Linea d'ombra - anno V - n. 22 - dicembre 1987

STORII/PAVIL Lucrezia.Una donna dai capelli neri e il viso pallido. Una donna che non poteva parlare e non era in gra~o di difendersi, quando lui la plasmava secondo la sua fantasia. Era bella, ma di una bellezzanon umana e mio padre lo intuì, ma gli mancò l'animo di dirlo al professore che l'amava proprio perché eramorta, sicuramente non dello stesso amore che mio padre sentivaper la nostra mamma o di quell'altro amore con cui guardava la signora Irma. Era passato l'inverno e con la primavera il babbo non facevamoltipassiavanti. Ma come un pescatore e da bravo commerciantesapeva aspettare. All'inizio dell'estate il professore pronunciò la tanto attesa frase: "Beh, Poppricku, vediamola un po' questa sua donna bellissima". "Presto, signor professore?" disse esultante mio padre, lecui finanzeerano ormai ridotte al lumicino e la cui pazienza di giudicarequadri, cani, pappagalli e tappeti persiani era giunta ormai al limite. "Tra non molto, non appena avrò terminato ... " e indicò devotamenteuna delle tante versioni di Lucrezia, che questa volta aveva come unica variante la diversa impugnatura del pugnale,conficcatosulla parte destra del petto. A questo punto miopadre, che ~i~ odiava Luc~ezia, !e perdonò tut~o, perché la vittoria s'avv1cmava. Alla vista d1 Irma Lucrezia sarebbe mortadefinitivamenteper il professore. All'impaziente direttore generaleKoralek (col quale durante tutto l'anno aveva sostenutodisperatamente: "Ci arriveremo, mi creda, signor direttore") questa volta annunciò trionfalmente: "Il professorevuolconoscere Irma tra non molto. Ma prima di ritrarre una persona intende osservarla attentamente". Il direttoreannuì con entusiasmo e invitò a pranzo ali'Alcron mio padre. Questi battè il ferro intanto che era caldo. Miseal corrente mia madre dei suoi piani e le promise che prestotutto sarebbe terminato: "Solo _eh~- disse - dobbiam~ invitareil professore Nechleba a una gita m campagna che lm nemmenose la sognerebbe. Lo porteremo a pesca, da Rozvedcik". La mamma avrebbe dovuto preparare un arrosto, dolci e focacce. Il professor Nechleba accettò deliziato. Andammo con la nostra Buickguidata da Tonda Valenta. Noi ci sistemammo nella modesta locanda "da Rozvedcik", mentre il babbo e il professore s'accamparono sotto una tenda proprio vicinoal fiume Berounka. A quel tempo era ancora un bel fiume,pulito, pieno di pesci; eravamo in giugno e in basso, nutrito dalla corrente, cresceva forse il più bel prato che io conoscessi.Il professore, che aveva visitato Londra, Parigi, Amsterdam, le più rare gallerie di tutto il mondo, ma non avevaavutomai occasione di stare in mezzo alla natura, alla vistadel prato di Klabal rimase estasiato. Si mise a saltellare comeun bambino, osservando le cavallette, le coccinelle e i fiorellini, poi gridò: "Oh! Poppricku, certo è un miracolo tanta bellezza, ma la natura in fondo è un gran pastrocchio". J1 babbo assentì risolutamente col capo, dandosi da fare ~~ol1otecaGino Bianco per preparare le canne; e nel frattempo pregava il cielo che la notte fosse scura, senza stelle e senza luna perché i pesci avrebbero abboccato più facilmente e l'entusiasmo del professore sarebbe cresciuto, cresciuto, cresciuto all'infinito, per culminare il giorno dopo nella frase fatale: "Allora mi conduca questa signora!" Mio padre fece quello che mai aveva fatto prima andando contro tutte le regole e consuetudini della pesca. Da alcuni amici pescatori si era fatto prestare una ventina di canne conficcandole lungo tutta la riva del fiume, appendendo sulla punta di ognuna come su un albero di Natale una campanellina perché suonasse quando il pesce abboccava. Il professore si sedette davanti alla tenda su un cuscino e la mamma gli portò una scodella di minestra di trippa, rognone di vitello, prosciutto caldo, focacce e focaccine e birra. Il professore baciò la mano alla mamma e appena trent'anni dopo confessò al babbo quanto lei gli era piaciuta, tanto che avrebbe voluto ritrarla, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiederglielo. Poi scese la sera, cara a ogni buon pescatore. Umida, tiepida, densa quasi da tagliare e chiuderla in uno zaino di viandante. E il Dio degli Ebrei in cielo ascoltò mio padre. Sul fiume calò un buio pesto e lì si appostò il professore seduto sul cuscino, succhiandosi il dito tutto ringalluzzito. All'improvviso, in quel silenzio divino, si udì un tintinnio! Il professore disse: "Poppricku, qualcuno suona!" "Io non sento nulla, professore", disse il babbo facendo il finto tonto. "Che cosa vuole farmi credere? Io ho gli orecchi buoni, come una civetta". "Ha ragione. Su, presto, dobbiamo andare". E mio padre lo condusse direttamente a quella canna che galleggiava e tintinnava sull'acqua. Il professore prese la canna, e tirò su un barbo battagliero lungo come un braccio. Il suo argento guizzante spiccava sull'erba quasi fosse la luna stessa caduta dal cielo. Il professore, che mai aveva lottato contro una creatura viva, sentì in sé il calore e l'eccitazione dei suoi antenati cacciatori e ne fu soggiogato. E forse quella notte vennero in aiuto del babbo tutti i suoi amici del fiume: i muscolosi barbi, le anguille, gli astuti ciprini si lasciarono attrarre dalle sue canne tolte a prestito, da cui pendevano i vermetti e i piccoli pesci insidiosi, che facevano tintinnare le campanelle come il giorno del Corpus Domini. Durante quel concerto il professore andava su e giù di corsa lungo la riva e il babbo lo serviva come si fa al tirassegno nelle fiere. Gli innescava gli ami, sganciava i pesci e tutti e due erano felici. L a mattina presto la mamma, a cui il professore di nuovo sorrise compiaciuto, portò la minestra di trippa, il prosciutto caldo, le focacce e le focaccine e il caffè. E dopo una tale notte d'incanto era logico che il lunedì il professore pro-

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