitalismo, trionfante anche grazie al consenso dei suoi proletari.
PRIMO LEVI E IL RIFIUTO DELL'URLO Giacoma Limentani Sento il dovere di iniziare confessando che parlare del- !' Autoritratto di Primo Levi curato da Ferdinando Camon mi è tutt'altro che facile. La mia non è una confessione tanto per mettere le mani avanti, nel caso in cui quel che dirò non dovesse piacere. Parlare di questo libro mi è difficile, perché mi è oggettivamente difficile parlare di Primo senza cedere all'emozione. Ma anche ammesso che io riesca a mantenermi del tutto serena e distaccata, considero pur sempre difficile fare un discorso di largo respiro su un libro, per altro peculiare nel suo genere, che in appena settanta pagine stampate in corpo tipografico piuttosto largo, affronta argomenti di peso tutt'altro che irrilevante quali: la colpa di essere nati, l'indiscriminato potere dei pochi sui molti, quella che Levi chiama la stella gialla cucita sulla pelle e cioè il suo essere ineluttabilmente ebreo, la nascita d'Israele, perché uno scrittore scrive, e così via. Argomenti che fanno parte integrante della tematica generale di Primo Levi, e trovo giusto che chi ha seguito le pagine dei suoi libri o molti articoli da lui concessi a giornali e riviste, ricerchi qui da solo, per procedere da solo a un raffronto ed eventualmente a una rimeditazione. Sento però la necessità di soffermarmi su una questione che mi è balzata agli occhi fin da quando li ho posati sul titolo di questo libro, e che ha continuato a pormisi davanti in modi diversi, per diverse ragioni e dalle differenti angolazioni di ognuno degli argomenti qui trattati: la questione del linguaggio, o, per essere più precisa, una complessa e sfaccettata questione di linguaggi diversi in rapporto fra loro. Fino a che punto il linguaggio suo, degli altri, oppure quello da lui usato quando ha dovuto o voluto farsi tramite per gli altri, fosse importante per Primo Levi, o meglio, quanto sia diventato sempre più importante a mano a mano che le sue parole di testimone si andavano trasformando in vena di romanziere, lo dice lui stesso a pag. 67 del libro:"Mentre non m'interessava affatto il problema della lingua quando scrivevo Se questo è un'uomo, la questione della lingua ha cominciato a interessarmi sempre di più man mano che andavo avanti nello scrivere, fino a diventare dominante nella Chiave a stella, che è un libro sperimentale, e anche in quest'ultimo libro, Se non ora quando, che mi ha posto dei problemi linguistici, perché si trattava di far parlare in italiano, di tradurre in italiano, un discorso putativo in polacco o in russo o in yiddish, e io non conosco né il russo né il polacco e molto male lo yiddish; sicché ho dovuto studiarmelo e me lo sono studiato: ho studiato yiddish per otto mesi, fino a poter dare a questi personaggi una parlata italiana che suonasse plausibile come versione. Non so se il lettore italiano medio si acccorge di queste cose." BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE Io credo di no, o almeno penso che quasi nessuno in Italia sia in grado di notare questo tipo di sfumature, ma c'è .chi le ha notate negli Stati Uniti. In una intervista fattagli da Philip Roth e uscita su "La Stampa" nel novembre del 1986, sempre Primo Levi dice infatti: "Il lettore americano si è accorto di un fatto vero, che cioè si tratta di un libro )id scritto da un autore che )id non è, ma che ha cercato di diventarlo studiando testi e ascoltando racconti." Ebbene, malgrado la tiepida accoglienza avuta in America e pur onestamente riconoscendone le legittime motivazioni, Primo Levi non rinnega questa sua opera, realizzata con il dichiarato fine di "rendere omaggio a quegli ebrei che in condizioni disperate avevano trovato la forza e l'intelligenza di restistere ai nazisti. È per render loro omaggio presentandoli a un mondo che molto raramente ne ha sentito parlare che si fa romanziere. Si fa romanziere per poter fornire all'ignaro lettore italiano medio informazioni sul loro conto, tramite la godibile struttura narrativa del romanzo e col miglior linguaggio da romanzo yiddish che gli riesce di ricreare. Pur se ancora non dichiaratamente romanziere, da tempo - e fors'anche da sempre - Primo Levi è però narratore oltre che testimone, e in quanto tale sa che la narrazione, ce l'ha egregiamente insegnato Walter Benjamin, non mira, come l'informazione, a comunicare il puro in sé dell'accaduto, ma lo cala nella vita del relatore, per farne dono agli ascoltatori come esperienza. A me sembra che questa distinzione di Benjamin si attagli in modo speciale a ogni pagina scritta da Levi: ogni sua pagina mi appare come il risultato della sua triplice esperienza di testimone - quando non addirittura di cripto-protagonista - di decantatore e di narratore. A proposito della sua attrazione per la parola narrante, Camon dice che forse, anche senza l'esperienza del lager, Levi sarebbe stato lo stesso uno scrittore, e lui risponde: "Naturalmente non ci tornerei, però, accanto all'orrore di questa esperienza, che sento ancor adesso, non posso negare che essa abbia avuto anche risultati positivi. Lì mi pare di avere imparato a conoscere i fatti e gli uomini." E li conosce al punto di sapere quanto sia grave emettere giudizi indiscriminati. Quando infatti Camon ripetutamente lo tenta a esprimere una generica condanna nei confronti della Germania e del popolo tedesco nel loro insieme, spesso addirittura anticipandola, per rispondere fa uso di distinguo storici, culturali e psicologici, e sia sul piano privato che su quello pubblico. Cito: "I tedeschi di Goethe non erano così. La Germania ha cominciato a deviare in questa direzione più tardi." Oppure: "Questo suo giudizio così drastico sui tedeschi a partire dai Germani, io sinceramente non credo di condividerlo. Tutti i giudizi generali sulle qualità intrinseche, innate di un popolo, mi sanno di razzismo." E ancora : "E vero che mi sono astenuto dal formulare giudizi in Se questo è un uomo. L'ho fatto deliberatamente perché mi sembrava inopportuno, anzi importuno, da parte del testimone, che sono io, sostituirsi al giudice." 11
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