Linea d'ombra - anno V - n. 22 - dicembre 1987

Giorgio De Chirico, Autoritratto (1922). quel che dice lo dice come qualcosa che, benché sembri strano, rasenta una certa fanciullesca innocenza, sempre in tono dimesso e con il garbo di un simpatico maggiordomo d'altri tempi, a servizio in un castello abitato da spettri. E benché certo sia persuaso di quello che afferma, mentre lo afferma sembra soltanto che giochi. Se ha tempo di leggere? No, solo "Il Messaggero" al mattino, e appena ha un momento libero, riprende i suoi, di libri. A proposito, di buon grado egli mi regala una copia di Ebdòmero, un romanzo metafisico scritto a Parigi intorno al 1930. "Una cosa straordinaria, modestia a parte" è il suo commento, "e forse non tanto un vero romanzo quanto un insieme di cose udite, lette, immaginate, viste, una specie d'intreccio che sembra non avere una logica e invece ce l'ha, superiore a Joyce come stile, dichiarato il più bel romanzo della letteratura moderna dall'illustre critico e scrittore francese Edmond Jaloux". Rilegge spesso anche i saggi che scrisse sui vari pittori ("addirittura sublimi quelli sulla pittura italiana antica", ma non è lui a dirmelo questa volta; a vantarmeli sarà poco dopo una celebrità nel campo dell'arte), su Previati, Courbet, Raffaello e Bocklin. Già, Bocklin lo aveva colpito molto da ragazzo, per quel suo lato poetico e strano che gli è particolare. Poi però immerso nello studio della pittura-pittura, egli s'allontanò da Bocklin, andando verso forme più concrete, capendo che la poesia e il mistero della vera pittura sono superiori alla poesia e al mistero d'un soggetto anche se molto indovinato e addirittura sorprendente. È il momento delle bibite che, armeggiando tra cristalli, argento e ghiaccio, egli amministra con gentilezza e perizia, a me, al fotografo e a se stesso ("Poserei volentierissimo per un dagherrotipo, pur d'averlo mi farei legare alla sedia, un'ora, anche un'ora e mezzo, al giorno d'oggi non è proprio possibile?"). Lui beve vermut liscio, due dita e basta. Falsa è la reputazione che gli hanno affibbiata, d'essere goloso e specialmente di dolci. Ai dolci caso mai preferisce la buona salumeria. Mangia volentieri soprattutto la pastasciutta e il riso conditi bene, poi erbaggi, insalate cotte, con olio e limone, e si sa, una bella spigola va sempre bene. "Capisco la buona tavola e il buon vino, me n'intendo anzi di tutte e due le cose, ma da anni vado sul liscio, mangio sano e bevo poco". Però gli piace andare in un buon ristorante e una delle ragioni per cui ama Milano (oltre al fatto che è una città piana e non si deve continuare a salire e a scendere come a Roma) è che ci sono buoni ristoranti, buoni alberghi, buoni caffè. Gli piace tanto il centro che una certa Milano manzoniana con insospettati cortili e giardini nascosti, e anche la campagna che circonda Milano la trova più romantica di quella intorno a Roma. Inutile aggiungere che ama la Scala, dove lo incontrai sul principio dell'estate, la sera davano Gli Ugonotti, opera che gli piace enormemente, per via di quel suo particolarissimo ritmo eroico-sentimentale. ("Eccomi vestito da Ugonotto" e mi segnala un altro suo autoritratto, col solito mento sfuggente e la solita smorfia di grave coribIiOÌeCaGino Bianco STORIE/CEDERNA ruccio sotto il cappello grondante di piume, e ha il giustacuore nero e frequenti ombre grige sul viso di madreperla). "Ha notato però che mi ritraevo ogni volta che sul palcoscenico c'erano scontri o massacri?." E De Chirico si confessa molto impressionabile, non può sopportare la vista di persone vinte o sopraffatte. ("Quei pezzi di Ugonotti chi sa perché cadevano come mosche"). Per la stessa ragione al cinema teme soprattutto le scene di violenza e di tortura, i ragazzacci che si accoltellano, le donne trattate male. Adora invece i film comici, gli piace ridere a crepapelle ("Solo gli stupidi non ridono mai"), alla peggio si contenta di sorridere. Il suo ultimo sorriso è per se stesso, per la sua ostinazione superstiziosa nel portare il braccialetto giapponese contro i dolori artritici. "Sono come George Sand che diceva: Non credo ai fantasmi, ma i fantasmi mi fanno paura". Il suo braccialetto lo sente fare tic tic e qualche altro misterioso rumorino sul polso, perché forse si carica con l'elettricità del corpo, comunque il primo giorno che se l'è messo, ha preso la febbre calabro-sicula. Anche con Lamartine infine è abbastanza d'accordo, anzi con quei suoi versi per la verità troppo semplici e non belli, che dicono: "Prions, si !es ciels sont vides nous n'offensons personne - s'il y a quelqu'un, qu 'il nous prenne en pitiè''. E su queste parole, maestosamente tranquillo, mi fa ripercorrere all'indietro il suo spettacoloso museo casalingo, quadri metafisici e· romantici, classici e naturalisti, le figlie di Apollo che staccano i cavalli dal carro del padre, due corazze su un tavolo (''una gran bella pittura, guardi come si sente il metallo!"), il ritorno del cavaliere al castello, Faust nella prigione di Margherita con Mefistofele sullo sfondo che sguaina la spada, Cristo che cade sotto la croce, la moglie così amorosamente svestita, lui stesso in raso pizzi e velluti, finché sulla porta, sotto la luce elettrica che illumina la stanza tenuta ben difesa dal sole, è ancora il gran pesce d'argento di prima, così grosso, pallido, le occhiaie che fanno da livide branchie, la bocca che sembra avere appena lasciato l'amo. Qui manca il suo autoritratto da cefalo, ma appartiene forse a qualche collezione privata. 63

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