Linea d'ombra - anno V - n. 22 - dicembre 1987

sospetto polizies<.:o,an<.:hese non tragi<.:oe kafkiano come in altri momenti della storia socialista. Altrove le sue ambizioni sono più alte. Le riunioni del comitato di partito, pareti bianche, due file simmetriche di dirigenti convergenti verso il segretario a capo del tavolo sotto un enorme orologio, macchina da presa fissa, richiamano davvero li processo di Welles senza tragedia. E la scenografia di fabbrica è un composto di parti di aziende situate in diverse parti della Cina, una sorta di fabbrica-modello, rappresentativa dell'intera situazione del paese. Bloccato per sei mesi, amatissimo dagli studenti protagonisti delle manifestazioni a Shanghai lo scorso inverno, il film ha riscosso un tale successo che ha permesso a Janxin di darne un immediato seguito fantascientifico, Cuowei (Falsa posizione). Lo spunto era bello - l'ingegnere, adesso promosso a ruoli direttivi, è costretto a troppe riunioni noiose per cui inventa un sosiarobot che ci andrà al suo posto, riscuotendo grandi consensi con le sue viete formule - ma i suoi sviluppi sono scontati o sgangherati. Forse, per la Cina non è ancora tempo di fantascienza, ancora troppo alle prese con i lasciti del recente passato e con la precarietà e le incertezze di scelta del presente. Con esse è alle prese anche l'Unione Sovietica, paese oggi particolarmente creativo com'è di ogni società in movimento, in fase di rapido trapasso. L'ansia di dire ciò che era stato rimosso, negato, sembra già produrre una nuova retorica per cui non esistono più altre realtà se non di rock, droga, violenza. Però, almeno il documentario Legko li byt' molodym (È facile essere giovani?) del lettone Yuris Podnieks sa proporre immagini crudamente dissonanti, libere da prudenze e visioni codificate. Fanno soprattutto rabbrividire alcune facce e gesti di normale disperazione: quella del punk condannato a tre anni di campo di lavoro per atti di vandalismo dopo un concerto rock a Riga e che non sembra darsene conto né pace; quelle dei reduci dall'Afghanistan, distrutti a vent'anni. BibliotecaGino Bianco Sulla visione complessiva di questa gioventù, sul suo rapporto con il lavoro e i valori sociali, varrà la pena tornare quando si vedrà il film anche da noi (è stato acquistato da Canale 5). Podnieks mostra anche brani di un film new wave girato clandestinamente da alcuni giovani punk. Altri, in Oriente, come in Occidente, lavorano su una analoga radicalità di esperienze che assumono come elemento della loro stessa messa in scena la propria condizione e la propria povertà tec- ·nica. Come l'indiano John Abraham. Allievo di un altro grande irregolare, Ghatak, e morto il giugno scorso in un incidentesuicidio, era stato la rivelazione di Pesaro, alcuni anni fa, con Un asino in un villaggio bramino, estrosa, dirompente immersione in un universo di quotidiana patologia. Le sue intenzioni erano semplici, quindi oggi eccezionali: "secondo me il cinema dovrebbe parlare alla gente e la gente parlare attraverso il cinema"; non sorprende che in dieci anni sia riuscito a fare, autoprodotti, quattro film (peraltro, premiatissimi) in un cinema come quello indiano che ne produce noveIL CONTESTO Immagini da Falsa posizione e da L'incidente del cannone nero. di Huang Jianxin. cento all'anno. Questo suo ultimo lavoro, Amma ariyan (Lettera a una madre), è il racconto frammentato, ossessivo di una disillusione, della fine del movimento rivoluzionario naxalita. È un'inchiesta su un amico scomparso, musicista e militante politico, che sarà identificato nel cadavere di un suicida. Progredendo, l'inchiesta aggrega sempre più personaggi, voci, testimonianze, in una sorta di pellegrinaggio dalla madre, a darne la notizia. Come a conclusione di un viaggio in un'esistenza, in una generazione. Scarne immagini in bianco e nero, musiche stridenti, confessioni e riflessioni, documenti di lotta degli anni Settanta, sono accostate, ritornano a più riprese, si stratificano in un itinerario apparentemente lineare; hanno un'essenzialità, un'incisività, pur se "imperfette", che le rende indimenticabili, perché vissute, sentite, autentiche. Come una lacerazione che può produrre una riflessione adulta, ma che nel vissuto non si rimargina. Assai più in minore, è il caso anche di Gregg Araki, californiano ventisettenne che è stato la sorpresa del festival di quest'estate con il suo Three bewi/dered peop/e in the night. Le tre persone confuse nella notte sono David, videoartista d'avanguardia, con una benda nera su un occhio (come Ford?), il fotografo Craig e la sua ragazza Alicia. Vivono di notte nei bar, nei drugstore, nelle gallerie. Si telefonano, si fanno continue visite. Parlano, discutono, sono inquieti, insofferenti, insicuri. Craig convive con Alicia, ma è attratto da David che andrà a letto con Alicia. Senza più distinzioni dei sessi. E senza traumi. Immagini tutte notturne, e quasi invisibili a causa di un 16 mm. a scarsa definizione. Un lungo flusso di parole e gesti quotidiani, qualche autocompiacimento godardiano, il privato e le sue paure, un po' autobiografico, un po' artisticheggiante, temi seri sfiorati senza pretenziosità: è un piccolo film che via via prende per una sua verità e spontaneità che nemmeno sfiorano i suoi modelli minimalisti. Certo ci sembrano fuori luogo i riferimenti al mitico Shadows di Cassavetes, "improvvisato" con ben più estrema negazione di Hollywood e capacità di rapportarsi a casi reali, umani e razziali. E pure quelli a Stranger than Paradise di Jarmush, così rigoroso e culturalmente stratificato. Con una differenza, però: il film, prodotto da una non casuale "Desperate Pictures", è costato cinquemila dollari! Se c'è il talento e si hanno delle cose da dire, tutto forse è possibile. 21

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