SAGGI/CORONA "La classe media bianca occupa pressoché tutto lo spazio: e al centro sta la famiglia. Quando essa crolla, è come se crollasse il mondo ... " orientato anche su quella parte della produzione libraria ritenuta interessante per quel pubblico dai redattori di quelle pubblicazioni. Di solito vengono surrettiziamente riprese, amplificate e semplificate le parole d'ordine editoriali e gli elementi più spettacolari offerti dal giornalismo grandi firme. Sul piano qualitativo, così come non si segnalerà l'ultimo disco di Al Bano (il cantante preferito dal Ministro della pubblica istruzione Franca Falcucci ma non dai giovani, alla cui formazione culturale il ministro dovrebbe sovrintendere), non verranno presi in considerazione libri che scendano al di sotto di un certo livello. Ma Leavitt ci sarà senz'altro, insieme ad Andrea De Carlo, a Kundera, a Laila Romano, a Mclnerney, a Duras. E naturalmente in compagnia di Shepard, Karajan, Matt Dillon, Moschino e talvolta Anna Craxi e Suni Agnelli. È fatale che gli autori più giovani, quelli che hanno l'età dei loro lettori, riscuotano un interesse più marcato. Se poi sono americani riscuoteranno un'ulteriore rendita di posizione, essendo l'America ormai da tempo tornata a possedere il massimo del glamour agli occhi dei giovani di mezzo (o ci arrischiamo a dire di tutto il?) mondo. Non per un'ammirazione specificamente politica o ideologica, beninteso, ma perché la scomparsa dell'ombra del Vietnam ha restituito la possibilità di godersi senza più sensi di colpa il rock, il look, il pop e la gomma del ponte, spiccioli quotidiani dell'eterno mito. Va ancora meglio se, come spesso accade, i giovani leoni della letteratura sono, oltre che giovani e americani, "giusti": ovvero ben vestiti, fotogenici e ben fotografati, attraenti, Susan Minot, Jay Mclnerney, Amy Hempel, David Leavitt, Bret Easton Ellis lo sono. Le loro immagini (già, l'immagine ... ) sono intercambiabili con quelle dei fashion models che riempiono le pagine delle medesime riviste. Tant'è vero che quando questi scrittori vengono in Italia, a Milano (città diventata estremamente attraente proprio grazie all'industria della moda e dell'immagine), sono presentati al pubblico non in aule universitarie (per carità), né in case della cultura o circoli culturali o librerie, ma allo Spazio Krizia o al Caffè Moda. E fanno la loro figura. Il bacino di utenza di un romanzo come Le mille luci di New York è stato individuato e brillantemente descritto da Pier Vittorio Tondelli: "Questo scoppiettante, ironico, sconsolato, divertente, fulminante e probabilmente anche molto sincero romanzo diventerà nei prossimi mesi must di tutta quella fauna milanese attorno ai trent'anni che di giorno traffica negli studi fotografici, nelle redazioni dei giornali di moda, nelle agenzie pubblicitarie, nei capannoni dei film makers e di notte bazzica locali e ristorantini come La Nave, il Pois, il Plastic, l' Amnesie bevendo forte, tirando polvere, sognando New York e sperando di adescare, durante il forsennato nightclubbing qualche fotomodella americana, così, tanto per gradire. Il protagonista è infatti un giovanotto la cui vita è un continuo sbattersi fra locali e discoteche, assorbito dal ritmo anfetaminico della Grande Mela" ("l'Espresso", 16.11.86). La simbiosi fra autore e pubblico si fonda, oltre che su una evidente omologia sociale, su una nuova fiducia del primo nei confronti del secondo. Da parte dei minimalisti, sottolineava ; opportunamente Kim A. Herzinger nel saggio citato, si abbandona ; quell'atteggiamento ironico così tipico delle avanguardie storiche : e del postmoderno, in quanto funzionale alla selezione dei poten- . ziali lettori; si intende invece restaurare, secondo le parole di Car- : ver, "un patto fra scrittore e lettore". Un lettore non più d'élile, ma medio. E questo vale anche per chi minimalista, in senso stretto, non è. Proprio David Leavitt, infatti, mi offre lo spunto migliore, credo, per discutere di alcuni aspetti e risvolti di tale rinnovato patto. Nel maggio scorso, recensendo su "L'Indice dei libri del iblioteca Gino Bianco mese" La lingua perduta delle gru, (1986; Mondadori, 1987) accennavo di sfuggita al tradizionalismo della tecnica narrativa di Leavitt. Quel che mi colpiva in lui come in altri recenti scrittori americani era infatti la loro "medietà" (non mediocrità), segno appunto di una implicita rinegezione di un patto col lettore comune, medio, che, ricorderò di passaggio, potrebbe proprio essere quel "common man", interlocutore ideale di Whitman e della cultura democratica più illustre degli Stati Uniti. In una delle sue molte interviste Leavitt, che pure afferma di non avere in mente, nel momento della scrittura, nessun lettore specifico, si dimostrava consapevole del fatto che le sue storie avevano avuto successo perché erano evidentemente piaciute alle donne e ai gay, lettori più avidi della media. Né questo sembrava turbarlo, anzi. Proprio questa aperta fiducia in un pubblico generico, peraltro mai corteggiato con sicofantico lenocinio, mi pareva un elemento di novità, un elemento paradossalmente non convenzionale, non conformista, rispetto al modello diventato forse cliché, dell'Artista Alienato che rifugge dal volgo profano. Non solo: nella scelta di uno stile così piano, "classico", che, pur avendo assimilato tutte le sottigliezze e le complessità dell'esperienza novecentesca, guardava senza imbarazzo alla grande tradizione romanzesca dell'Ottocento, da Austen a George Eliot, riprendendone il grande afflato sentimentale, la felicità del narrare, vedevo da parte di Leavitt non solo una virata nei confronti dello sperimentalismo novecentesco, ma l'arma di una strategia narrativa impegnata in una nuova, più sofisticata militanza. Al centro di La lingua perdula delle gru sta il tema dell'omosessualità. Leavitt è il primo narratore americano che sappia parlarne come di un modo di essere in sé e per sé non peculiare, non drammatico, non conflittuale. Discostandosi dal filone dionisiaco (Eros e Thanatos secondo Genet, Burroughs, Pasolini), Leavitt tratta l'omosessualità come qualcosa che comunemente diremmo "normale". Senonché, agli occhi della più vasta parte della società, agli occhi della maggioranza eterosessuale, "normale" proprio non è. Nel momento in cui Leavitt fa dimenticare al lettore comune la diversità della situazione descritta, egli ottiene un sottile effetto, diciamo così, propagandistico, allo stesso modo in cui, a suo tempo e in vari modi, l'hanno raggiunto le altre "minoranze" americane: ebrei, neri, donne e così via. La maniera scelta da Leavitt è la più felpata: cattura il lettore prima che costui se ne accorga. Ed ecco che persino il recensore del "New York Times", Christopher Lehmann-Haupt (I 1.9.86), si sorprende a domandarsi: "Ma allora il genere sessuale non fa differenza? Possiamo forse cominciare a intravvedere una soluzione all'antica controversia sull'intrinseca limitatezza dell'arte omosessuale?" Questo può avvenire perché il romanziere, pur presentandosi come apertamente gay, si rivolge al pubblico generico senza l'abituale grinta del comiziante e, per altro verso, senza i consueti aloni morbosi e perversi (Capote, Tennessee Williams, Baldwin) che altro non erano se non l'introiettato riflesso di una condanna sociale. li narratore di Leavitt si presenta come un osservatore qualsiasi, che parla senza veli e senza reticenze di un particolare modo di essere e dei problemi che ne scaturiscono; portandoci dentro a una sfera esperienziale invisibile ai più, egli compie una "traduzione" di tale esperienza in termini analoghi a quelli con cui, all'inizio del secolo Jack London aveva "tradotto" al vasto pubblico la propria esperien~a di "hobo" (La s1rada), illustrandone "st!le di vita" e gergo. Operazioni, queste, del tutto opposte a qu~lla d1 Kerouac (Sulla strada) e dei Beats, che si muovevano solo all'm~erno del proprio gruppo, indifferenti al resto di una società ritenuta disgustosa e irredimibile. L'esperienza riferita da Leavitt presenta, come q_ualsi3:si altr~, aspetti problematici, che sono in parte di natura es1stenz1ale e m 65
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