Linea d'ombra - anno V - n. 21 - novembre 1987

Nei rapporti tra le opere e i loro "contesti" (perfino per opere che si suole vedere sotto il segno di un "armonico" consenso, come l'Orlando furioso) può venire alla luce un complicato gioco di fratture, di tensioni: il "contesto" si dà spesso, più che nell'immediata direzione del rapporto al pubblico e nelle relative modalità retoriche, in piu sottili strati linguistico-stilistici, in allusioni e richiami a mondi diversi, in nessi di desideri, di angosce, di assenze, che producono modelli conflittuali, che sfuggono a ogni consenso di comunità interpretative definibili storicamente, che lasciano spesso il loro frutto presso pochi destinatari isolati e marginali, tagliati fuori dal flusso delle grandi "istituzioni". C'è poi il problema del rapporto tra i pubblici del tempo storico specifico dell'opera e i pubblici dei lettori che ancora leggono quelle opere, e in particolare quelli a cui i critici rivolgono oggi le loro interpretazioni. Di Girolamo e Brioschi son ben coscienti di tutta la catena di mediazioni storiche tra i pubblici del passato e i pubblici contemporanei, e opportunamente insistono sul peso della tradizione e sugli aspetti di continuità che permettono consumi storici e istituzionali diversi: ma il problema resta aperto, proprio per il fatto che essi danno alla comunità interpretativa (pubblico) anche la responsabilità di ratifica del valore dell'opera letteraria. E allora, nel difficile rapporto tra pubblici del passato e pubblici contemporanei, dove si colloca il critico-lettore delle opere del passato? dove si saldano le sue funzioni di storico e di riconoscitore dei valori? Qual'è il pubblico che egli deve avere di mira nelle sue analisi e nelle sue ricostruzioni? Dovrà descrivere il comportamento delle comunità interpretative storiche per proporlo come comportamento "giusto" alle comunità contemporanee? O dovrà descrivere parallelamente il rapporto dell'opera con le istituzioni letterarie di allora e con quelle di oggi, i modi di ricezione del pubblico storico e di quello contemporaneo? Perché mai l'immagine del comportamento di antichi gruppi sociali dovrebbe "persuadere" i ben diversi pubblici moderni? Ma siamo proprio sicuri che il valore di un discorso critico vada cercato nella "verifica" della persuasione"? Chi e come si tratta di persuadere? Qual'è la natura delle comunità interpretative a noi contemporanee? Non si danno anche in esse, e probabilmente .con maggiori complicazioni, quei conflitti, quelle contraddizioni, quei rapporti di forza che si davano nelle comunità interpretative storiche? E dove sono quei meccanismi di controllo preliminare del consenso, quegli infiniti intrecci che impediscono oggi ogni trasparenza della comunicazione e del giudizio, che frantumano ogni comunità in strati indefiniti, in corpuscoli spesso tra loro impermeabili? Del resto i discorsi che "tengono il campo", i dibattiti attorno a cui ruota il mondo intellettuale, le questioni che sono sul tappeto, mostrano a sufficienza, col loro effetto di assoluta inessenzialità, quanto possa essere impraticabile e controproducente ogni affidamento della critica alla pura "verifica della persuasione". Una nozione "aperta" della letteratura, della critica, della storia letteraria, nonostante i suoi innegabili dati positivi, nell'affidare ogni interpretazione in modo privilegiato ad un confronto col pubblico, rischia di sottomettersi a una situazione già data, a un universo di discorso già manipolato in partenza: la giusta affermazione della non categorialità della letteratura, del suo semprè diverso disporsi in organismi "istituzionali", rischia di piegarsi alla fine a sottoscrivere gli organismi e i punti di vista istituzionali che sono oggi in azione. A questi organismi e a queste "istituzioni", alla difficoltà di individuare oggi qualche "comunità interpretativa" credibile, una nozione "aperta" di letteratura può forse opporsi solo confrontandosi con ciò che la letteratura è divenuta negli ultimi secoli, raccogliendo ibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE/FERRONI l'eredità di una lunga tradizione conflittuale, che ha suggerito l'immagine di un rapporto col mondo diverso da quello già dato, che ha cercato di rompere certi modelli istituzionali, che si è posta in prospettive radicalmente critiche verso lo stesso destino dell'umanità. Si può forse credere ancora in una letteratura e in una critica in tensione e in conflitto col "contesto": e oggi è chiaro che ciò non significa automaticamente "avanguardia". Le forme di questa tensione possono qualche volta riconoscersi anche attraverso la concentrazione e il rigore della struttura testuale: ed è chiaro che questo non significa necessariamente "formalismo" (non mi pare perciò che sia da mettere del tutto da parte la nozione di "testo"; né che si possa fare a meno di certi sviluppi della semiotica, disciplina tutt'altro che rigida e monolitica). In questo contesto occorrerà poi confrontarsi con la stessa deperibilità della parola critica, con gli effetti di vacuità generale in cui l'orizzonte della critica sembra oggi sempre più configurarsi, come se nell'atto stesso di trasmettersi, di diffondersi, di ripetersi, essa sfiorasse il vuoto e l'inessenzialità (sono effetti che forse risalgono alla stessa moltiplicazione quantitativa della parola critica, che nella sua proliferazione, nei suoi infiniti orizzonti teorici, accademici, scolastici, giornalistici, sembra evaporare in ripetizione esteriore, in un ronzio vano attorno alla durata reale dei testi .letterari). La ricerca di un segno conflittuale può forse essere uno dei pochi modi per rispondere a questa situazione: e in questo volume l'intervento di Berardinelli tende proprio a vedere sotto il segno del conflitto quella particolare proiezione della critica che è la saggistica, in cui un discorso riflesso, di secondo grado, dedicato a testi, opere, oggetti più o meno determinati, disponibile a far uso degli strumenti e degli orientamenti più diversi, tende sempre a risolversi in un rapporto con il contesto che il critico-saggista trova intorno a sé. Berardinelli non propone definizioni teoriche della letteratura, né suggerimenti su come essa andrebbe studiata, né ipotesi sulla funzione del critico letterario in quanto specialista: si preoccupa piuttosto di orienta·rsi sulle diverse forme e i diversi tipi de]· "saggio" visto quasi come un vero e proprio genere letterario. Il valore della forma-saggio non si riconosce qui nella validità dei singoli giudizi sulle opere letterarie che ne costituiscono l'oggetto, ma nella sua stessa natura di forma letteraria: a Berardinelli insomma non interessa tanto l'immagine che delle opere letterarie ci dà la saggistica, ma l'immagine stessa della saggistica, la figura del saggista come "scrittore", piuttosto che come "critico" (e validissima è la tipologia che egli ne ricostruisce). Anche qui il pubblico è al centro dell'attenzione: per sua stessa vocazione la saggistica si pone entro un "rapporto" con un pubblico; il suo linguaggio "dichiara la situazione in cui riflessione ecomunicazione avvengono: sottolinea cioè il proprio rapporto comunicativo, persuasivo, polemico con un pubblico, esprime stilisticamente delle scelte di valore... " (p. 54). Non si tratta di studiare i modi in cui la saggistica si è occupata del rapporto tra le opere letterarie da essa eventualmente prese in considerazione e i rispettivi pubblici, i rispettivi universi istituzionali: si tratta di ricostruire, attraverso la storia e la tipologia del saggio, i diversi tipi di rapporto col pubblico a cui esso ha dato luogo. Berardinelli lo fa eccellentemente e in modo molto articolato, ma deve accorgersi alla fine che nell'attuale condizione della comunicazione di massa e nell'attuale conformazione dei pubblici l'esistenza del critico saggista è divenuta addirittura "aleatoria": la saggistica gli sembra poter sopravvivere soltanto in una solitudine disperata, ritagliando gli spazi conflittuali, nell'oggettiva assenza di un pubblico autentico e solidale. La qualità più preziosa della forma-saggio è nel suo prendere 77

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