IL CONTESTO dina andava conservato; andava affrontato anche il nuovo, perché non puoi fare di un'operazione di recupero il futuro; su un'azione di recupero fai il futuro. Da un lato ci siamo resi conto che dovevamo fare delle suture, recuperare dei valori. E allora in antitesi con quello che era il credo corrente pubblicammo Dodici masserie del tarantino, siamo andati a vedere i resti di Taranto vecchia. E quali erano le reazioni della gente? Si chiedeva: ma questi che fanno? Prima distruggono e poi? Non capivano che proprio per il fatto che si era creato il metalmezzadro era necessario che una struttura dell'ltalsider pensasse non al ritorno alla agricoltura o alle lucciole ma al recupero dei valori che essa stessa aveva contribuito a scardinare. Si ricostituiva un corredo di tradizioni sul quale innestare le novità che veni vano dal software, dalla cultura dell'acciaio. Il tuo impegno contro l'effimero non ti aliena simpatie? È finito l'impegno, è finito l'effimero. È cominciata la fase nuova in cui ci vogliono buone antenne, se no sei fatto fuori. È arrivato il momento dei professionisti o di un dilettantismo praticato dai geni, se ne esistono ancora; del professionista scafatissimo o del dilettante geniale. Prima era facile, ti rivolgevi ali' Arei, ti davano quattro film sull'America Latina e bastava. Oggi dopo l'effimero romano siamo in una fase molto più frammentata e misteriosa. Proprio perché ci sono delle qualità emerse a livello nazionale e internazionale è diventato molto più difficile captare. Non si può leggere solo il quotidiano nazionale, se vuoi fare un lavoro serio. Qualiprogetti in cantiereper l'immediato futuro? Continuerà questo viaggio di ricognizione nella cultura contadina del Sud che, guarda caso, oggi non fa più nessuno. Una ricognizione dei brandelli culturali, dei reperti iniziata con "Quando i mulini non erano bianchi", "li morso della tarantola", "La lucanità", la mostra di Cantatore ecc. liotecaGino Bianco DAI LETTORI PESSOA,O DELLA DEFINIZIONEPROVVISORIA Armando Martinelli Se il piacere del testo teorizzato da Barthes dovesse ancora risultare un concetto guida nebuloso e un poco fantomatico, si consiglia la lettura de Il libro dell'inquietudine, di Fernando P.essoa pubblicato da Feltrinelli. Il libro è una specie di "romanzo involontario" postumo, ricostruito dagli studiosi portoghesi nella prima edizione in lingua originale del 1982, organizzando un materiale non compatto, frammentario e sciolto in numerosissimi fogli manoscritti sparsi che l'autore andò riempiendo in vent'anni, dal '13 al '35. C'è da sottolineare che i curatori dell'edizione italiana hanno adottato una diversa sistemazione degli originali, optando per uno snocciolarsi dei testi in senso narrativo, piuttosto che per una loro ripartizione attorno a omogenei nuclei concettuali. Lo spunto interpretativo nella direzione scelta dai nostri traduttori è stato offerto dalla presenza di un alter ego (uno dei tanti, oltre una ventina) creato dall'immaginazione dell'autore: il contabile Bernardo Soares, a cui Pessoa attribuì un'identità biografica, una poetica, uno spessore psicologico, persino una firma autografa, nonché la paternità di questo libro. Troppo ricco, denso e variamente combinabile nella distribuzione del materiale al suo interno per sperare di poterne rendere conto ad una sola lettura, il testo - che è un insieme di testi - si presenta sottoforma di diario, autobiografia o evento narrativo dove non accade alcunché di rilevante o romanzesco, eccetto che nei metodici spasmi del suo osservare, fatti di "attenzione intensa e indifferente" (pag. 67). Il contabile Bernardo Soares, "dall'apparente età di trent'anni, magro, piuttosto alto, esageratamente curvo quando stava seduto", secondo la presentazione che in via preliminare ne fa lo stesso Pessoa, è in definitiva un voyeur allucinato. "Come vorrei, lo sento in questo momento, essere una persona che fosse capace di vedere tutto questo come se non avesse con esso altro rapporto se non vederlo" (p. 51): il suo guardare profondo coinvolge il libero flettersi di forme paesaggistiche oggettive o ritagli naturali e d'atmosfera vincolati ad una sensazione interiore, ma anche l'impossibilità di visualizzare il reale al di là del desiderio. Con in più una punta di rimpianto e abbandono: "Vedere è avere visto" (p. 68). La giustificazione - e il culmine - di ciò è il sonno o, meglio, la sua mancanza. Numerosissimi i punti del libro in cui compare la dolorosa constatazione dell'esistenza dell'insonnia, anche se in fondo questo insistere la trasforma in un'apologia. Anche sul tedio esistenziale, altro tema quasi d'obbligo per chi abbia rinunciato a immergersi nel quotidiano e nell'agire, Pessoa-Soares apre spiragli definitorii, ma mai definitivi. Si approssima al suo oggetto d'indagine con diverse definizioni, subito negate, all'insegna del provvisorio; ognuna di esse annuncia un'impercettibile autocorrezione e una rettifica - mai una ratifica - dell'idea in questione, ma ne descrive alcune manifestazioni di sicuro effetto. Soares disprezza l'effimero che lo circonda e per questo non può che cercare i materiali costruttivi della realtà nell'ambito della propria immaginazione. E, dunque, della scrittura: "Quando scrivo, mi visito solennemente" (p. 163); e ancor più incisivo: "La mia patria è la lingua portoghese" (p. 252). Sempre in tema di accorciamenti, di scorciatoie significative, c'è da aggiungere che Pessoa-Soares si produce non solo in una personale cosmogonia letteraria, strutturalmente e ideologicamente complessa, ma anche in folgoranti accensioni paradossali. In questo libro, il gusto e la necessità dell'aforisma sono evidenti e costituiscono un elemento di indelebilità, di minima, graffiante provocazione: "L'aristocratico è colui che non si dimentica mai di non essere solo" (p. 207); "Dare buoni consigli significa mancare di rispetto alla facoltà di sbagliare che Dio ha dato a tutti noi" (p. 258); quando addirittura non assume toni e colorazioni krausiane nell'affermare che "la lettura dei giornali, sempre penosa dal punto di vista estetico, spesso lo è anche da quello morale, perfino per uno che abbia scarsi scrupoli morali" (p. 234). Solo apparentemente vacuo, tentennante e inadatto al vivere, alla fine il contabile Bernardo Soares viene fuori da questo romanzo in forma utopica come il prototipo dell'uomo nuovo che rifiuta, per legittima difesa, le delittuose superficialità del proprio (e del nostro) tempo, voltando le spalle alla marea inarrestabile delle pseudo-immagini e dei diaframmi che si frappongono alla corretta decifrazione del mondo: Soares è dunque un signor Palomar, il personaggio di Calvino, - entrambi sono infaticabili osservatori - con un surplus di mal-de-viver, abbandono, e corrosività, ma ugualmente lucido e geometrico nel suo confrontarsi - rapportarsi al reale o al suo sogno.
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