DISCUSSIONE "Noi non dobbiamo limitarci a chiedere come e per chi e in quali condizioni di lavoro e di proprietà si debbono fabbricare e produrre certi prodotti, ma se certi prodotti si debbano fabbricare, · se sia lecito, a noi o ad altri, produrre certi prodotti." sarebbero più proletari, ed esaminiamola più attentamente. Il risultato sarà altamente sorprendente. Poiché il proletariato di oggi è infinitamente più vasto che non sia mai stato. Tutti noi, oggi, siamo proletari, l'umanità intera appartiene al proletariato. Anche se, è vero, in un senso completamente nuovo. Che cosa significa questo? Vengo così alla terza mancanza di libertà attuale, che vorrei esaminare con maggiore attenzione. Per proletariato s'intendeva, cent'anni fa, quella massa di persone che dovevano vendere il loro tempo di lavoro e la loro forza di lavoro, e che non erano proprietari dei loro mezzi di produzione e della maggioranza dei loro prodotti. Oggi noi (anche quando, come salariati o stipendiati, possediamo un'automobile, un frigorifero ecc.) siamo nonproprietari in un senso molto più pauroso. Poiché non siamo proprietari dello scopo del nostro lavoro e degli effetti del nostro lavoro. Con ciò non voglio dire soltanto che, nel nostro lavoro, non vediamo davanti a noi il prodotto finito, la sua finalità e il suo impiego; ma che essi non possono e non devono interessarci in alcun modo. Che si lavori in una fabbrica di çlentifrici o in un campo di sterminio o in un cantiere per l'installazione di missili atomici (in Turchia, a Okinawa, in Italia o a Cuba), è sempre proibito, o passa addirittura per ridicolo chiedersi se ciò che si è prodotto sia approvabile o riprovevole, e non ci viene più nemmeno in mente di chiedercelo. Poiché la grandezza delle industrie e la divisione del lavoro fanno sì che il prodotto finito e il suo impiego non balenino più nemmeno per un istante agli occhi dei lavoratori. Questa circostanza ci toglie perfino fa libertà di chiedere. Lasciamo sempre la morale nel guardaroba della fabbrica, per indossarla di nuovo dopo il lavoro. Che cosa significa questo? Risposta: è lo scandalopiù terribiledella nostra vita odierna. Significa che c'è un settore, nella nostra vita odierna, che è universalmente considerato come "moralmente neutro", come ''terra di nessuna morale'', e, per dirla con le parole di Nietzsche, come "al di là del bene e del male", e che anche noi abbiamo riconosciuto questo settore (chiamato "lavoro") come "al di là del bene e del male". Ora è chiaro che noi, lavorando, per esempio, alla costruzione di missili, nello stesso tempo agiamo, operiamo, e che con questo nostro agire produciamo effetti e che questo vale per ogni lavoro. Eppure, a eccezione di alcuni medici e di alcuni fisici, nessuno di noi si rende conto, nessuno è consapevole che il suo agire chiamato "lavoro" dovrebbe sottostare alla morale allo stesso modo in cui vi sottostanno i suoi rapporti coi vicini, anzi ancora di più, poiché il nostro lavoro può produrre conseguenze infinitamente più grandi e più terribili della nostra condotta quotidiana nell'ambito privato. Eppure (o, piuttosto, proprio per questo, perché non siamo tentati di occuparcene) il lavoro è considerato come qualcosa che non ofet, che non puzza in nessuna circostanza; che non puzza nemmeno quando rappresenta un contri8 ibIioteca Gino Bianco buto allo sterminio dell'umanità. C'è un motto foggiato in origine contro la nobiltà: "Il lavoro non disonora". li significato di questo motto è stato pervertito nel modo più pauroso. Poiché oggi serve a giustificare il lavoro in ciò che ha di più infame. E questo lavoro disonora di certo; e più che il furto di posate d'argento. Ma la vera infamia consiste nel fatto che la morale è relegata nella riserva della vita privata, nell'interesse di coloro che sono interessati alla produzione di prodotti moralmente inammissibili. La nostra situazione è tanto più fatale in quanto oggi quasi ogni specie di attività umana può essere assimilata al genere di azione che si chiama "lavoro". Anche l'assassinio ci può essere assegnato come lavoro, anche la liquidazione di bambini ci può essere imposta come un lavoro di sgombero delle immondizie. Anche voi sapete che gli impiegati nei campi di sterminio di Hitler si appellavano, con la miglior coscienza del mondo, al fatto che si erano limitati a lavorare, e a lavorare coscienziosamente; producevano cadaveri di massa, e perché questa produzione fosse necessaria e a che cosa servisse, chiedersi una cosa simile avrebbe significato (il lavoro moderno essendo fondato sulla divisione del lavoro) immischiarsi in un settore di competenza altrui, un'ingerenza che essi si guardavano bene dal compiere come "immorale". Ma non dovete credere che questo caso sia un caso eccezionale e isolato. Ancora oggi la squadra che partecipò al bombardamento di Hiroshima definisce la sua azione come un job; e perfino Eatherly, l'uomo che ha capito che cosa gli hanno fatto fare, perché e a che scopo ci si è serviti di lui, ha adoperato ripetutamente quest'espressione, e io stesso l'ho udito parlare del suo job: tanto è divenuto normale, ormai, esprimere ogni e qualunque azione nella terminologia del lavoro. E nulla sarebbe più ingenuo che credere che Eichmann abbia rappresentato nel nostro tempo una mostruosa eccezione. Anzi, è vero il contrario: egli è stato il simbolo di tutti noi. E dal momento che siamo pronti a seguire in buona coscienza e coscienziosamente qualunque cosa, purché ci venga assegnata come "lavoro", siamo tutti degli Eichmann; e siamo tenuti a essere degli Eichmann, poiché lo esige la morale attuale, che pretende da noi che riconosciamo il lavoro come qualcosa di "moralmente neutro". Cari amici, è cento anni ch'e parliamo, e senza dubbio a ragione, del fatto che i mezzi di produzione non sono proprietà dei lavoratori. Ma il disinteresse che ci viene imposto per gli effetti del nostro lavoro è anch'esso una forma di espropriazione; poiché, essendo privati dell'interesse di sapere che cosa accade in seguito al nostro operare, siamo anche privati della nostra responsabilità e della nostra coscienza; queste non sono più nostra proprietà. E in questo senso siamo proletari. Una critica del lavoro, oggi, non può limitarsi, come cento anni fa, a criticare come immorali i rapporti di proprietà e i profitti. Marx poteva ben farlo, perché all'epoca in cui viveva non aveva motivo e occasione di mettere in dubbio il 13
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