STORIE/GALLAGHER "Da bambini giocavamo a un gioco che si chiama Lebbra: uno di noi aveva la lebbra e cercava di passarla agli altri rincorrendoli e toccandoli." messo? Perché mi tortura così?" Catlin è il gallerista che cura le opere di Jerome. Di solito è un tipo coscienzioso, ma da qualche tempo si è fatto un'amante e ha avuto dei problemi in famiglia. "Sono certa che c'è qualche buona ragione per cui non ti ha ancora chiamato", l'ho rassicurato mentre tentavo di pulirmi le mani sporche di farina: quando è squillato il telefono stavo impastando una crostata. Mi sono incastrata il ricevitore tra la spalle e la testa e ho continuato a stendere la pasta col mattarello mentre lo ascoltavo. Jerome riescesempre a rendersi isterico per cose che la maggior parte della gente si scrollerebbe di dosso con un'alzata di spalle. Invece Jerome non dà mai niente per scontato. Per lui non esistono azioni involontarie. Se qualcuno non lo chiama o non risponde a una sua lettera, per lui la spiegazione è una e una sola: lo si sta ignorando intenzionalmente e con malevolenza. E così continua a tormentarsi con tradimenti immaginari - al punto che le sue angosciate telefonate sono diventate oggetto di scherno tnt i nostri comuni amici, uno dei quali si vanta addirittura di tenere sempre le parole incrociate a portata di mano per passare il tempo durante gli interminabili sfoghi telefonici di Jerome. Anche mio marito ha un atteggiamento abbastanza ostile nei confronti delle fobie e dei tormenti di Jerome. "Diglielo che nessuno lo può più vedere. A chi può venir voglia di chiamarlo?" ha gridato mio marito e poi si è rinchiuso in camera oscura sbattendo la porta. Come ho già detto, abitiamo in un posto bellissimo e questo fatto crea delle inspiegabili tensioni nella nostra vita. "Senti, Jerome", gli ho detto, "vedrai che gli è successo qualcosa. Sai benissimo che Catlin è una brava persona, animata dalle migliori intenzioni. Ricordati che ha attraversato un brutto periodo e ancora non ne è del tutto fuori. Forse non riesce ancora a star dietro agli affari come dovrebbe". "Su questo ci puoi scommettere!" ha esclamato lui. "M'a non è una scusante. Sono stufo delle loro rotture, delle influenze e delle visite ai parenti. Ma non la passerà mica liscia!" Mi è sembrato che a questo punto battesse il pugno su qualche cosa, ma proprio in quel momento ho udito una terribile gragnuola di colpi vicino a me che ho scambiato per le martellate dei carpentieri, allora mi sono tappata un orecchio con la mano lib!;!rae ho premuto la cornetta più forte con l'altra. La voce lamentosa di Jerome è continuata a entrarmi in testa nonostante i rumori. "Ma perché? Perché dovrei sprecare la mia pazienza con gente simile?" mi stava dicendo. "Senti Jerome, fai una cosa: adesso riattacca e scrivimi una bella lettera. Questa telefonata ti costa una fortuna", ho cominciato a dirgli, ma nello stesso momento una gran paura che il mio suggerimento potesse avere risultati disastrosi ha cominciato a farsi strada nella mia mente. Già una volta Jerome aveva tentato di asfissiarsi col gas ma era stato salvato dalla padrona di casa. Un'altra volta s'era buttato Bb ion~caa ~,rrBa ,Mn~o l'autista aveva frenato in tempo. In verità, ai tempi dell'università, Jerome era anche stato ricoverato in una clinica per malati di mente per un breve periodo - anzi in quell'occasione era perfino riuscito a impadronirsi di una scatola di fiammiferi e ad infliggersi delle ustioni sul quindici per cento del corpo. Ora scherzava su quelle cicatrici dicendo che erano "sfoghi di pazzia". Ma io ero molto preoccupata dai suoi silenzi, anche se erano ormai diventati una parte del rituale di queste sue conversazioni. Mentre ero lì che aspettavo che rispondesse qualcosa, la porta di casa si è aperta. Un fattorino con la divisa verde è entrato con circospezione in soggiorno, l'ha attraversato ed è venuto a mettere un gran vaso di gigli sul tavolo da pranzo. Poi ha fatto un inchino rispettoso ed è uscito dalla stanza, tirandosi pian piano la porta dietro. Mentre Jerome continuava a parlare, io ho sgranato tanto d'occhi su quei gigli e poi ho cercato di arrivare a leggere il bigliettino bianco che vi era attaccato. Ma il filo del telefono non era abbastanza lungo. "Non posso riattaccare", ha detto Jerome. "Qualcuno deve pur essere testimone di questo trattamento così crudele. Mi spiace che stavolta è toccato a te, ma non è che me ne siano rimasti tanti di amici, sai?" Mentre tornavo in cucina, mi è caduto lo sguardo sulla mia immagine riflessa nello specchio del corridoio. Avevo macchie di farina sul collo e sul mento. L'orecchio sinistro era bianco e anche le braccia erano piene di chiazze biancastre. O Signore, ho pensato, sembro proprio una lebbrosa. Mi sono ricordata di certe foto che avevo visto sul "National Geographic" quand'ero piccola. I lebbrosi sembravano dei condannati - protagonisti di un tragico rito che non lasciava loro altra possibilità se non quella di trascinarsi da una capanna all'altra in cerca di rifugio e di compagnia. Da bambini giocavamo perfino a un gioco che si chiamava "Lebbra": uno di noi aveva la lebbra e cercava di passarla agli altri rincorrendoli e toccandoli. Ricordavo che l'articolo descriveva come i lebbrosi fossero costretti a mangiare lontano dagli altri membri della tribu. Spesso venivano proprio segregati in zone lontane, e lì erano fotografati mentre tendevano le loro braccia ossute - non ho mai ben capito se per mettere in mostra le loro piaghe o per chiedere un abbraccio intensamente desiderato. "Non mi sbatterai mica il telefono in faccia?" ha chiesto Jerome. "Che ne sai tu che significa dover chiedere in prestito dei soldi, dover mendicare le cose di cui si ha bisogno? Dai, sbattimi pure il telefono in faccia. Continua pure a vivere la t_uavita comoda e tranquilla senza pensare al tuo amico che sta nei guai!" "Jerome, lo sai benissimo che ti sto sempre a sentire. Faccio il possibile", gli ho risposto. Sono abituata a questi suoi tentativi di indurmi ad abbandonarlo. Quando vede che non attacca, allora cerca di farmi venire i complessi di colpa perché la mia condizione fortunata mi separa dall'incertezza in cui egli si dibatte quotidianamente." Jerome, fammi il favore, SI
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