Linea d'ombra - anno V - n. 22 - dicembre 1987

UILl:Ml:ll<t: IYl:l/ l'IUMt:l<V LL LIKt: O.UUU mensile di storie, immagini, discussioni BibliotecaGino Biane·o ABB. POSTALE GR. 111-70%-VIA GAFFURIO. 4-20124 MILANO

Dal nostro invitato speciale CESAREPILLON Unmatrimoniodafavola C'era una volta un piatto della Bassa Padana, ·1erane in guazzetto, che soffriva per le proprie origini plebee. Ma la buona fata, a cui s'era rivolto, gli aveva predetto che un giorno avrebbe potuto trovare l'anima gemella in un nobile vino venuto da un'isola lontana. E il miracolo si awerò: al bacio del Corvo Colomba Platino, vino bianco di Sicilia, le rane in guazzetto diventarono un piatto da re. Cesare Pillon, giornalista buongustaio, sarà testimone alle loro nozze. Da favola, naturalmente. CORVO DUCADI SALAPARUTA Dal1824m,oderno. BibliotecaGino Bianco

Einaudi RosettLaoy Lestraddeipolvere L'amore, la guerra, i bambini, la morte. Una famiglia da Napoleone all'Unità d'Italia. Un vero romanzo. «Supercoralli», pp. 245, L. 20 ooo SebastiaVnoassalli L'orodelmondo Uno Huck Finn padano in lotta con la famiglia e la memoria del fascismo. «Un acre, ironico, struggente, bellissimo racconto» (Natalia Ginzburg). «Supercoralli», pp. v-175, L. 18 ooo BohumHilrabal Unasolitudine tropproumorosa Dai sotterranei di Praga un uomo lancia dei messaggi in bottiglia ... A cura di Sergio Corduas. «Supercoralli », pp. r 2 r, L. 14 ooo IlPremiGooncou1r9t 87a TahaBr enJelloun Creaturdaisabbia Finalmente un romanzo che apre una finestra sul mondo arabo. La storia di un androgino per forza diventa favola, gioco di voci e di ombre. A cura di Egi Volterrani, con una nota di Sergio Zoppi. «Supercoralli», pp. 175, L. 18 ooo BibliotecaGino Bianco CarloEmiliGoadda Lacogniziodneldolore Edizione critica commentata con un'appendice di frammenti inediti, a cura di Emilio Manzotti. Una svolta nel modo di leggere Gadda. «Gli struzzi», pp. LXXXII-578, L. 26 000 TobiaGs .Smollett Laspedizione diHumphCrylinker Il capolavoro settecentesco ancora sconosciuto in Italia. «La storia piu divertente che sia mai stata scritta da quando ha avuto inizio la bella e benefica arte di scrivere romanzi» (W. M. Thackeray). A cura di Giancarlo Mazzacurati. «I millenni», pp. XLVm-448, L. 50 000 ArnaldMoomigliano Paginebraiche I saggi sul giudaismo antico e sui protagonisti del pensiero ebraico contemporaneo offrono un ritratto inedito del grande storico, quasi il filo profondo di un'autobiografia intellettuale. A cura di Silvia Berti. «Saggi», pp. XXXI-254, L. 26 ooo RudoWlf ittkower Allegoreiamigrazione deisimboli Tra Oriente e Occidente, i significati, i cambiamenti del gusto, e dello stile che hanno dato vita al gioco dei simboli e delle allegorie. Introduzione di Giovanni Romano. Traduzione di Marcello Ciccuto. «Biblioteca di storia dell'arte», pp. LII-353 con 250 ili. nel testo, L. 50 000 D.CalabeiP.Morachiello Rialtol:efabbriche eilPonte Le vicende della ricostruzione del mercato in legno di Rialto, cuore del commercio veneziano, dopo l'incendio del 1514. «Saggi», pp. XIX-317 con 126 tavole fuori testo, L. 45 ooo O.H.K.Spate StoridaelPacifico li lagospagnolo Le navigazioni, le scoperte, le storie di commerci, rivalità e intrighi da cui nasce un nuovo mondo. Traduzione di G. Mainardi. «Biblioteca di cultura storica», pp. xxv1-412 con 25 illustrazioni nel testo e 8 fuori testo, L. 45 ooo DavidF.Noble Progettalr'eAmerica La nascita del capitalismo monopolistico: le scoperte tecnologiche, gli ingegneri e la grande industria. Traduzione di Guido Viale. «Biblioteca di cultura storica», pp. xxv-375, L. 45 ooo Peri ragazzi RobertPoiumini Lostralisco Nell'antica Turchia un pittore viene chiamato da un signore delle terre del Nord per affrescare le pareti delle stanze in cui il figlio, colpito da una strana malattia, è costretto a vivere ... Una storia che ha il profumo della vera poesia. Illustrazioni di Cecco Mariniello. «Libri per ragazzi», pp. 85 con 13 illustrazioni nel testo, L. 14 ooo

scuola ·ta ridere □ OMENICO STAR NONE è con di e e i tavole d STAI NO CO

Direuore Goffredo Fofi Gruppo redazionale Giancarlo Ascari, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, Alfonso Berardinelli, Paolo Bertinetti, Gianfranco Bettin, Franco Brioschi, Marisa Caramella, Cesare Cases, Severino Cesari, Grazia Cherchi, F,rancesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Stefano De Matteis, Bruno Falcetto, Fabio Gambaro, Piergiorgio Giacché, Giovanni Jervis, Filippo La Porta, Gad Lerner, Claudio Lolli, Marco Lombardo Radice, Maria Maderna, Luigi Manconi, Danilo Manera, Edoarda Masi, Santina Mobiglia, Maria Nadotti, Antonello Negri, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli, Bruno Pischedda, Roberto Rossi, Franco Serra, Marino Sinibaldi, Paola Splendore, Gianni Turchetta, Emanuele Vinassa de Regny, Gianni Volpi. Direzione e,ditoria/e Lia Sacerdote Proge110 Grafico Andrea Rauch/Graphiti Ricerche iconografiche Fulvia Farassino, Nino Perrone Pubblicità sei/ore editoriale Emanuela Merli Via Giolitti, 40 - 10123 Torino Tel. 011/832255 Hanno inoltre collaborato a questo numero: Pasquale Alferi, Antonio Aliverti, Francesco Cavallone, Paola Costa, Vincenzo Cottinelli, Riccardo Duranti, Giorgio Ferrari, Piero Gelli, Giovanni Giudici, Orietta e Gianni Guaita, Pilin Hutter, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Ea Mori, Grazia Neri, Emanuela Re, Renato Solmi, Michele Valdivia, il Festival Cinema Giovani di Torino, la casa editrice Garzanti, le librerie Feltrinelli di via Manzoni, Milano Libri e La nuova corsia di Milano. I saggi e interventi di caral/ere scientifico vengono pubblicati con il concorso del "Progel/o Cultura Montedison ". Editore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Tel. 02/6690931-6691132 Fotocomposizione e montaggi multiCOMPOS snc Distribuzione nelle edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Telefono 02/8467545-8464950 Distribuzione nelle librerie PDE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (Ml) - Tel. 02/4473146 LINEA D'OMBRA mensile di storie, immagini, discussioni Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo lll/70"7o Numero 22 - Lire 6.000 Abbonamenti Abbonamento annuale: ,ITALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscritti non vengono restitui1i. Si risponde a discrezionedella redazione. Bi t)(iofecasieGi ncts· a neo LINEDA'OMBRA anno V dicembre 1987 numero 22 Sommario EDITORIALI 4 6 9 11 Gianji-anco Beltin Piergiorgio Giacché Vincenzo Consolo Gunther Anders Lnntano, ma dove? Piccolo privato e grande pubblico Il corpo e l'ombra Per la critica del lavoro IL CONTESTO 15 26 60 Horror (S. Benni), Giornali,ti (O. Piv.elta), I numeri (G. Almansi), Sport (L. Manconi), Confronti (G. Fofi), Cinema (G. Volpi), Avventure (B. Falcetto), Iniziative (F. Ungaro/G. Francobandiera), Dai lettori (A. Martinelli), Incontri (H. Caldicott/G. Bettin/R. Gregoletto). POESIA Michele Ranche1ti Erwin Schrodinger Poesie Poesie STORIE 41 48 50 61 72 58 29 36 54 65 77 78 Ota Pavel Rubén Dario Tess Gallagher Camilla Cederna Sergio Atzeni Al servizio della Svezia D.Q. La lebbrosa Ritratto di De Chirico Araj dimoniu (seconda parte) NARRARELASCIENZA E. Vinassa de Regny INCONTRI Graham Swif1 Hugh Nissenson SAGGI John Barlh Paolo Ber/inetti l·.r11in Sdirèidingcr, fi.,ico e poeta Tçrra, e acqua, e storia a cura di Paola Splendore Il passato dell'America a cura di Regina Hayon Cohen Brevi note sul minimalismo Il teatro inglese degli anni '80 La copertina di questo numero è di Franco Matticchio (distr. Storiestrisce). Pro-memoria Gli autori di questo numero

DISCUSSIONE LONTANO, MA DOVE'? Gianfranco Bettin Elafrhani Amine, marocchino, è un sociologo, ma il suo intervento al convegno Lontano da dove. La nuova immigrazione e le sue culture (Milano, 6-7 novembre '87), aveva quasi un tono romanzesco. Puntuale nel riferire precisi dati oggettivi e, come si dice, strutturali, acquistava forza e suggestione di racconto esponendo un'esperienza (personale e collettiva) che in realtà si compie in un duplice viaggio. Il viaggio - per molti una vera odissea - attraverso le geografie del mondo (politiche, economiche, sociali e culturali) e il viaggio dentro un mito e un sogno. Amine descriveva le radici delle nuove immigrazioni, la povertà, la fame o l'oppressione da cui fuggono, mc}anche l'illusione che viene proiettata sulla meta di quella fuga, l'Occidente. È un Occidente sempre più televisto, cioè sognato da lontano, ma anche immerso in sequenze multimediali che ne riproducono splendori e abbagli per ogni contrada del "villaggio globale". E con queste immagini negli occhi, con questi miti e sogni, che fiumi di persone lasciano ogni anno, ogni giorno, i propri luoghi d'origine e si dirigono lontano, verso i paesi ricchi (ricchi proprio perché essi sono poveri, cioè spogliati di risorse, risucchiate dal Nord del mondo dove infine le incontreranno di nuovo, sotto forma di beni di consumo, di merci, di sprechi inimmaginabili). Nessuno sa quanti siano, non solo in tutto il mondo - dove costituiscono quasi un "sesto continente", mobile, alla deriva - ma neppure su scala più ridotta. Non si sa, per esempio, con precisione nemmeno quanti immigrati stranieri vi siano in Italia. Nella relazione introduttiva al convegno milanese (promosso dall'Amministrazione Provinciale), Umberto Melotti considera attendibile la stima del Ministero degli Interni di 1.200.000 immigrati tra regolari e clandestini. Melotti individua dieci principali tipi d'immigrazione, che differiscono per varie caratteristiche: soggetti (sesso, età, grado di scolarità, ecc.), motivazioni (economiche, politiche, culturali, ecc.), progetti migratori (a breve, medio, lungo termine), settore d'inserimento professionale, condizione giuridica formale (regolare o irregolare), problemi, aspettative, speranze. L'immigrazione più numerosa, è quella degli arabi del Nord Africa, iniziata nei primi anni '70 (ma la comunità straniera più antica in Italia, ormai "incapsulata" è quella cinese). L'immigrazione araba è prevalentemente di giovani maschi, celibi, o comunque soli, con motivazioni soprattutto economiche, spesso stagionali e irregolari. I più organizzati sono i marocchini, mentre i più numerosi sono gli egiziani. Dalle Filippine provengono soprattutto donne, invece, giovani e nubili, da sole comunque, che arrivano con un progetto di rientro a breve o media scadenza ma che spesso devono prolungare il periodo di soggiorno. Femminile è anche, in prevalenza, l'immigrazione dalle isole africane di cultura creola (Capo Verde, Mauritius, Seychelles) e da alcuni Stati dell'India Occidentale (Goa, Kerala). Estrema la situa- ' biiotecaGino Bianco zione di Capo Verde, regione poverissima, con più cittadini all'estero (450.000) che in patria (300.000). Da Ceylon, oltre ai singalesi giunti in Italia con motivazioni economiche, provengono gli appartenenti alla minoranza etnica di religione induista, i tamil, fuggiti da Sri Lanka dopo le stragi dell'83, per ragioni politiche. Rifugiati politici, di fatto, sono anche gli eritrei, ormai una comunità numerosa e politicamente organizzata, culturalmente viva e attiva. Spiccate caratteristiche di "rifugio politico" distinguono l'immigrazione che proviene dai Paesi del "cono sud" del!' America meridionale: Brasile, Uruguay, Argentina e Cile, come pure, dal Centro America, Salvador. In costante aumento, negli ultimi anni, gli immigrati dal!' Africa a sud del Sahara (la cosiddetta" Africa nera"): è la più disgregata, composta da giovani maschi soprattutto, spesso allo sbando da una città all'altra, senza precisi progetti, che vivono alla giornata. È in questa vicenda, nota Melotti, che "l'odissea dell'emarginazione celebra i suoi fasti". L'immigrazione di tipo commerciale, infine, di operatori del terziario, impegnati in transazioni import/export con i Paesi d'origine, è la più benestante e solida. Queste dunque le provenienze, che disegnano una mappa della fuga ramificata in ogni angolo del pianeta. In effetti, non sembra esistere zona libera da "ragioni di fuga", siano esse dettate dalla povertà o dall'oppressione o dall'assenza di prospettive gratificanti. Certo l'Occidente si pone insieme come miraggio e come ricovero, approdo di un viaggio al quale non si può o non si riesce a rinunciare e per affrontare il quale si è disposti a correre molti rischi (compreso quello del "salto nel buio"). In un articolo, uscito l'estate scorsa su "Repubblica", Lucia Annunziata ha ricostruito la vicenda dei diciotto immigrati illegali morti soffocati in un treno nel tentativo di passare dal Messico agli Stati Uniti. Il "sogno del brujo" (il "mago", soprannome di uno di essi, in questo caso), nasceva nel torpore e nello squallore povero di un villaggio. "Qui il tempo è così noioso che uno non si accorge se dorme o se è sveglio", diceva un ragazzo amico del Brujo avvicinato da Lucia Annunziata nella sua inchiesta. La radice, qui, non penetrava tanto in un sostrato di miseria o di oppressione, quanto in un desiderio di nuovi percorsi, in una inquietudine che vive nelle nuove generazioni del Terzo Mondo e che distingue l'attuale dalla vecchia emigrazione. Anche per questo, l'impatto con la realtà tende oggi a prodursi in modalità più complesse di un tempo. La delusione rischia spesso di risultare più profonda, più angosciante - sia materialmente che sul piano esistenziale e culturale. Ma le potenzialità del rapporto tra questa immigrazione e le società riceventi ne risultano ampliate. In sostanza, esse paiono disporsi lungo tre direttrici: l'integrazione nel nuovo mondo (in un punto della sua scala sociale); la permanenza ivi, più o meno provvisoria e comunque finalizzata a un ritorno nel paese d'origine; la permanenza anche prolungata (o addirittura definitiva) ma conservando le proprie radici e le proprie culture. Ovviamente, specialmente laddove l'emigrazione è di tipo prevalentemente obbligato, interven-

gono alcune variabili a determinare la direttrice di percorso. Il lavoro, innanzitutto, e le sue condizioni. Attualmente, in Italia, gli ambiti di collocamento degli immigrati, nella più parte, risultano quelli del lavoro domestico (per le donne soprattutto) e quelli confinati nelle mille forme del lavoro irregolare e "nero", o regolare ma rifiutato dagli indigeni, sia nell'industria che nel basso terziario. Lavoro intellettuale, spesso non meno precario e "nero", ne svolge in particolare l'immigrazione di tipo politico (ma non solo, perché il tasso di scolarizzazione è piuttosto elevato, nella media degli immigrati, contrariamente a quanto si potrebbe pensare), mentre le attività commerciali più solide e remunerative riguardano minoranze o comunità più ampie e da maggior tempo radicatesi (attive spesso nel campo dell'artigianato "tradizionale" o, come i cinesi, della ristorazione tipica). La gran massa degli immigrati, è tutt'altro che inserita in un sistema di garanzie e di procedure tale da favorirne un approccio in qualche modo controllato, agevolato. La stessa legge di tutela e di sanatoria delle condizioni dei lavoratori stranieri in Italia, approvata nel gennaio scorso, tende soprattutto a imporre un censimento e una riconoscibilità legale degli immigrati e, nella sua limitazione temporale (prorogata di tre mesi in tre mesi fino a questo ottobre), a scoraggiare e frenare nuovi flussi. La legge registra e riproduce un atteggiamento diffuso ormai in molti paesi dell'Occidente, premuti, o addirittura sedicenti "assediati" dalle ondate in arrivo dai paesi poveri. In ogni paese occidentale, ormai, si è stratificata una sorta di società parallela, composita, con pochi o nessuno dei diritti riconosciuti ai cittadini legittimi. Si assiste così al formarsi, ad esempio, di un mercato del lavoro clandestino, incontrollato, o di una categoria di persone giuridicamente prive di garanzie, "inferiori". È in questa situazione che svaniscono non solo i sogni del BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE Salvadoregni a Milano (foto di L. Golderer e V. Scifo) Brujo, ma anche le più concrete e irrinunciabili aspirazioni materiali, professionali, culturali. Respingendo le tentazioni di chiusura, come pure le velleità di fare dell'Italia un grande paese d'immigrazione, il convegno si è espresso in favore di uno sforzo complesso d'apertura. "Dobbiamo cominciare a misurarci con i problemi della società multi-etnica, multi-razziale e multi-culturale in formazione, assumendo tutte le necessarie misure per quanto concerne sia la promozione dell'integrazione sociale degli immigrati, sia la salvaguardia e la promozione della loro identità culturale. In proposito bisogna essere pienamente consapevoli che la formazione di una società multi-etnica, multi-razziale e multi-culturale (che pure sola può dare una positiva risposta alle tendenze in atto) non è di per sé una soluzione. Basti dire che anche il Sud Africa è una società multi-etnica, multi-razziale e multi-culturale. Il processo va quindi orientato e guidato, con sensibilità e lungimiranza" (Melotti). Il punto interrogativo principale, però, riguarda proprio questa sensibilità lungimirante. In che misura essa è ancora possibile nell'Occidente che vive consumando 1'80% delle riserve globali del pianeta (pur senza essersi ancora liberato delle proprie ingiustizie interne) e lascia il residuo 20% del prodotto mondiale al 78% della popolazione complessiva? In che misura è possibile, resistendo alle tendenze xenofobe, motivate da ragioni, per così dire, protezionistiche sul mercato del lavoro o da altre, più profonde e conturbanti, di natura psicologica e culturale? La nuova immigrazione, con le 5

DISCUSSIONE sue culture, viene da lontano, ma dove arriva? Il disagio, lo spaesamento, la paura che dall'interno corrodono l'Occidente (e si alternano alle sue tentazioni autoritarie, al compiacimento per i suoi privilegi inauditi), non sono, a volte, meno intensi e brucianti della scossa che spinge fuori dai paesi d'origine i popoli in marcia del "sesto continente". Verso i quali, anche restando nell'ambito degli atteggiamenti di "apertura", il grado e le forme della solidarietà variano di molto - dai pianti di coccodrillo, alle mega-kermesse tipo Live Aid, tra estetismo e ipocrisia, all'impegno costante e consapevole di movimenti e centri di cooperazione e solidarietà autentica. Di tali movimenti e gruppi l'Italia stessa è tutt'altro che carente, e il convegno milanese ne ha dato prova (proponendo testimonianze dirette e materiale di documentazione). Ma l'Italia è anche il paese in cui, ogni sabato sera, si regalano ottanta milioni a uno come Massimo Boldi (o, ancor più pagato, come Celentano, fa lo stesso) per dire quattro stronzate "spiritose" nella stessa trasmissione che mostra "in diretta", per la commozione e il "sentirsi buoni" di undicidodici milioni Auditel di italiani, la costruzione di un confortevole villaggio per i poveri africani sponsorizzata da un detersivo (e, naturalmente, abbinata al favoloso concorso ecc. ecc.). L'ultimo mito dell'Occidente, riversato ovunque, teleridondante, è il suo fare di ogni cosa spettacolo, immagine (per cui può esistere, e vendersi!, perfino il "look-povero") e, in quest'atto, cercare di sublimare i contrasti, le angosce, la perdita progressiva di radici e di identità. Così, come un tempo di questo disagio si faceva arte, o pensiero critico, sempre più spesso oggi si fa spettacolo, merce e mistificazione. Cresciuti altrove, il sogno del Brujo e i bisogni di qualsiasi emigrante in fuga o alla ricerca di rifugio e di fortuna, arrivano qui. Dove, in effetti, essi infine si trovino non è facile dire. PICCOLOPRIVATO E GRANDEPUBBLICO Piergiorgio Giacchè La vera cultura, quella utile, è sempre una sintesi fra il sapere accumulato e l'osservazione instancabile della vita vivente. F. Alberoni C'è qualcosa di nuovo oggi nel libro. Anzi d'antico. Se talvolta capitava che illustrazioni artistiche o voluttuose ingannassero il compratore di volumi noiosi o ponderosi, oggi si è tornati a rinnovare una più sincera corrispondenza tra confezione e contenuto. Se questo vale per il lancio dell'ultimo libro da spiaggia, che tanto ha fatto parlare (e vendere) per la sua copertina gonfiabile, non tutti hanno raccolto e compreso il segnale di disimpegno, con cui si è varato il modello estivo della gloriosa ibliotecaGino Bianco serie "saggi blu" della Garzanti. Eppure la sopra-copertina balnear-metafisica dell'ultimo libro di Alberoni, non dava adito a equivoci: il tavolato di una presumibile cabina da mare con nuvoletta di fumetto in bianco, epperò segato via da un quadro di Magritte, doveva far supporre un leggero bluff. O un più deciso pluff! E così era per molti (e per davvero), almeno fino a quando le cifre delle vendite non hanno permesso, ai grandi re0 censori distratti, di ritornarci su: magari per parlare, più che del libro di un sociologo, del fenomeno sociologico della fortuna di un libro. Dev'essere stata una manna per l'autore, che, per nulla meravigliato da un suo ennesimo best-seller, dopo tutta una serie socio-rosa con tanto di sponsor e giochi da salotto per signore, aveva in fin dei conti raccolto (o come si dice, "curato") i pezzi di fondo pagina della sua fresca attività di corsivista di lusso del "Corriere", forse al solo scopo di non restare troppo a lungo assente dal mercato. (I sociologi le pensano di sicuro, queste cose.) Trattandosi di cosette un po' slegate, e che infine parlavano del più e del meno, occorreva un titolo altrettanto generico, ma dentro i limiti di una dichiarata commerciabilità; e quello della rubrica tenuta ogni lunedì dall'autore era perfetto: Pubblico & Privato. E il piccolo "pastiche" fu promosso a vero pasticcio. · Un piccolo privato Un libro fatto di ritagli di giornale è ingiusto. In primo luogo, sicuramente, verso l'autore. Per la verità sono frequenti le antologie di recensioni di cinema o di teatro: anche lì l'autore è sempre lo stesso e il mestiere è sempre sbrigativo, anche se il genere e la pagina richiedono uno sforzo speciale. Ma lo spettacolo o il film ogni volta cambiano, e costringono al confronto con idee e immagini di altri diversi autori, e spesso di una certa qualità. Inoltre l'utilità è indiscutibile: ai collezionisti e specialisti si è aggiunta la schiera dei funzionari e operatori culturali e si sa quanto servono le recensioni per un programma di giovane teatro, le critiche d'annata per un modesto cineclub! Negli altri casi, ritagliarsi il proprio libro da un giornale, equivale a proporsi all'osservazione del modo deformato e ossessivo di un film, che ripete, uno dietro l'altro, dei gesti o degli impegni che si sono consumati isolatamente, e per di più collocati nel ritmo e nel perdono della velocità quotidiana. Vengono così a galla e in mostra i tic impercettibili, le trascurabili mancanze, le piccole fobie e i generici difetti: amplificati nella moltiplicazione di un libro, diventano imperdonabili. Nel montaggio di una loro incessante ripetizione, si producono-essi stessi come argomenti principali. Ed è questa la involontaria offerta di un interessante contenuto: l'autore e le sue idee si trovano esposte in bella evidenza, al posto dell'oggetto, del pretesto, dell'occasione su cui si misuravano, e dietro i quali non possono più nascondersi. Si indovina qualcosa di davvero "privato" nel lavoro più pubblico (da essere pubblicato) di un uomo pubblico.

DISCUSSIONE "li 'laicismo' di Alberoni traspare dalla scelta di una media difficoltà del linguaggio, della media cultura dei riferimenti, della selezione di un mediocre comportamento e mediocri casi nel mezzo preciso del vasto ceto medio ... " Nel caso del libro di Alberoni, dunque, la filza di note e giudizi sul costume, hanno l'effetto di rivelarci (tutte e troppe, insieme) qualcosa sul filosofo e censore. Certamente non tanto su di lui personalmente, ma, pur restando sotto la copertura del suo ruolo, ci fanno intravedere il senso intimo di quel ruolo. Come se l'incarico e l'attività non fossero tutta struttura e facciata, ma anche "anima": è questa la zona privata che pare venire alla luce. È il ruolo che si tradisce e mette a nudo qualcosa di soggettivo e intanto di generalizzabile, per quanti altri svolgono un compito simile. Per fare un esempio consideriamo una costante. Non può essere un caso se i capitoli intitolati al "chiasso", alla "volgarità", al "linguaggio osceno", alla "maldicenza", e infine l'intera parte dedicata alla "violenza nascosta" è densa di tardivi rimproveri verso (e di falsate memorie su) un ancora indigesto Sessantotto. Non può certo trattarsi di un'animosità personale ancora non sopita. E nemmeno nel rammarico di non potersi considerare un "pentito". Certe acrimonie e certi quadri foschi, i toni e i fatti tipici di un esagerato scandalismo, ricordano i cronisti di destra del tempo, tutti intenti a descrivere o supporre le orge, i vandalismi, i deliri degli "studenti dell'occupazione" (come da canzone d'epoca). Non può nemmeno motivarsi con la supposizione (per davvero tanto ingenua quanto retrò) di un lettore del "Corriere", così datato e così nostalgico, da gradire un autorevole ristabilimento di Verità e Valori, da parte del sociologo in voga (nemmeno mettendo nel conto il gusto di riscattare una materia di così sinistra memoria). No. Non può essere una personale e ritardata polemica con quei giovani "che negli anni Sessanta si credevano perfetti". Piuttosto è la necessità "privata" del ruolo di censore, commentatore, corsivista, che ha bisogno di rintracciare e usare un "cattivo esempio". Che deve regredire finché ne trova a sufficienza, e sufficientemente comprensibili al grande pubblico. È il bisogno di tener vivo il ricordo (non importa quanto veritiero) di un "cattivo tempo" da contrapporre a questa attuale e rilassata età, forse non dell'oro, ma almeno dèll'argenteria. E si ha il vantaggio di poter colorire efficacemente il confronto, se si adopera un esempio e un tempo di riconosciuto estremismo. Si costruisce con maggiore facilità ed economia una breve parabola, un azzeccato proverbio. Ma ancora, perché il corsivista di turno e di lusso ha bisogno di parabole e.proverbi? Che ci rivela questo, sull'anima, del suo ruolo? Un mio amico da qualche tempo ha azzardato un paragone fra giornalisti e preti. Trovo ancora ingeneroso questo raffronto, per i preti ovviamente. Eppure è vero che le funzioni del consenso, della consolazione e naturalmente dell'informazione, sono passate in mano ai nuovi piccoli funzionari della scrittura del giornale. Così come è vero che (eccettuata un'ora di scuola) "non c'è più religione!". In effetti, applicando la similitudine proposta al libro delle operette morali di Alberoni, così come alle note quotidiane del folto gruppo di politologi di pregio, giù giù fino ai croBibIiOÌeCaGino Bianco nisti di rango, sembra di poter scoprire qualcosa di più di una somiglianza di funzione. Fra prete e giornalista si verifica una strana coincidenza, anche all'apparire di quella che abbiamo definito l'immagine "privata" del ruolo pubblico. Se si rispolvera le vecchia cultura anticlericale e si recupera quel Prete, aggettivo con la maiuscola, che si affibbiava alla vista di un atteggiamento di inganno paterno, di ipocrita commiserazione, di interesse meschino, ci si accorge che quel Prete raffigurava appunto uno dei caratteri "privati" del comportamento in pubblico. E in tante penne, quotidiane e infaticabili costruttrici di buon senso spicciolo, di calcolata moderazione, di falsa comprensione, si indovina la somiglianza con quel Prete, dalla mano di pesca e la parola di mela... Strana è piuttosto l'ostinazione di qualunque "giornalista" nel definirsi "laico" (fino a sperare che "laico" e "giornalista" divengano sinonimi), o meglio nell'edificare il laicismo come atteggiamento del pensiero. C'è un ardore (e un potere) tutto clericale in questo. L'indiscutibile laicismo di Alberoni traspare da molte serie preoccupazioni. "In medio stat omnis" è come un motto araldico: vale per la scelta di una media difficoltà del linguaggio usato, della media cultura delle citazioni e riferimenti, per la selezione di un mediocre comportamento, per la mira con cui sono scelti i casi narrati e i lettori ideali, nel mezzo preciso del vasto ceto medio, ecc. Arriva fino a suggerirci l'immagine di qualcuno che vuol dare mediatamente ragione alla media ragionevolezza; che talvolta sembra volersi fer, mare nel mezzo di un ragionamento; che arriva all'assurdo di non aver mezzi fini, perché ai fini ha senz'altro sostituito i "mezzi", in tutti i sensi, anche in quello di "metà", al posto di "mèta". Quella che sembra la preoccupazione e l'amore per la dialettica, potrebbe non indicare una scelta di campo, ma un metodo necessario per l'applicazione pignola della mezza misura. Ogni quadretto descrive non tanto lo scoppio di una contraddizione, ma si muove leggero sul campionario di cento frivoli quotidiani conflitti. La coppia è quindi onnipresente, ma non perché terreno ostinato di una competenza specifica dell'autore (come starebbero a dimostrare i libri precedenti): non è più, prima di tutto, il luogo o il simbolo di una elementare ma fondamentale relazione umana. La coppia (certamente "uomo-donna", ma anche di ogni altro genere e astrattezza) è la basilare situazione, perché possa avvenire un semplice e matematico confronto. Un confronto, e perfino un contrasto, ma non troppo eccessivo o volgare, che surroghi, e faccia dimenticare, la più forte e paleopolitica "contraddizione"; che si possa assumere come una dolce antinomia, quasi un poetico ossimoro, per sostituire o attutire la rumorosa, antiquata dialettica. La pedagogia a presa rapida di un quotidiano si può interessare solo di conflitti garbati, che non devono riassumere o simboleggiare le contrapposizioni più drastiche o drammatiche, scartate per questioni di funzionalità o di 7

DISCUSSIONE stile. Piuttosto quei conflitti servono invece a distrarre; seguono l'ambizione di rimuovere le contraddizioni dell'osservazione della realtà. Di sostituirle nella attenzione e nella memoria del lettore. Attraverso l'esibizione di gentili bisticci e cortesi incomprensioni, si promuove l'oblio dei litigi più esasperati, la loro stigmatizzazione come estremisti, forse veri, ma poco dignitosi per persone educate e civili. L'obiettivo sembra essere quello di contribuire alla fondazione di un moderno galateo. La riflessione va condotta in modo pacato e compito: dare ragione a tutte le ragioni, per scegliere un comportamento sensato e indolore, che è poi quello di limitarsi alla riflessione stessa. La maniera dell'intervento si discosta di molto dalla libellistica veemente di un Bocca, o dalla trattatistica recrin:iinante di un Biagi. I cattedratici paiono prelati di grado più elevato: sembra che ai vecchi predicatori legnosi e stopposi, che risentono di una formazione più battagliera, si voglia aggiungere un piu elevato livello. Gli Alberoni, come i Vattimo, i Della Loggia, ad esempio, sono giornalisti non per dovere, ma per missione. Se a quest'ultimi è affidato il cielo della filosofia politica, agli Alberoni è delegato il compito, più paziente e operativo, della compilazione di un manuale di buona creanza, a uso dei neo-colti (che sono succeduti ai neo-ricchi di un tempo). L'imposizione della moda, dell'abito che elimina il problema del monaco, basta fino a un certo ceto e solo per il comportamento in pubblico. La moderazione come regola e certezza, d'altra parte, non è più sufficiente. L'aspirazione centrale del lavorìo migliorista del più avanzato giornalismo è quella di articolarla, di riempirla di tutte le piccole idee e gesti e gusti che servono. Non è più il tempo dei finti Catoni (sembra suggerire Alberoni), la repubblica, ma anche il "Corriere", ha bisogno di stendere le nuove pedanti georgiche dell'agri/cultura. Il grande pubblico Quando nella monotona varietà del mercato, si riesce a intravedere la vivace apparenza di una contraddizione, ci si butta a pesce. Tanto si sa di vivere protetti dalla norma irrefutabile di una appiattita conformità, nella quale ogni opposizione è riducibile e pacificabile in un accostamento, fors'anche bizzarro, di colori. E finalmente si può appagare lo sguardo e accontentare il cliente che è in noi: comunque vada, ad acquisto terminato, si può pur sempre scegliere se farne sfoggio in pubblico o farne uso privato. Eppure è proprio la tranquilla distinzione di questi due ambiti a essere in crisi: può darsi che la stessa frequente disinvoltura con cui si passa dall'uno all'altro, li stia rendendo monocromi. Certo è che, in questo periodo almeno, "pubblico" e "privato" rappresentano la coppia di opposti più confusamente somiglianti che esistono. Sarà per questo che si insiste tanto a spacciarli come diversi: finché regge una plausibile loro distanza psicologica, nella ravvicinata, omologata, tascabile disponibilità, si potrà disporre di uno degli 'bliotecaGino Bianco ultimi, convincenti meccanismi con cui alimentare la sensazione di scelta. Una sensazione che ciascuno sa bene quanto valga per la difesa del mercato, e quindi della libertà. L'impressione generale comunque è che le grandi oscillazioni di valore, dall'uno all'altro polo, che sembrano aver caratterizzato gran parte della società e cultura contemporanea, con tanto di traumi di passaggio, dall'era delle pubbliche glorie a quella delle private virtù, oppure nella più rapida e recente tornata tra il "politico" e il "personale", si stiano attenuando. All'osservatore attento non potrà certo sfuggire la prosecuzione della legge indistruttibile dell'isocronismo, ma dovrà ammettere che il movimento si va facendo impercettibile. Mentre si scandisce un'immutata differenza di qualità, è vero che la quantità della distanza, tra pubblico e privato, si è quasi annullata. Ed è proprio questo che si celebra e festeggia, da quando il "look" è tutto lo spazio concesso all'indentità. Da quando entrare e uscire da un vestito, o da un locale, o da un rapporto, esprime quasi tutta la cinetica concessa al soggetto per la sua rappresentazione. Può darsi che contributi come quelli di Alberoni siano complici o servano a magnificare questa visione della realtà. Può darsi invece che rinchiudere l'intervento verso un privato o un pubblico, entrambi quasi per intero partecipi della ridotta sfera del "personale", sia individuare un ultimo ragionevole baluardo. Ma è vero che tale visione di realtà esiste, e conta più di un processo alle intenzioni. Anzi offre il contesto dove l'intervento volante di un giornale (o pesante di un libro) può guadagnare nuove spiegazioni, può mostrare le sue ragioni. In altre parole, si può smettere di accusare l'emittente responsabile, per sbirciare verso il ricevente irresponsabile? Il semplicismo esagerato dell'autore è davvero tutto dovuto al calcolo del minimo sforzo, oppure è anche misurato sull'obiettivo del massimo effetto? Insomma, quanto è semplicista lo scrittore e quanto è invece semplificata la realtà del pubblico? Ci deve essere una relazione fra l'autore e il suo mondo (si sarebbe detto una volta); e quindi, oggi, ci deve essere una conveniente quota di buona fede nell'ipotizzare l'immagine e la realtà del proprio pubblico. Può darsi che si debba allora ridurre lo scandalo per un libro, che pure con la somma dei fastidi dei singoli brani, fa salire l'irritazione fino al livello in cui molla la presa, in cui entra in circolo e in dimenticanza, per far posto allo spavento di una sua possibile utilità (e non commerciale efficacia), verso una parte qualunque dei suoi acquirenti. Non prendersela dunque con la solita azione consolatoria e la reazione di riconoscimento, non con la comodità di un accordo evidente da parte dei lettori, ma agitare il sospetto che perfino le disquisizioni da calendario, le ragionevolezze compìte e spente, i pochi grammi o le tracce della dialettica rappresentino, sia pure con minima incidenza, una miglioria culturale apprezzabile, per qualcosa o da qualcuno. Alla fine, se il terreno sociale è davvero tanto amorfo o malridotto (si dirà) una qualunque pioggia di apologhi,

DISCUSSIONE "Ha detto Cimino di voler raggiungere la verità attraverso i sogni. Ma Il Siciliano parla di una verità che nessun nero di pagina o della notte, nessun oscuro sogno siculo-americano può adombrare e oscuramente reinterpretandola mistificare.'' sui buoni e i cattivi, gli egoisti e gli altruisti, le mogli e i mariti, i padri e i figli, gli avidi e i generosi ... non può che "far del bene". A quale altro fine sennò affannarsi per costruire ed esibire le proprie piccole ricette di saggezza? Tutto questo può essere: e può valere. A meno che anch_e l'autore sia malaccortamente divenuto parte, integrata e prima, di quel pubblico cui si rivolge. Non troppo da lontano, sembrerebbe, dal segnale di compiacenza che si legge nell'accesso di saggezza. I ragionamenti troppo ragionevoli rischiano per davvero la fine dei proverbi: quando le osservazioni e le critiche si incrociano e si alternano, la scrupolosa educazione non sta nel metodo, ma nella volontà di conseguire un pareggio. Per non ferire sul serio qualcuno, il pareggio migliore è sullo zero a zero. Proprio come la somma algebrica di tutti i proverbi popolari è sempre zero: al detto che avverte di un rischio, corrisponde quello che svela il pericolo contrario, e fa quadrare i conti. Zero era veramente il numero della saggezza, in quelle società statiche, che, come dice Alberoni, sono scomparse per sempre. Ma proprio il suo rinnovato "zero", ci conferma il dubbio che la differenza con i vecchi e vecchissimi tempi non stia più nel pubblicizzato dinamismo. La statiticità, nuova di zecca, sembra tornata d'attualità: è veramente alle porte e appesa alle cravatte di un esercito neoconformista, come non lo si vedeva da anni. E mai così placidamente immoto e apparentemente immotivato. Certo i tempi sono cambiati, e anche i commentatori. Una volta, armati di santa sociologia, avrebbero cercato di capire il sonno, invece di vendere sonniferi. Una volta, proprio il "Corriere" riprese l'uso di firme nobili e famose, da sbattere in prima pagina. E naturalmente nessuno trovò da ridire quando si raccolsero in libro gli articoli di Pasolini. Né però la differenza è soltanto quella di statura, di spessore, di firma. Il fatto più amaro è che è finito da tempo l'eco degli Scritti corsari: oggi incrociano al largo delle prime pagine dei giornali, soltanto i galeoni del Governatore. Dunque le battaglie, sia pure navali, hanno lasciato il posto ai problemi di pesca e di stazza di una flotta mercantile: e bisogna ammettere che, nella vivace gara di altezza e agilità tra tutti i pennoni degli opinionisti-alfieri della stampa quotidiana, pochi possono oggi competere con gli Alberoni maestri del glorioso "Corriere''. IL CORPO E L'OMBRA Vincenzo Consolo Sovraccoperta in carta patinata su cui campeggia la fotografia di Christopher Lambert-Salvatore Giuliano; copertina di cartone foderato di tela nera; pagine nere in cui annegano foto a colori e in bianco e nero; testo su pagine bianche in corpo gigante incorniciato, virgoletettato, tagliaBibiiotecaGino Bianco to, scandito da bande, da linee, da liste nere: una grafica, uno stile, una "eleganza" che vuole riecheggiare le edizioni "continentali" di Franco Maria Ricci (hélas!). Così si presenta un libro dal titolo Il Siciliano - nel film di Michael Cimino, di David James e Roberto Andò, a cura di Domitilla Alessi - Edizione Novecento di Palermo. Libro che si apre, dopo pagine e pagine nere e vuote come la notte o la morte, con una pagina bianca, al cui centro, come fosse un versetto del Vangelo o un pensiero di Platone, campeggia questa frase di Michael Cimino: ''Credo che si possa raggiungere la verità attraverso i sogni piuttosto che attraverso i fatti". Che vuol dire? Che attraverso l'interpretazione dei sogni si può conoscere la verità altrimenti inconoscibile? Ma attraverso quali sogni, quelli suoi personali, attraverso i notturni fantasmi di Cimino? E quale verità si può raggiungere, quella sua soggettiva, di lui Cimino, la verità sua psichica? E a noi cosa importa? Che vada dall'analista suo di Nuova York, questo signore, che a lui consegni pagando le sue notturne ambasce al puzzo (con due zeta) di whisky, coca e sudore; o che smorfi i suoi sogni e ne giochi i numeri in un botteghino di Bruccolino o di Palermo: 47, morto che parla; 52, eroina; 87 pizza connection ... Il fatto è che questo ineffabile Cimino, regista del film Il Siciliano, da cui il libro di cui sopra scaturisce e che a sua volta scaturisce dall'omonimo romanzo di Mario Puzo (con una zeta), parla di una verità storica, chiara e inconfutabile. Verità che nessun nero di pagina o nero della notte, nessuno oscuro sogno siculo-americano può adombrare, oscuramente reinterpretandola mistificare. Alla frase di Cimino fa eco quest'altra di uno dei due autori del libro: "Ci sono buone probabilità che le due vite parallele, del cinema e della storia, o platonicamente dell'ombra e del corpo che vi si riflette, arrivino a coincidere, o che addirittura la prima duri più della seconda". Si parla qui della realtà e della sua rappresentazione, della verità e della menzogna, del corpo e della sua ombra. Come l'ombra proiettata sulla parete della mitica caverna di Platone. E allora può accadere, come nel bel racconto di Diirrenmatt Guerra mondiale nel Tibet, che riprende quel mito, che gli uomini della caverna, sparando contro le ombre della parete, si uccidano coi colpi che rimbalzano indietro: può accadere che la realtà sia uccisa dalla finzione, la verità dalla menzogna. Ma qui no. La verità storica di cui si parla è inscalfibile, sta fuori dalla caverna, esposta alla piena luce del sole. La semplice e netta verità storica che si vuole mistificare e uccidere per fini, diciamo, "ideologici" o di mero profitto commerciale, è questa: Salvatore Giuliano, il Siciliano del film di Cimino, ragazzotto istintualmente ribelle al potere costituito agli esordi del '43 (in Sicilia, a Montelepre) e assassino solitario, diviene poi un killer di professione, un picciotto che spara per conto della mafia, spara contro i carabinieri, contro i sindacalisti del movimento contadino democratico, spara contro i contadini inermi che a Portella della Ginestra festeggiano il 1° maggio del 1947 (undici morti 9

DISCUSSIONE La morte di Salvatore Giuliano: nella realtà, nel film di Rosi e in quello di Cimino. ~bliotecaGino Bianco e ventitre feriti gravi), diviene strumento oppressivo, intimidatorio e antidemocratico nelle mani dei reazionari di sempre, i principi e i baroni feudatari e mafiosi. Questa è la verità chiara. Quella che rimase oscura, che rimane tuttora il primo dei misteri del rinato stato democratico italiano, è la morte di Salvatore Giuliano: la parte avuta, nella sua morte (e in quella poi del suo vice e traditore Pisciotta) dai poteri dello Stato, Ministero degli Interni, Servizi Segreti, Polizia e Carabinieri (oltre a un ambiguo giornalista americano). Partendo da questo mistero, dalle oscure forze che prima mossero e poi uccisero l'incosciente Giuliano, si svolge il bellissimo film, il capolavoro di Francesco Rosi Salvatore Giuliano. "Allo spettatore viene raccontata una storia oscura da un autore che è vittima della stessa oscurità e che non vuole ingannare lo spettatore chiarendogli fatti che chiari non sono, ma gli vuole lasciare intatto ogni dubbio. Il regista pare dunque lasciare che il suo film sia montato dalla situazione, anziché montare la situazione attraverso il film", scriveva Umberto Eco ("Menabò 5", 1962: Del modo di formare come impegno sulla realtà). Quello che invece monta, e monta una ridicola impostura, è Michael Cimino attraverso il film Il Siciliano. Tenta cioè di trasformare uno stupido assassino, nemico della classe da cui proveniva, in un puro eroe alla Robin Hood, alla Diego Corrientes, alla-Pancho Villa o Zapata, in un intellettuale e ribelle sociale, protettore e benefattore del popolo, vittima innocente di forze più grandi di lui. E tenta questa operazione ricorrendo ai mezzi più volgari che la macchina cinematografica americana può facilmente mettere assieme per produrre una merce sporca ma seducente da far largamente consumare alle masse. La prima volgarità è la scelta degli attori, che attori non sono, ma manichini, fotomodelli da sartoria di grandi magazzini, statici calchi umani plastificati e impomatati, con donne nevroticamente artefatte che perfettamente loro corrispondono. Quindi il paesaggio: fotogenico, esotico, piacevole, un paesaggio siciliano visto dalla irrimediabile lontananza umana e culturale e attraverso gli occhiali di plastica di Little ltaly. Il fatto è che in questo orrendo film s'incontrano e combaciano perfettamente (pur con lo scarto temporale di quarant'anni) due mitologie: la mitologia dell'America cresciuta nella povera testa di Salvatore Giuliano con la mitologia della Sicilia (e quindi di Giuliano) cresciuta nella testa incolta e brutale del siculo-americano Cimino. Fra queste due, si inserisce una terza mitologia: quella eterna per il dollaro e la potenza economica americana di certa classe dirigente, di certa "nobiltà" isolana, di coloro cioè che ieri accoglievano nei loro palazzi Giuliano e la sua banda, accoglievano i mafiosi trafficanti di droga, che oggi accolgono i cinematografari americani potenti e di successo; e mettono a loro disposizione, per facilitare le riprese, palazzi e castelli, monumenti, chiese, piazze, strade; si offrono personalmente per essere trasformati in attori e comparse. Il tutto perché la menzogna, l'impostura si compia nel modo più profondo e più proficuo.

"La lavorazione a Palermo si è svolta nell'arco di due settimane, nelle strade e nei vicoli della città, con la preziosa collaborazione del Comune di Palermo e la completa disponibilità del Sindaco di Palermo, Leoluca Orlando"; "Per una nemesi storica, due dei quattro boss che muoiono giustiziati dalla banda nel film sono impersonati da due baroni. Nemesi o attitudine pirandelliana dei siciliani a giocare (non esiste migliore espressione del francesejouer) vari personaggi. Vertigine dell'uno, nessuno, centomila". Ecco che ancora una volta l'opportunismo e il cinismo lo si spaccia per pirandellismo. Come il più brutale e volgare conservatorismo lo si spaccia spesso per pessimismo esistenziale, per disillusione e scetticismo storico, per gattopardismo. PERLA CRITICADELLAVORO Gunther Anders Questo è il testo del discorso pronunciato da Anders in occasione del conferimento del premio Omegna 1962 al libro Diario di Hiroshima, tradotto in quello stesso anno presso Einaudi da Renato So/mi, curatore anche della traduzione di questo testo, apparsa su "Mondo nuovo" del 6 gennaio 1963col titolo Siamo tutti come Eichmann? Non ho mai accettato, finora, premi o onorificenze. Poiché quelli che ci assegnano onoreficenze hanno quasi sempre l'intenzione di indurci ad abbandonare ogni ideale di resistenza. E spesso siamo insigniti da autorità così poco onorevoli, che non possiamo contraccambiarle; da persone, cioè, che permettendosi di concedere onore mentre ne sono esse stesse così sprovviste, corrono il rischio di restarne completamente senza ... ln ogni caso è vero che, accettando un onore, chi lo riceve si obbliga verso chi lo concede; la persona onorata, che riceve l'omaggio, perde così, in qualche modo, la sua libertà; ogni medaglia è una sorta di vincolo. Per questo motivo dobbiamo essere tutti estremamente prudenti nella scelta di quelli da cui ci lasciamo onorare. Ma proprio per questo motivo accetto l'onore che mi viene da parte vostra, e lo accetto con la massima gioia. Perché voglio essere obbligato verso di voi. È pieno di rispetto che sto davanti a voi, che vent'anni fa, _all'epoca del fascismo e del nazionalsocialismo, avete opposto resistenza al terrore; e tra voi penso anche a tutti quelli che oggi sono assenti, che non possono più essere qui, perché sono caduti vittime del terrore. Anche se non conosco personalmente nessuno di voi, faccio parte, tuttavia, di voi, poiché la metà della mia vita è consistita nella lotta contro il fascismo, e ho trascorso diciassette anni in esilio. Certo non mi posso paragonare con voi: poiché all'epoca del terrore e della guerra non ero più in Europa, la mia volontà di resistere non si trovava a dover sostenere l'estrema prova del fuoco. E se sono rimasto un momento in BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE dubbio se dovevo realmente accettare l'onore che mi avevate assegnato, è perché - da un punto di vista morale - in confronto all'ultimo dei partigiani sono stato un nessuno; perché, cioè, dubitavo se avessi veramente diritto a questo onore. Ma io lo accetto. Poiché, come ho detto, gli onori sono vincoli e obblighi e lo accetto per legarmi a voi; per collegare e saldare consapevolmente le lotte in cui siamo oggi impegnati e che mi sento tenuto a combattere, per collegarle e saldarle consapevolmente, dicevo, alla tradizione della vecchia Resistenza antifascista. Accetto dunque, ma a condizione che accettiate che vi contraccambi, che mi permettiate di esprimervi il mio rispetto e la mia reverenza per ciò che voi avete fatto. Cari amici stranieri, è importante mantenere oggi in vita la tradizione della Resistenza antifascista e coltivare la memoria di coloro che allora hanno rischiato e perduto la loro vita. Proprio oggi che i vecchi nemici tornano a fiutare, in certi Paesi dell'Europa centrale, aria favorevole, ciò è importante ed attuale. Ma c'è qualcosa d'altro che è altrettanto, se non addirittura più necessario e urgente. Poiché fedeli sono solo quelli che sono capaci di trasfarmarsi, che sanno rimanere in movimento nell'interesse di un fine che non muta. E noi dobbiamo trasformarci e restare in movimento perché il nemico si è trasformato rapidamente; poiché l'infamia e il terrore a cui oggi siamo esposti non sono più identici all'infamia di ieri e al terrore di ieri; e perché la nuova situazione rende necessari anche nuovi mezzi di resistenza e nuovi mezzi di attacco. Perché capiate subito ciò di cui voglio parlare, vi accennerò a due manifestazioni della nuova infamia e del nuovo terrore. Anzitutto, c'è il terrore atomico universale, con cui ogni Paese che possiede i mostri nucleari può ricattare senza tregua tutti gli altri, e li ricatta effettivamente: il terrore che ci trasforma tutti ogni giorno (compresi i ricattatori) in "morituri", in vittime potenziali. Anche se la catastrofe, la fine dei tempi, non dovesse intervenire, questo terrore fa del mondo intero un solo campo di concentramento; il tempo rimane, da un punto di vista escatologico, l'età finale; non ci sono più possibilità di evasione, Paesi dove ci si possa rifugiare. Per spezzare i reticolati di questo immenso campo di concentramento sono necessari metodi completamente diversi da quelli che abbiamo impiegato vent'anni fa. Inoltre: vivendo noi sotto questo terrore, ci è sottratta ogni libertà di pianificare il nostro futuro: e questa è una privazione di libertà che rende semplicemente cinica l'espressione "mondo libero". E questa privazione di libertà ci umilia e ci demoralizza anche se la guerra atomica non dovesse scoppiare. Poiché non solo rimane incerto, così, il modo in cui si configurerà il nostro futuro, ma non possiamo neanche sapere se ci sarà o meno un futuro. E ciò significa naturalmente, per noi, che non dobbiamo lottare soltanto per un futuro migliore, ma anche solo perchè ci sia un futuro, perché (l'espressione suona paradossale) "rimanga un futuro". In secondo luogo, abbiamo oggi il "terrore morbido", esercitato dai mezzi di comunicazione di massa e dai "peri I

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