difficile non accorgersi subito di come il medesimo motivo - l'incontro con ciò che è radicalmente altro che diviene confronto con se stessi - sia trattato con ben altra potenza ed efficacia. Non ci sono personaggi come la Harey di Solaris in Sfera; e soprattutto, poi, a mancare è il senso di inquietudine che anima quelle opere e che qui appare aggirato, come anestetizzato. Si arriva 1nquesto modo al presupposto implicito nella componente "divulgativa" dei romanzi di Crichton; un'idea più generale di dialogo con il lettore che punta sì a stupirlo e sconcertarlo, ma nello stesso tempo a familiarizzarlo con quanto di nuovo e singolare incontra nel mondo rappresentato. E in effetti se i mondi fittizi che escono dalla penna dello scrittore americano sono costruiti all'insegna dell'anticipazione, il loro scarto rispetto alla realtà della quale abbiamo ogni giorno esperienza è davvero sottile. Accade così allora che la stessa storia che si dice degli "abissi", delle "anomalie" e dei "mostri" si concluda mettendo in primo piano il buon senso di uno psicologo, perfetto rappresentante di un'umanità "normale" e piccolo-borghese (e certo non è casuale che la narrazione segua, con rare eccezioni, il suo punto di vista). E nello stesso modo, se il romanzo giunge a sfiorare la messa in scena dello sfaldarsi del senso d'identità personale, è solo per ritrarsene subito e lasciare emergere intenzioni moraleggianti (che riprendono lo stesso tema della "responsabilità" dell'individuo sul quale si apriva l'introduzione di li terminale uomo). Nei libri di Crichton insomma chi legge è chiamato, è vero, a confrontarsi con l'insolito, ma troppo spesso attraverso il confortante parapetto di una scrittura "moderata", attenta ad addomesticare l'ignoto. La sua è una narrativa che sceglie l'intrattenimento: sempre ben fatta e accattivante, ma poco incline però ad aprirsi ad orizzonti diversi. BibliotecaGino Bianco INIZIATIVE ILPONTEDITARANTO Incontro con Giuseppe Francobandiera a cura di Franco Ungaro A Taranto c'è chi dice che il ponte girevole divide non solo i due mari, quello Piccolo e quello Grande, ma la storia della città, sedotta e conquistata negli anni '60 dal mostro tecnologico che qui si chiama Italsider, commesse e acciaio, e adagiata a specchiarsi in un presente che raccoglie, poco nitidamente per la verità, i segni della tradizione. Città che ha consumato voracemente i miti del welfare state e del conformismo, le facili utopie dello sviluppo "all'emiliana" e quelle un po' più difficili della cultura che crea ricchezza (Magna Grecia, Ori, ecc.), Taranto vive oggi un'agonia irreversibile che la rende città evanescente e impotente. Soprattutto dal punto di vista culturale. Da troppo tempo l'immagine pubblica della città è degradata, il suo tessuto sgretolato sotto i colpi pesanti di una crisi (dell'acciaio come dell'identità antropologica) che si abbatte necessariamente sulla situazione culturale. Un'isola nel "mar grande" della rassegnazione, del cinismo e della noia è il Circolo ltalsider, che soprattutto negli ultimi anni si è proposto come prolifico campo di operatività culturale sul territorio, in grado di offrire in modo permanente e coerente una progettualità culturale di un certo spessore, poco legata alle mode effimere e molto attenta a istanze ed espressioni sommerse, segrete, della vecchia come della nuova cultura. Esempio di managerialismo colto e intelligente, il Circolo Italsider opera da più di quindici anni alla Masseria Vaccarella, un vecchio ma elegante spazio non lontano dalle foci del fiume Galeso di virgiliana memoria. Da qui sono passati il Living Theatre, Lindsay Kemp, il Piccolo Teatro di Milano, Jannacci e Peppe Barra; qui sono state esposte opere di Capogrossi, Pomodoro, Cagli, Hogarth e Diirer, Man Ray e Sassu. Frequentatissime le rassegne di cinema come pure gli incontri. Animatore e "teorico" del Circolo è Giuseppe Francobandiera, ex giornalista, ex dirigente di fabbrica, al quale abbiamo rivolto alcune domande. Innanzitutto, è vero che non corre buon sangue tra Taranto e l'azienda Jtalsider, tra la città e il tuo circolo? All'inizio la città si era posta nei confronti del Circolo esattamente come si poneva IL CONTESTO nei riguardi dell'azienda, e cioè con un rapporto ambivalente, abbastanza complesso. Da una parte ci si aspettava tutto dal-l'azienda, e dall'altra le si rimprÒverava di aver stravolto i valori originali (ma quali?), l'identità della città. Il Circolo era gratificato dello stesso rapporto abbastanza particolare di cui era gratificata la fabbrica, si guardava a esso come a una ulteriore espressione della occupazione aggiuntiva, non solo dal punto di vista fisico ma culturale. La città restò dapprima in attesa, poi iniziò a criticare quando il circolo, non volendo obbedire a una logica di Cral, non volendo funzionare solo come circolo aziendale, si aprì alla città. La città entrò in questo discorso ma criticò le scelte pensando che dovevano essere indirizzate, guarda caso, verso forme di consumo spettacolare della cultura. Di qui i contrasti. Oggi dopo anni, esperienze e tentativi, qualche risultato si vede, la pianticina è piantata. E i rapporti con le istituzioni, l'ente locale? La verità è che non possiamo far niente contro le istituzioni, ma sempre per le istituzioni, spesso con le istituzioni. Anche se qualche volta la voglia barricadera ti prende di fronte al tatticismo e all'immobilismo, poi ti rendi conto che non serve a niente mettersi contro le istituzioni. A meno di non adottare il metodo rivoluzionario di fare cultura, ma non è il mio caso, uso modi diversi. _Comehai affrontato il nodo del rapporto tra modernità e tradizione in una città emblematica come Taranto? All'inizio della nostra attività ci siamo resi conto che intanto andava ricomposto un tessuto lacerato non solo per l'arrivo dell'astronave-acciaio quanto per le disattenzioni verso i valori fondamentali. Dopo gli anni '50 c'è stata la più grossa rivoluzione antropologica che abbia conosciuto l'uomo: nei casolari di campagna sono arrivate le tv, il mondo è cambiato completamente. E non poteva essere risparmiato il Sud, che era più esposto. Quando siamo arrivati qui c'era da un lato "la proiezione al nazionale", perché la tv aveva accorciato l'Italia e quindi solo quello che la tv santificava aveva dignità; questo però cancellava gli ultimi residui della civiltà contadina, dei pescatori e artigiani, e quindi aveva creato un "vuoto a rendere" che non era stato reso da nessuno. Si era interrotto un certo sistema gerarchico di valori e ne era venuto fuori un altro non ancora codificato. Che fare? Intanto non bisognava soltanto esser pronti a recepire quello che del passato della civiltà conta23
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