appunto il mio ultimo romanzo L'albero della vita. Tra il 1976 e il 1985 non ha pubblicato nulla, ha forse smesso di scrivere in quel periodo? No. Ho continuato a scrivere. L'idea di ambientare il romanzo all'epoca della frontiera, comportava un approfondimento delle mie conoscenze storiche su quell'epoca, così per tre anni mi sono dedicato allo studio di quel momento storico e ho condotto le mie ricerche nell'Ohio. In seguito ho lavorato per un anno sui dipinti e acquarelli che illustravano il libro e ho impiegato tre altri anni a scrivere il romanzo. I temi dei suoi libri precedenti differiscono moltissimo da L'albero della vita. Che cosa l'ha spinta a interessarsi alla frontiera americana, a questa rivisitazione di un 'epoca mitica che né lei né i suoi antenati hanno condiviso? Penso che questo riguardi la funzione dell'immaginario. Ho sempre pensato che uno degli aspetti per cui uno scrittore è giudicato e per cui è apprezzato, è per la sua capacità di immaginare mondi diversi. Continuare a riscrivere sempre sullo stesso argomento è ripetitivo e noioso e non è molto stimolante per un artista. Mi vanto di essere stato capace di estendere il raggio della mia immaginazione fino a ricreare diversi ambienti. Dopo aver parlato di Israele, dell'Europa, della frontiera americana dell'Ohio, mi accingo adesso a scrivere un romanzo ambientato nel futuro, sul pianeta Marte. Fin da ragazzo ho sempre amato gli scrittori che riuscivano a trasportarmi in mondi diversi, luoghi o periodi lontani. La funzione dello scrittore consiste nella capacità di far provare al lettore esperienze che non ha mai avuto, di ricreare per lui mondi mai visti. Credo proprio di esserci riuscito nei miei libri: come americano, sono cresciuto profondamente fiero della tradizione letteraria americana: Hawthorne, Melville, Twain, E.A.Poe, Faulkner, Fitzgerald, R. Frost e T. S. Eliot, tutti loro rappresentano per me una vitale e valida tradizione, gente che ha usato in modo superlativo la mia lingua e che ho molto amato. Essi .hanno contribuito alla mia formazione. Sono inoltre consapevole di quanto profondamente protestante e religioso sia il mio paese. Una grande civiltà protestante, basata come quella ebraica sulla Bibbia, a cui spessso torno come fonte di ispirazione. Nello scrivere questo libro volevo contribuire alla "mainstream" della cultura americana e delle sue tradizioni letterarie. Ero consapevole come tanti americani di quanto fondamentale sia stata l'esperienza della frontiera nella formazione della mentalità americana. Ma c'è sempre anche un fattore incontrollabile nella scelta di un argomento, qualcosa di misterioso, non saprei dire che cosa, che ti spinge a scrivere su questioni che ti ossessiooano. Istintivamente seguo la mia ispirazione ed è così che ho fatto anche in questo caso. Il suo romanza è piuttosto insolito nel panorama della letteratura americana di questi anni. BibliotecaGino Bianco INCONTRI/NISSINSON Penso proprio che questo libro sia del tutto unico e forse non solo nella letteratura americana, ma anche nella letteratura in generale! Qualcuno mi ha detto di non aver mai letto nulla di simile. Devo dire che è vero. Non si tratta dell'originalità del soggetto, ma della tecnica espressiva. L'artista ha il dono di avere una visione; senza di essa, non può fare nulla. Ma quel che conta soprattutto è il modo di presentare quella visione. E la visione che io ho, per quel che riguarda il futuro del romanzo, è che si arriverà a una fusione tra prosa e poesia. Me ne sono reso conto mentre lavoravo al romanzo, dipingendo, mescolando versi e frasi. È questa fusione che genera qualcosa di originale, di duraturo. Dicevo prima che c'è un gran cambiamento, almeno apparentemente, nel suo ultimo libro rispetto ai suoi precedenti racconti. Ma vorrei tornare sull'argomento e analizzarepiù a fondo con lei alcuni temi che mi sembrano essere comuni anche ad altri suoi scritti. C'è qualche rapporto tra Notes from the Frontier, an American's experience on a border kibbutz 1965/1967 e questa esperienza americana su quell'altra frontiera? Laforma diaristica, la descrizione dei rapporti difficili e violenti tra ebrei e arabi là e bianchi e indiani qui ... È assolutamente vero. Fui fortemente attratto dalla vita del kibbutz quando vi andai nel 1957. Lo consideravo l'ambiente più romantico che avessi mai visto. Ero un ragazzo di città, ma mi piaceva la natura, la vita nei campi. Sperimentai allora per la prima volta il piacere di lavorare nei frutteti, piantare alberi, anche pulire i pollai, provai una grande emozione nel vivere e lavorare a stretto contatto con la terra. Come americano tutto ciò mi faceva pensare a quanto dovesse essere stata simile la vita sulla frontiera con gli indiani un centinaio di anni prima. In entrambi i casi si trattava di contadini e soldati circondati da gente ostile mentre essi desideravano crearsi una vita normale. Mi aveva profondamente colpito la somiglianza di ciò che avevo sperimentato con quello che mi ero immaginato vedendo i film western, e leggendo i soliti libri su pionieri e indiani, come qualsiasi altro ragazzino americano. E quando venne il momento per me di scrivere L'albero della vita, mi trovai a mettere in connessione quello che avevo vissuto e riportato in Notes /rom the Frontier con ciò che avevo letto e immaginato sulla storia americana. Ricordo che mentre stavo scrivendo la parte del libro che descrive la vita dei pionieri durante un attacco indiano - come si organizzavano all'interno dei villaggi, - vennero a trovarmi gli amici di Ma'aian Baruch. Ebbi modo allora di rinfrescare i miei ricordi sulla vita di kibbutz. Posi loro tantissime domande molto particolareggiate, su come organizzavano nei bunker i turni di guardia, la mensa, la lavanderia; tutte cose che mi furono utilissime nel ricreare la vita dei pionieri nell'Ohio. Capii anche quanto fosse vitale che ogni uomo - e anche donna - avesse il fucile sempre appresso, proprio come ricordavo di aver letto; non solo per la caccia, ma anche perché vivevano nel continuo timore di venire attaccati dalle popolazioni ostili. 37
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