Linea d'ombra - anno V - n. 22 - dicembre 1987

DISCUSSIONE "li 'laicismo' di Alberoni traspare dalla scelta di una media difficoltà del linguaggio, della media cultura dei riferimenti, della selezione di un mediocre comportamento e mediocri casi nel mezzo preciso del vasto ceto medio ... " Nel caso del libro di Alberoni, dunque, la filza di note e giudizi sul costume, hanno l'effetto di rivelarci (tutte e troppe, insieme) qualcosa sul filosofo e censore. Certamente non tanto su di lui personalmente, ma, pur restando sotto la copertura del suo ruolo, ci fanno intravedere il senso intimo di quel ruolo. Come se l'incarico e l'attività non fossero tutta struttura e facciata, ma anche "anima": è questa la zona privata che pare venire alla luce. È il ruolo che si tradisce e mette a nudo qualcosa di soggettivo e intanto di generalizzabile, per quanti altri svolgono un compito simile. Per fare un esempio consideriamo una costante. Non può essere un caso se i capitoli intitolati al "chiasso", alla "volgarità", al "linguaggio osceno", alla "maldicenza", e infine l'intera parte dedicata alla "violenza nascosta" è densa di tardivi rimproveri verso (e di falsate memorie su) un ancora indigesto Sessantotto. Non può certo trattarsi di un'animosità personale ancora non sopita. E nemmeno nel rammarico di non potersi considerare un "pentito". Certe acrimonie e certi quadri foschi, i toni e i fatti tipici di un esagerato scandalismo, ricordano i cronisti di destra del tempo, tutti intenti a descrivere o supporre le orge, i vandalismi, i deliri degli "studenti dell'occupazione" (come da canzone d'epoca). Non può nemmeno motivarsi con la supposizione (per davvero tanto ingenua quanto retrò) di un lettore del "Corriere", così datato e così nostalgico, da gradire un autorevole ristabilimento di Verità e Valori, da parte del sociologo in voga (nemmeno mettendo nel conto il gusto di riscattare una materia di così sinistra memoria). No. Non può essere una personale e ritardata polemica con quei giovani "che negli anni Sessanta si credevano perfetti". Piuttosto è la necessità "privata" del ruolo di censore, commentatore, corsivista, che ha bisogno di rintracciare e usare un "cattivo esempio". Che deve regredire finché ne trova a sufficienza, e sufficientemente comprensibili al grande pubblico. È il bisogno di tener vivo il ricordo (non importa quanto veritiero) di un "cattivo tempo" da contrapporre a questa attuale e rilassata età, forse non dell'oro, ma almeno dèll'argenteria. E si ha il vantaggio di poter colorire efficacemente il confronto, se si adopera un esempio e un tempo di riconosciuto estremismo. Si costruisce con maggiore facilità ed economia una breve parabola, un azzeccato proverbio. Ma ancora, perché il corsivista di turno e di lusso ha bisogno di parabole e.proverbi? Che ci rivela questo, sull'anima, del suo ruolo? Un mio amico da qualche tempo ha azzardato un paragone fra giornalisti e preti. Trovo ancora ingeneroso questo raffronto, per i preti ovviamente. Eppure è vero che le funzioni del consenso, della consolazione e naturalmente dell'informazione, sono passate in mano ai nuovi piccoli funzionari della scrittura del giornale. Così come è vero che (eccettuata un'ora di scuola) "non c'è più religione!". In effetti, applicando la similitudine proposta al libro delle operette morali di Alberoni, così come alle note quotidiane del folto gruppo di politologi di pregio, giù giù fino ai croBibIiOÌeCaGino Bianco nisti di rango, sembra di poter scoprire qualcosa di più di una somiglianza di funzione. Fra prete e giornalista si verifica una strana coincidenza, anche all'apparire di quella che abbiamo definito l'immagine "privata" del ruolo pubblico. Se si rispolvera le vecchia cultura anticlericale e si recupera quel Prete, aggettivo con la maiuscola, che si affibbiava alla vista di un atteggiamento di inganno paterno, di ipocrita commiserazione, di interesse meschino, ci si accorge che quel Prete raffigurava appunto uno dei caratteri "privati" del comportamento in pubblico. E in tante penne, quotidiane e infaticabili costruttrici di buon senso spicciolo, di calcolata moderazione, di falsa comprensione, si indovina la somiglianza con quel Prete, dalla mano di pesca e la parola di mela... Strana è piuttosto l'ostinazione di qualunque "giornalista" nel definirsi "laico" (fino a sperare che "laico" e "giornalista" divengano sinonimi), o meglio nell'edificare il laicismo come atteggiamento del pensiero. C'è un ardore (e un potere) tutto clericale in questo. L'indiscutibile laicismo di Alberoni traspare da molte serie preoccupazioni. "In medio stat omnis" è come un motto araldico: vale per la scelta di una media difficoltà del linguaggio usato, della media cultura delle citazioni e riferimenti, per la selezione di un mediocre comportamento, per la mira con cui sono scelti i casi narrati e i lettori ideali, nel mezzo preciso del vasto ceto medio, ecc. Arriva fino a suggerirci l'immagine di qualcuno che vuol dare mediatamente ragione alla media ragionevolezza; che talvolta sembra volersi fer, mare nel mezzo di un ragionamento; che arriva all'assurdo di non aver mezzi fini, perché ai fini ha senz'altro sostituito i "mezzi", in tutti i sensi, anche in quello di "metà", al posto di "mèta". Quella che sembra la preoccupazione e l'amore per la dialettica, potrebbe non indicare una scelta di campo, ma un metodo necessario per l'applicazione pignola della mezza misura. Ogni quadretto descrive non tanto lo scoppio di una contraddizione, ma si muove leggero sul campionario di cento frivoli quotidiani conflitti. La coppia è quindi onnipresente, ma non perché terreno ostinato di una competenza specifica dell'autore (come starebbero a dimostrare i libri precedenti): non è più, prima di tutto, il luogo o il simbolo di una elementare ma fondamentale relazione umana. La coppia (certamente "uomo-donna", ma anche di ogni altro genere e astrattezza) è la basilare situazione, perché possa avvenire un semplice e matematico confronto. Un confronto, e perfino un contrasto, ma non troppo eccessivo o volgare, che surroghi, e faccia dimenticare, la più forte e paleopolitica "contraddizione"; che si possa assumere come una dolce antinomia, quasi un poetico ossimoro, per sostituire o attutire la rumorosa, antiquata dialettica. La pedagogia a presa rapida di un quotidiano si può interessare solo di conflitti garbati, che non devono riassumere o simboleggiare le contrapposizioni più drastiche o drammatiche, scartate per questioni di funzionalità o di 7

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==