IL CONTESTO CINEMA NONC'ÈSOLOL'AMERICA Gianni Volpi A Torino, Cinema Giovani, come in tutti i festival, le cose più interessanti erano quelle marginali, espressione di una marginalità economica, produttiva, artistica, esistenziale, oppure provenienti da zone cinematograficamente decentrate (ma è la prospettiva necessariamente distorta dei festival medi; nella realtà a dominare per la sua capacità di spettacolo e a volte di intelligenza delle cose è vieppiù il cinema americano, punto di riferimento obbligato quasi senza più alternative, presenza di continuo evocata come modello sottinteso e ormai di rado come demone da esorcizzare, ma assente perché i suoi percorsi sono altri e spesso non passano per i festival, tranne Cannes). È in Cina, in India, fra gli indipendenti americani, che è possibile di tanto in tanto ritrovare casi di passione vera per il cinema e la realtà, un'insolita voglia di produrre cose significative, che sono tali grazie anche alla radicalità dei processi formali con cui sono investite, insomma una voglia di analizzare, di intervenire o di esprimersi in rapporto ad esse. Magari con tutta l'ambiguità (ma un'ambiguità produttiva) del caso. Punto estremo in questo senso è il film vincitore, il cinese Da yuebing (La grande parata) di Chen Kaige, poco più che trentenne, già esponente di punta della cosiddetta "quinta generazione" e della nouvelle vague cinese con Huang tudi (Terra gialla), che spostava il suo interesse dal tema maoista-edificante a un aspro sistema di referenti rituali e mitici e visivi e musicali in quanto espressione di una terra. Qui, invece, narra la storia, irritante ma impressionante, di un gruppo di soldati sottoposto per un anno intero a un durissimo addestramento e a spietate selezioni in vista della parata del I O ottobre sulla piazza Tien An Men. Il film alterna abilissimamente i momenti privati, i drammi e i dilemmi personali (la voce off di alcuni protagonisti svela ciò che ciascuno di essi tiene nascosto: le ambizioni di carriera, la malattia, le deformazioni fisiche, i dolori familiari, l'insofferenza per una disciplina rigidissima; un concertato dialettico all'interno della Grande Prova) e esercitazioni collettive, inserisce i primi nella componente di massa. Li "riscatta" e li annulla in essa, coscientemente (la parata come metafora di tutta la Cina, come sforzo di volontà collettivo) o opportunisticamente (le immagini della parata finale, quella vera del I O ottobre 1984, sono state inserite liotecaGino Bianco perché il film, fermo dall'85, potesse uscire). In ogni caso, è questo secondo piano a imporsi, con il suo orrore e il suo fascino. Kaige ha uno sguardo americano, mostra un prodigioso virtuosismo tecnico, una lucida enfasi alla King Vidor (a un cui vecchio film rimanda lo stesso titolo). Perfette geometrie, ranghi lustri e stretti, rende con incredibile ambiguità la bellezza militare senza più troppe motivazioni ideologiche, sostenuta soltanto da valori che gli sono comuni un po' dappertutto (spirito di corpo e di sacrificio, cameratismo, ecc.). Non so se sia giusto evocare, come è stato fatto, la seduzione delle immagini di Leni Riefenstahl, ma certo il suo film possiede una significatività quale, fatte tutte le distinzioni di visione e di capacità di distanza, si riscontra soltanto nell'ultimo film di Kubrick. li quadro della Cina attuale non è entusiasmante, e il cinema cinese, come sempre condizionato dalla politica anche se con una precettistica meno rigida, è perfettamente allineato sulle nuove parole d'ordine dell'efficientismo, ma vi si muove con un gusto della scoperta di persone e situazioni, di tecniche e generi, con una vitalità che è di quei paesi in cui il cinema possiede ancora una sua funzione, cioè un vasto pubblico, un'incidenza sociale, conseguenze pratiche rispetto al potere (gli interventi censori, i blocchi La grande parata di Chen Kaige. dei film, le "correzioni", ecc., ne sono altrettanti segni). Un altro trentenne, Huang Jianxin, con Heipao shijian (L'incidente del cannone nero) tocca il tema della produzione e degli sprechi, del rapporto tra politica e economia, delle competenze e dei rapporti con l'estero. La sua è una scatenata, corrosiva commedia degli equivoci, protagonista la burocrazia di partito che scambia un messaggio in codice scacchistico per un complotto spionistico, perciò esautorando un onesto e efficiente ingegnere dal suo incarico di traduttore tecnico presso una ditta tedesca che impianta in Cina sofisticati macchinari, e causando disastri economici a catena. I personaggi sono riconoscibili, le situazioni riproducono quelle che, trattate seriosamente, abbiamo visto e sentito tante volte sullo stile di lavoro nei paesi socialisti, il linguaggio è una continua allusione a quello burocratico, alle sue formule rituali. Certe battute sono impagabili ("I tedeschi non hanno colpe?" si chiede la vecchia compagna, incredula di fronte alle risultanze dell'inchiesta). Jianxin, com'è di questa fase di sperimentazione e "aggiornamento" formale un po' indiscriminato che vive il cinema cinese, scopre e usa i "generi" occidentali. Li contamina. li "noir" ad esempio, che scandisce e dà corpo a un diffuso clima di
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